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venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale

Buon Natale. Buon Natale soprattutto a chi soffre e sono i più numerosi. Quest’anno in particolare Buon Natale a chi è costretto a vivere il resto della propria vita in carcere, agli ergastolani, crudele augurio di un progetto di vita nuova a chi è condannato a dire addio alla vita.
Mente chi afferma di essere abbastanza forte da affrontare senza cedimenti la mostruosità dell’ergastolo, una tragedia che travolge parecchie vite, la propria e quella di chi è esposto alla sofferenza dell’amore, i padri, le madri, i figli, le sorelle, i fratelli, a vario titolo coinvolti nell’ergastolo e destinati ad un futuro tragico e immenso.
Il credente il quale afferma che bisogna sapere accettare questo castigo, il laico che esibisce forza d’animo affermando che essa è un baluardo alla cui nobiltà non bisogna mai rinunciare, mentono.
L’uomo è lontano dalla santità e indulge piuttosto al rancore, verso se stesso, verso lo Stato, verso Dio per qualcosa che è difficile da capire e da accettare, quel male e quel dolore sui quali ci interroghiamo ma la cui dimensione autentica percepiamo solo allorché ci imbattiamo in essi e comprendiamo in ritardo con che cosa ci stiamo confrontando.
I fantasmi dell’ergastolo affollano la mente e spingono verso una realtà consunta fatta di rimorsi e attraversata da tentazioni perverse, in cui la scelta è obbligata alla resa, in cui ogni giorno, ogni istante sono vissuti all’insegna del fallimento. Esso è analizzato, sezionato, indagato fino al parossismo e al passo successivo, la follia. La solitudine deflagra in tutto il suo fragore ed è lontana dalla feconda fuga dal mondo di un Montaigne.
Buon Natale dunque agli ergastolani nella misura in cui sapranno rigenerare la loro vita e farsi santi.

giovedì 23 dicembre 2010

Della carcerazione preventiva

In un botta e risposta a Otto e Mezzo del 20 dicembre Di Pietro si è sentito accusare da Porro, vice direttore del Giornale, di non essere coerente col suo passato di pm artefice, all’epoca di tangentopoli, di quella stessa carcerazione preventiva che adesso boccia nella versione proposta da Gasparri contro la violenza nelle manifestazioni degli studenti. Di Pietro ha risposto che anche uno studente al primo anno di giurisprudenza sa che la carcerazione preventiva ampiamente impiegata all’epoca di tangentopoli era uno strumento della magistratura contro chi aveva commesso un reato, mentre la carcerazione preventiva proposta da Gasparri è uno strumento che verrebbe utilizzato dal potere esecutivo contro chi ancora il reato deve commettere. Orbene la carcerazione preventiva è già difficile da accettare, (e infatti da più parte se ne auspica una modifica) persino quando ricorrono i requisiti di legge che la rendono necessaria, figurarsi se può essere condivisa allorché viene invocata, come fa Gasparri, contro degli innocenti che ancora non si sono macchiati di alcun reato. Ma è anche vero che la carcerazione preventiva di cui ha abusato Di Pietro all’epoca di tangentopoli aveva come destinatario non, come egli sostiene, chi aveva commesso un reato bensì chi era accusato di avere commesso un reato ed era quindi presumibilmente innocente. C’è una bella differenza che dovrebbe cogliere non dico uno studente al primo anno di giurisprudenza ma almeno un laureato in giurisprudenza che ha esercitato la funzione di magistrato, seppure semi analfabeta. Tranne che non sia in malafede!

venerdì 17 dicembre 2010

La riforma contestata

Intervenuto alla trasmissione “In mezz’ora” di Lucia Annunziata, Gianfranco Fini, commentando il progetto annunciato da Berlusconi di porre mano alla riforma della giustizia come primo atto dopo l’ottenimento della fiducia, si è domandato sarcasticamente se questa riforma sia una emergenza così impellente o se essa non nasca solo dalla preoccupazione di Berlusconi di sottrarsi ai processi. In verità in un successivo passaggio, senza tante fumisterie retoriche, l’on. Fini ha detto chiaramente che l’on. Berlusconi non vuole schiodarsi dalla poltrona di primo ministro per non affrontare i processi che incombono su di lui.
Ora, pur non facendo sconti al Presidente del Consiglio sulle sue reali finalità, è giusto liquidare il progetto di riformare il sistema giudiziario con una battuta sarcastica negandole il titolo di impellenza e relegandola al ruolo di stampella berlusconiana? La giustizia in Italia ha o non ha una sua problematicità che travalica le mire del premier e che è ingiusto sottovalutare aspettando che ad affrontare il nodo giustizia sia un governo gradito all’on. Fini? Non è invece giusto soppesare in tutta obiettività se la riforma è effettivamente necessaria e urgente e se le proposte di riforma sono congrue nonostante il governo che le propone? L’odio di Fini nei confronti di Berlusconi e una sua antica vocazione forcaiola che gli fa vivere con sospetto qualsiasi modifica all’attuale assetto della giustizia come un favore alla delinquenza, non basta ad eludere un problema reale e un progetto per affrontarlo. Né bastano le ragioni di un largo fronte schierato sulla intoccabilità delle prerogative della magistratura di cui si teme la perdita d’autonomia. A dispetto di tutto e in particolare del sarcasmo di Fini, il sempre annunciato e mai realizzato progetto di riforma della giustizia è urgente. Vediamo perché.

La giustizia penale in Italia è amministrata con il criterio così detto accusatorio che attribuisce alla pubblica accusa il compito di dimostrare la colpevolezza dell’imputato. Nella realtà l’onere della prova transita dalla pubblica accusa all’imputato costretto a dimostrare di essere innocente di fronte ad accuse spesso non provate. Nelle more del dibattimento l’imputato è costretto a patire una carcerazione così detta preventiva che anticipa una espiazione inflitta in anticipo rispetto ad una sentenza che potrebbe essere di assoluzione. Non c’è niente di simile in nessun altro Paese al mondo! Non solo ma, essendo i detenuti in attesa di giudizio il 40% della popolazione carceraria, si determina quell’affollamento che è una delle patologie del nostro sistema giudiziario.

I processi hanno tempi biblici sia nel penale che nel civile. I risultati sono nell’un caso di incertezza della status dell’imputato per lunghi anni con conseguenze devastanti per la sua immagine e la sua vita e nell’altro caso di precarietà nella dialettica giuridica delle controversie con evidente danno a persone e imprese e di diffidenza degli investitori stranieri che si tengono lontani da un mercato che non assicura certezza del diritto.

I giudici giudicanti e requirenti appartengono allo stesso ordine. Questo comporta l’inusualità tutta italiana, che non ha riscontro in nessun altro Paese, di un magistrato che decide sulle ragioni di un collega contro quelle di un estraneo all’ordine quale è l’avvocato difensore. Può avvenire inoltre che un magistrato proveniente dall’incarico di requirente passi a quello di giudicante e si trovi a valutare circostanze sulle quali egli stesso ha indagato e comunque porta con se la cultura del pregiudizio accusatorio al quale è stato educato. In queste condizioni si ha ragione di pensare che la gestione del dibattimento non assicuri parità di peso ad accusa e difesa con evidente penalizzazione del risultato processuale.

L’obbligatorietà dell’azione penale in effetti produce una discrezionalità nella scelta delle iniziative da intraprendere da parte del PM che sommerso da notizie di reato è obbligato a decidere a quale attribuire la precedenza. Stando così le cose perché intestardirsi con l’ipocrisia di una obbligatorietà che si traduce in un formidabile strumento nelle mani di una delle due parti in causa senza alcun deterrente che ne limiti eventuali intenti persecutori?

La tanto strombazzata funzione redentrice della detenzione prevista dalla Costituzione e dallo stesso ordinamento penitenziario, è in effetti vanificata dalle condizioni carcerarie frustranti che instupidiscono piuttosto che redimere i detenuti. Uomini costretti a vivere venti ore su ventiquattro in cella senza soluzioni che diano alla loro vita un qualsiasi stimolo, finiscono per coltivare una pericolosa sensazione di vuoto e di disperazione il cui esito può essere drammatico. La cadenza ormai sempre più frequente dei suicidi in carcere ne è la prova.

L’ergastolo è quanto di più stupido e crudele possa immaginarsi come pena al colpevole, anche il più abietto. Che senso ha negare ad un uomo il proprio futuro quando invece gli si potrebbe infliggere una lunga pena detentiva che assolverebbe adeguatamente lo scopo della punizione permettendogli un percorso di riflessione e possibile ravvedimento in vista di uno sbocco alla sua scarcerazione? Un uomo senza futuro è un uomo destinato a inaridirsi, che giorno dopo giorno perde i contorni della realtà e si confina in un suo mondo onirico popolato di deliri, è un uomo che fa del nulla la sua realtà e la traduce in insulsaggine, destinato all’abbrutimento o, se ne ha gli strumenti, alla santità. Ha lo Stato il diritto di lobotomizzare un suo cittadino?

Potrei continuare ancora a lungo ma mi fermo qui e chiedo: i problemi della giustizia sono o non sono reali? E la sua riforma è o non è giusta e urgente?

martedì 7 dicembre 2010

La morale che conviene

Sul “caso per caso” pronunciato dal dott. Ingroia a proposito di Ciancimino jr. Pierluigi Battista ha scritto un articolo che fotografa nitidamente l’abitudine tutta italiana di utilizzare una doppia morale a seconda della convenienza. Di volta in volta si invocano le garanzie a tutela degli amici e si reclama la sospensione dei diritti nei confronti dei nemici. Come scrive in maniera esemplare Battista, “il garantismo, limpido e cristallino quando si tratta di tutelare i propri amici, il proprio partito, il proprio clan, è inesistente quando a essere vittima di una ingiustizia e di uno Stato di diritto fragile come è quello italiano è il nemico” e ancora “strepiti e proteste e firme, quando è uno dei nostri, silenzio, indifferenza e tacita complicità se a essere preso a bersaglio della giustizia politica è un avversario”. Tuttavia in questa doppia morale descritta da Battisti c’è una forma di giustizia data dallo strabismo garantista su cui può contare il cittadino difeso o avversato dai partigiani in servizio permanente effettivo, a seconda della consorteria alla quale egli appartiene. Certo il garantismo nobile che prevede la difesa dei diritti fondamentali persino dell’avversario non è di casa in questo circo farisaico e tartufesco ma almeno chi appartiene ad una parrocchia sa di potere contare su una difesa d’ufficio spesso accordata tanto più quanto più il difeso è indifendibile ma è utile alla causa. Convenienza, militanza, cultura del sospetto, presunzione di superiorità morale, fedeltà ai teoremi, doppiogiochismo e facce di bronzo ci forniscono tutti i giorni esempi imbarazzanti di temerarie costruzioni. Se ne potrebbe stilare un elenco che risulterebbe infinito. Altra storia quella dei cittadini non comuni, i paria, i reietti ai quali non è concesso neanche il garantismo di parte. Essi non sono utili a nessuno, anzi lo sono nella misura in cui forniscono spunto per sussulti orgasmici di massa, materia per la costruzione di rendite di posizione, pulpiti su cui assidersi pontificando di morale, mattatoi in cui si può in tutta tranquillità scannare il diritto e la verità. Di uno di questi impresentabili parla Battisti chiamando in causa Paolo Signorelli, fascista che non ha trovato nessun difensore di parte perché non aveva santi nei paradisi che contano. Cito Battista: “ Non credo di condividere nemmeno una virgola delle cose che Signorelli ha scritto e detto nella sua vita. Ciò non dovrebbe impedire di riconoscere che Signorelli è stato vittima di una mostruosa ingiustizia, patendo dieci anni di galera per poi vedere riconosciuta la sua totale innocenza con una assoluzione piena e inequivocabile. Dieci anni di galera da innocente: e solo perché un teorema giudiziario aveva indicato Signorelli come la mente ideologica dello stragismo nero. Una vergogna politica, morale, giudiziaria………….che non è stata mai denunciata.” Battista si limita ad un caso di mala giustizia politica perché la sua sensibilità lo proietta verso questo tipo di orizzonte, io, per l’esperienza che ho vissuto, ho conosciuto un altro tipo di mala giustizia altrettanto se non più drammatica in cui il posto d’onore spetta agli imputati di mafia. Nel carcere di Opera ho conosciuto un detenuto condannato all’ergastolo per l’eccidio di via D’Amelio in una stagione in cui la deriva forcaiola doveva consegnare all’opinione pubblica dei colpevoli purchessia, scagionato da uno degli ultimi pentiti di mafia e ancora, dopo 15 anni di detenzione da innocente, in galera senza che lo Stato provveda alla revisione del processo. C’è niente che possa giustificare tanta infamia e c’è chi difenda quest’uomo? O il suo marchio mafioso lo rende indifendibile e lo assoggetta a quella che Battisti definisce una “ velocità plurima “ che marcia velocemente o lentamente a seconda dei casi? Denunciare questo episodio è legittimo o debbo aspettarmi un’altra carrettata di contumelie?

mercoledì 1 dicembre 2010

La crisi dello Stato


Credo sia giunto il momento di chiedersi se l’Italia ha ancora titolo per chiamarsi Nazione.
Se vale il concetto di Nazione inteso nel senso rousseauiano di corpo al quale vengono affidati i diritti dei singoli per ricavarne una sovranità nazionale la cui obbedienza “ ci forza ad essere liberi “, l’Italia non è più una Nazione. Il desolante panorama che abbiamo di fronte parla di oppressione anziché di libertà, perché non hanno funzionato le salvaguardie pensate da Constant contro il rischio di un indirizzo autoritario della volontà generale e perché è mancata la classe dirigente.
La libertà e l’autonomia individuali sono state invase e sacrificate e la così detta religione civile è diventata un simulacro che si nutre di una sacralità vuota e procede per miti in una parvenza di democrazia imbalsamata nelle sue liturgie. E mentre i soliti sacerdoti si baloccano con i refrains di una stagione giunta al capolinea invocando l’intoccabilità della costituzione, la divisione dei Poteri e il rispetto dei relativi ruoli , l’inviolabilità della volontà popolare, la sovranità del Parlamento, la solennità delle garanzie costituzionali, le” magnifiche sorti e progressive “ della nostra democrazia, nel cui funzionamento tutte le parti politiche giurano di impegnarsi, mentre imperversano parole vuote, i nostri pensionati vengono consegnati ad una vita di stenti, i giovani sono lasciati alla mercé della loro disperazione, la nostra cultura e le nostre opere d’arte sono abbandonate allo sfascio, le imprese a se stesse e le nostre città al degrado, la nostra immagine nel mondo è sporcata dalle organizzazioni criminali ma anche da certi nostri impresentabili governanti, il Paese è ostaggio della piazza, i Poteri si accapigliano fra loro.
Si cominciano ad avvertire i sinistri scricchiolii della catastrofe mentre la nostra classe dirigente produce politici litigiosi che hanno a cuore interessi particolari, che riescono ad esprimere le loro elevate virtù al massimo issandosi sui tetti a caccia di visibilità, che fanno volare il debito pubblico al doppio dello standard europeo indicato quale soglia a garanzia della messa in sicurezza, che sperperano, corrompono e si fanno corrompere per fini miserabili, che sfasciano il tessuto sociale e produttivo e distruggono la vita e le garanzie dei cittadini facendo della giustizia il tempio dell’ingiustizia. In questo clima proliferano gli imbonitori e i tribuni servi delle opposte ideologie che confondono l’opinione pubblica e soffiano sul fuoco di faide insanabili. In questa che è una vera e propria rimozione del concetto di bene comune, matura e si consuma il dramma degli orfani del sistema, di chi non ha la protezione della consorteria d’appartenenza, dei paria senza visibilità che hanno perduto la speranza del futuro e si dibattono nella loro impotenza, ma si consuma anche la deriva di un Paese ormai allo sbando senza che i protagonisti di esso provino vergogna e abbiano l’intelligenza di capire che gli interessi particolari finiranno per travolgere deboli e forti indifferentemente e che è necessario un comune impegno che metta il Paese al riparo dal default che prima o poi, ma piuttosto prima che poi, busserà alla nostra porta.
Un paese così fatto può ancora chiamarsi Nazione? E la sua classe dirigente che procura lutti e sofferenze, che si è appropriata dei nostri diritti impedendoci di essere liberi, che non ha la credibilità morale e la forza per esercitare la sovranità nazionale, si discosta molto dai mali che pretende di guarire?

martedì 23 novembre 2010

Carfagna


La querelle esplosa a proposito della ministra Carfagna è la cartina di tornasole di atteggiamenti che derivano dalla sedimentazione di comportamenti accumulati durante tanti anni di asservimento ai parametri della partigianeria politica. Ed è così che la Carfagna diventa tutto e il contrario di tutto. Di lei è stato detto che è l’emblema della “mignottocrazia” proiettata dai fasti del velinismo a quelli della politica, messa in croce, come un’intrusa della politica che vola alta, dagli schizzinosi bardi di sinistra o difesa, come l’esempio della capacità di guadagnare sul campo una sua credibilità politica, dai disinvolti pretoriani di destra , tutto a seconda della convenienza di parte. Scoppiato il caso, è scoppiata anche la decenza e si sono invertiti i ruoli. Chi fino ad ora l’ha attaccata adesso la innalza sugli scudi e la incensa quale vittima, l’ennesima , del solito, bieco berlusconismo, chi invece l’ha difesa, la demonizza come l’esempio di una inconsistenza che non ha alcun valore, campione di intelligenza col nemico con cui è sorpresa a fraternizzare. Si scade nell’insulto da sottoscala e la stessa ministra contribuisce all’ ”ammuina” parlando di lotta tra bande, come si trattasse di un regolamento di conti tra malfattori e apostrofando l’on. Mussolini con l’epiteto di “vajassa” . Tutto piegato all’interesse di bottega e senza riguardo per il senso della misura e per ciò che è effettivamente avvenuto e che si riduce ad un puro e semplice episodio di dialettica politica: la ministra Carfagna ha provato a portare avanti un suo progetto che si scontra con quello di altri militanti del PDL e, a quanto pare, ha perso la partita perché Berlusconi ha scelto di sostenere i suoi avversari. Punto e basta! In un partito normale tutto si sarebbe risolto senza strepiti nell’ambito di una dinamica in cui il successo e l’insuccesso sono messe parimenti nel conto, nel PDL invece è scoppiata una vera e propria faida di tutti contro tutti in cui la lotta politica scade in una personalizzazione feroce che fa dei personaggi in campo prede di un safari che stride persino con la spregiudicatezza della nostra scalcagnata politica. Quale è il senso di tanto livore in una contesa degna di miglior causa? La signora Carfagna, qualunque sia quello che qualcuno con poca eleganza chiama il suo peccato d’origine, cioè la sua provenienza dagli ambienti dello spettacolo, col tempo ha ben figurato e ha portato avanti battaglie meritorie delle quali persino i suoi avversari politici le hanno dato atto. Ad un personaggio dello spettacolo, come Barbareschi, non è stata rimproverata la sua provenienza e nessuno si scandalizza per la sua elezione in Parlamento e per gli incarichi che sta ricoprendo nel neonato FLI. E allora perché tante riserve e tante grevi insinuazioni nei confronti di una donna che oltretutto sta ben meritando e sta dimostrando di che stoffa è fatta affermando che, non sentendosi tutelata dal partito, ne uscirà rinunciando sia all’incarico di ministro che al suo status di parlamentare e precisando che non aderirà a FLI con cui è stata sospettata di intendersela sotto banco? Se farà fede a quanto sostiene, dimostrerà di avere più attributi di tanti maschietti! E allora, ripeto, perché tante riserve e soprattutto tanto malanimo? E’ possibile che essi derivino dal solito irriducibile maschilismo da caserma che non concede sconti ad una donna intelligente perché è bella, è possibile che le mire di quest’ultima suscitino più di una perplessità sacrosanta o meno, che però andrebbe espressa con maggiore garbo politico, ma è più verosimile che tutto nasca dal fatto che nel PDL ormai da tempo si è perduta la bussola e tutto è affidato agli umori di chi un bel mattino si alza con l’uzzolo di sproloquiare senza conoscere l’abc dell’ortodossia politica. In definitiva anche gli altri contendenti non sono stati certo trattati con eleganza dalla signora Carfagna. E’ stupefacente come un partito padronale che dovrebbe essere gestito con criteri che mirano al profitto ( anche inteso nel senso più nobile di interesse generale ) sia lasciato alla mercé di una classe dirigente che ne sta sperperando il patrimonio. E’ come se la gestione di una multinazionale venisse affidata ad un amministratore di condominio e, laddove sarebbero necessari lungimiranza, capacità di mediazione, attenzione ad evitare inutili contrasti personali e tentazioni centrifughe, saggezza necessaria a gestire la complessità di anime così diverse, a tenere a bada le ambizioni non sempre sacrosante di arrembanti personaggi che hanno dato l’assalto alla diligenza, a scoraggiare piaggerie interessate, insomma laddove ci sarebbe bisogno di un Berlusconi, Berlusconi è mancato.

martedì 16 novembre 2010

Della solitudine


Si parla della solitudine e delle sue diverse categorie, se ne parla a proposito degli anziani ma non soltanto, se ne parla per motivi che hanno a che fare con l’età, e sono i più frequenti, ma anche per motivi che riguardano la banalità dell’esistenza o la sua drammaticità. Ernesto Galli della Loggia, con acutezza impareggiabile, ha fotografato la solitudine di Berlusconi consegnato da una sorta di cupio dissolvi all’autoisolamento. E’ nel destino degli uomini di potere fare i conti con la solitudine e con quella spada di Damocle che Dioniso di Siracusa faceva pendere attaccata ad un crine e che l’accorto uomo di potere si sforza di tenere lontana dalla propria testa. Berlusconi invece sembra impegnato a recidere il crine.
Non c’è dubbio che egli oggi sia un uomo solo, è un uomo che, pur capace di eccellenti intuizioni, non ha saputo realizzarle, pur capace di accumulare un credito enorme, lo ha sperperarlo sull’altare di una vocazione al suicidio che ha a che fare più con Freud che con la politica, è un uomo che ha mal tollerato una condizione di tranquillo potere ritenuta inadeguata alla sua dimensione debordante, al punto da provocarla in una sfida che lo ha visto avvitarsi su se stesso con più o meno consapevole masochismo. In una realtà spietata come la nostra le solitudini ricorrono spesso. E’ l’agguato più insidioso per gli anziani, specie per quelli che hanno concluso la loro vita lavorativa e avvertono un senso di inutilità. La mancanza di un contributo alla società li deprime. Man mano hanno perduto i valori di una intera esistenza, gli antichi amici, gli affetti più consolidati, e vivono smarriti una vita che sentono vuota. Ma c’è una solitudine più drammatica che Alberoni definisce solitudine da abbandono ed è quella che sta conoscendo Berlusconi, una solitudine che, contrariamente a quanto sostiene Bondi, è più umana che politica perché attiene ad una personalizzazione della politica che ha indotto il Presidente del Consiglio a scelte di pancia più che di testa. Gli asini che adesso scalciano ne sono una prova. E’ la solitudine figlia del fallimento che ti fa il vuoto attorno, dove la perdita di riferimenti certi che l’avanzare del tempo infligge con pietosa e graduale selezione, deflagra improvvisa e totale. E’ la solitudine che ti fa sperimentare la crudele fragilità della tua condizione, l’abiura dei sodali di un tempo che si ritraggono guardinghi, la condanna delle tue scelte da parte di chi fino a ieri ti incensava, la necrosi di antichi rapporti da cui si leva un fetore insopportabile e che rischia di condannarti ad una vita di rimorsi e rimpianti, incapace di sognare e progettare, che si rannicchia su se stessa e attende la fine.
Tuttavia quest’uomo ci ha abituato ai suoi scatti d’orgoglio, avventato e generoso, tosto e amante delle sfide, non è escluso che anche stavolta ce la faccia a uscire dall’angolo.

martedì 9 novembre 2010

A proposito di indegni e affini

Troppa grazia e tanta voglia di far male nei commenti al mio ultimo post. E' il bello dell'agorà dove la democrazia si dispiega pienamente e talvolta tracima in demagogia, dove tutti, anche i più sprovveduti, hanno il diritto di dire tutto, specie quelli che, al riparo dell'anonimato, possono in tutta tranquillità abbandonarsi al coraggio della viltà dando fondo ai loro istinti più malandrini. I commenti di cui sono stato oggetto esprimono tutti lo stesso concetto: Nino Mandalà è un indegno, una merdaccia, una vergogna che non ha diritto a niente e tanto meno a scrivere in un blog, andrebbe sepolto a vita in carcere, e altro che sarebbe troppo lungo elencare. Non me ne lamento, chi, come me, ha deciso di aprire una finestra sul mondo, deve sapere accettare il rischio degli schizzi che gli piovono addosso.
Non posso rispondere a tutti.
Accontento solo Pier che mi sfida a pubblicare la sua invettiva emblematica del campionario di fango dal quale sono stato investito. Eccola: "Quelli come voi andrebbero internati nei gulag senza processi, proprio come avete fatto con le vostre vittime, come avete fatto con la Sicilia".
Non posso accontentare invece Francesco che mi rimprovera di non scrivere nulla contro la mafia. Non posso Francesco perché ho ben chiaro che una mia iniziativa in tal senso non risulterebbe credibile e rischierebbe di apparire strumentale. Sono già stato accusato in passato di ciò e mi è bastato.
Non resisto infine al mio impulso e protesto contro Artiglio, Dizzy e altri che mi accusano di essere un assassino. Questo no, non lo posso accettare, anche alla più stupida delle cattiverie c'è un limite.
Per il resto che dire. Quando ho letto questi commenti, mi sono chiesto se merito tanta severità o se essa non sia il frutto avvelenato dei messaggi consegnati alla pancia di una opinione pubblica sprovvista degli anticorpi necessari a neutralizzare le manipolazioni, da parte di cattivi maestri senza tanti scrupoli che , sbattendo il mostro in prima pagina senza tanti complimenti e senza effettuare le dovute verifiche ma anzi falsificandone i risultati, fanno nascere, come in una macabra matrioska, da un mostro altri mostri con le sembianze dei bravi cittadini trasformati in altrettanti Robespierre, privati della loro innocenza, incitati all'esercizio della giustizia sommaria, nutriti d'odio, inviati ad una crociata che ha come obiettivo quello di avvelenare il clima nel quale far fiorire rendite di posizione. I bravi cittadini diventano così strumenti per la costruzione di carriere altrimenti impensabili, fatta salva l'onesta battaglia dei tanti che corrono i loro rischi senza secondi fini.
Di veleno in veleno perdiamo di vista ciò su cui dovremmo dibattere e Beccaria,Voltaire, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, le battaglie di principio dei radicali, diventano roba da rottamare in omaggio ai Torquemada da strapazzo che fanno a gara di intolleranza agitando il meglio del loro armamentario moraleggiante. Con buona pace del buon senso e del buon gusto.

lunedì 1 novembre 2010

Carcere duro, voglia di equivocare

Il 41 bis è una pena detentiva che non ha come scopo "particolari modalità afflittive".
E' quanto sostiene il prof. Vittorio Grevi in un articolo apparso sul Corriere della Sera di ieri in cui contesta l'uso della formula "carcere duro" a proposito del 41 bis che egli pudicamente definisce "regime carcerario differenziato".
Si esprime esattamente così: "La formula carcere duro è fuorviante in quanto evoca modalità particolari afflittive di esecuzione della pena detentiva ( se non,addirittura,della carcerazione preventiva ), quasi che lo scopo fosse di aggiungere un "di più" di sofferenza a carico di soggetti già sottoposti a restrizione della libertà personale in carcere ( un pò come accadeva nei confronti dei detenuti in catene o vincolati dalla palla al piede....)" e conclude riconoscendo che, pur producendo in concreto "un grave irrigidimento delle modalità della vita detentiva, lo scopo non è quello di infliggere una maggiore afflizione fine a se stessa...bensì esclusivamente quello di evitare che si possano mantenere dal carcere illeciti collegamenti con l'associazione criminale d'appartenenza....appena una tale esigenza di sicurezza verso l'esterno dovesse venire meno, anche il relativo regime carcerario di rigore dovrebbe essere revocato".
Ci mancherebbe che il legislatore, nel varare una legge,lo facesse con lo scopo di affliggere i destinatari di essa, ma questo significa forse che il 41 bis non è un regime di carcere duro?
Vediamo di cosa parliamo.
Il 41 bis prevede una serie di restrizioni particolari rispetto alla detenzione solita. Il detenuto non ha alcuna possibilità di contatto fisico con i familiari, è sottoposto a censura sia per ciò che riguarda i colloqui che per la corrispondenza, è sclerotizzato nei rapporti con i suoi compagni,può usufruire in maniera limitata dell'area libera ( il cosiddetto passeggio nel cortile recintato ), ha diritto ad un'ora di colloquio al mese che spesso non è neanche fruito perché i familiari non hanno tutti i mesi la possibilità economica di coprire la lunga distanza che li separa dal luogo di detenzione. Si può ben dire che questi uomini sono murati vivi, tanto da avere suscitato un richiamo all'Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo e fatto dichiarare al suo presidente: "Ancora per l'Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l'associazione mafiosa, con grandi rischi per la salute psichica del carcerato". Detto questo, c'è da interrogarsi sulla congruenza di una misura che, dal punto di vista logico,mostra i suoi limiti. Contro la convinzione del prof. Grevi secondo cui, appena le esigenze di sicurezza verso l'esterno verranno meno, il 41 bis sarà revocato, parlano i dati relativi al persistere di esso per decenni nei confronti di detenuti che, si presume, in tutti questi anni non hanno potuto coltivare, grazie al 41 bis, rapporti con l'esterno.
Ho una discreta competenza in proposito e posso dire che uomini che hanno vissuto in quelle condizioni sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata. Che senso ha reiterare il 41 bis nei confronti di questi uomuni? E se invece si ritiene che,nonostante il 41 bis, questi uomini hanno continuato a mantenere illeciti rapporti con l'esterno durante tanti lunghi anni,significa che il 41 bis ha fallito, e allora che senso ha tenerlo in vita tranne quello di attribuirgli uno scopo afflittivo?
Io dico che il 41 bis, per le considerazioni che ho espresso e con riguardo alla necessità di contemperare esigenze di sicurezza con esigenze di equità, è una misura che può benissimo essere sostituita da un efficace regime ordinario esercitato con gli strumenti a disposizione del DAP.
Per quanto concerne poi il fatto che esso debba essere considerato o no regime duro, sarà pur vero che il suo scopo non è afflittivo ma è vero altresì che la sua natura ha finito per essere crudele con buona pace dei virtuosismi eristici del prof. Grevi.
Non manco mai di proporre , quando se ne presenta l'occasione, la lettura di un brano della lettera di un detenuto in regime di 41 bis e continuerò a riproporla ancora in futuro nella speranza che essa giunga al cuore del Ministro di Grazia e Giustizia: "Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro divisorio e batté le mani contro di esso credendo in un gioco,sorrise ancora e ancora batté le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi acchioni spalancati e sgomenti".
Non vogliamo dire che il 41 bis è un regime di carcere duro? Diciamo allora che è un regime odioso!

sabato 30 ottobre 2010

Il destino del Sud

Nell'articolo apparso sul Corriere della Sera del 26 ottobre,"Classe (per nulla) dirigente", il professore Panebianco non risparmia critiche all'inefficienza della classe dirigente meridionale. Sono critiche condivisibili perché non si può non essere d'accordo con lui quando scrive che "il vero dramma del Mezzogiorno non consiste nei gravi problemi che lo attanagliano ma nel fatto che le sue classi dirigenti siano incapaci di cercare soluzioni e rimedi". Niente da obiettare, i disastri sono sotto gli occhi di tutti ed anche le colpe di noi meridionali.
E non si può non essere d'accordo anche quando egli scudiscia il nostro vittimismo: "non perdono un colpo quando si tratta di accusare Roma, lo Stato, di avere abbandonato il Sud: un'espressione che testimonia di uno stato di minorità, psicologica e culturale (sono i minori quelli che non si possono abbandonare)" e ancora quando denuncia la tendenza al ricatto di un Sud che pone sul piatto della bilancia il suo potere contrattuale di bacino di voti senza i quali non si vincono le elezioni nazionali, per bussare a cassa.
Tutto vero e lo sottoscrive un uomo del Sud come me che non vuole nascondere dietro il dito del vittimismo i vizi di un popolo e anzi rincara la dose. Il nostro “stato di minorità” si manifesta persino nel senso d’ospitalità esagerata con cui accogliamo chi viene dal Nord e che altro non è se non un inconscio complesso di inferiorità e la voglia di ingraziarsi un ospite sentito come l’illustre paradigma di ciò che vorremmo essere. Si manifesta quando, dopo pochi giorni di soggiorno a Milano o a Torino, adottiamo il dialetto del Nord riconoscendogli dignità di lingua autentica e ritenendo il grottesco scimmiottamento che ne deriva la conquista di una identità emendata del peccato della nostra appartenenza originaria. Tutto vero, siamo un popolo che non ha trovato in se gli strumenti per rivendicare il titolo di maggiorenni capaci di gestire il proprio destino. Detto questo ( non dico nulla sugli sforzi che l’Italia ha o non ha compiuto per agevolare l’emancipazione della classe dirigente meridionale, per essere tacciato di fare del vittimismo), va però aggiunto che non possiamo limitarci ad una analisi così riduttiva. Tutto parte da lontano e ci riporta a come nasce l’Italia, su che cosa essa si fonda e a quale è stato l’humus in cui sono allignati i mali del Sud. Senza giungere a condividere quanto scritto da Mancuso secondo cui “una delle condizioni perché in Italia possa sorgere una religione civile è che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune”, perché ritengo che la fede abbia uno scopo meno banale e che la religione civile si rifaccia a un Dio non solo cattolico, non c’è dubbio che la religione civile ha a che fare col senso di appartenenza comunitaria e che ha ragione Jean Jacques Rousseau quando pone a base del contratto sociale il legame che annoda gli individui con l’identità collettiva e li assoggetta alla volontà generale intesa come primato dell’interesse comune sacralizzato fino al punto da ancorarlo alla pena delle sanzioni divine in caso di sua disattenzione. Ebbene dove si è manifestata la religione civile quando si è fatta l’Italia? O non è invece avvenuto il contrario e cioè che essa è stata ignorata , anzi avversata laddove ha fatto capolino, come per esempio in quella religione laica di Mazzini che aveva come fine l’unità d’Italia in uno spirito ideale che la sentiva come una missione? Alla religione civile si è sostituita la religione politica che ha diviso gli italiani e ha prodotto quest’Italia che ci ha regalato il fascismo, la guerra civile e la guerra di posizione tra schieramenti arroccati su ideologie inconciliabili e che non finisce di farsi del male regalandoci una classe politica nazionale che fa il paio con quella meridionale e statisti come Berlusconi e Prodi, campioni di un Paese incapace di rifondare la Nazione ormai in caduta libera (in proposito l’articolo di Tullio Gregory sul Corriere di giorno 27), frutto delle tante imposture che hanno attraversato la nostra storia, non ultima quella sull’unità d’Italia.
Perché senza fare l’apologia del regno borbonico che il professore Panebianco attribuisce ai meridionali, non possiamo però neanche tessere le lodi dei Savoia sovrani che già nell’Ottocento facevano a gara di impresentabilità con i Borboni e che in futuro si sarebbero distinti, sappiamo come, nelle vicende italiane. Senza volere trattare “Cavour e Garibaldi come criminali di guerra” e “liquidare la storia d’Italia unita come il frutto di un’odiosa colonizzazione”, non possiamo ignorare ciò che è stato fatto ai contadini di Bronte fucilati come briganti (in che cosa differisce questo episodio dal trattamento riservato dalle nostre truppe d’occupazione agli insorti nelle colonie somale e libiche?), non possiamo fare finta di niente ignorando che gli interessi del Sud sono stati sacrificati a quelli del Nord ed enfatizzare l’unità d’Italia come un’epopea popolare quando invece essa fu la realizzazione di un sogno minoritario portato a compimento come uno di quei miracoli che ogni tanto la storia ci regala e che fu reso possibile, tanto per cambiare, dalla inconsistenza identitaria della popolazione meridionale che non si smentì neanche allora e non ebbe coscienza di ciò che stava avvenendo non partecipando né in un senso né nell’altro all’edificazione del proprio destino che si limitò a subire.
Nessuna autoassoluzione ma anche nessuna mistificazione.

lunedì 25 ottobre 2010

Calogero

Calogero consuma i suoi giorni in carcere ormai da quindici anni, da quando è stato condannato all'ergastolo per strage mafiosa. L'ho conosciuto negli ultimi mesi della mia ultima detenzione, in uno stanzone del centro clinico di Opera dove sono stato ricoverato per la mia polimiosite e dove mi sono imbattuto in quella strana, surreale sofferenza patita con ovattata rassegnazione da chi ormai da tempo ha detto addio alla vita. Dove l'atmosfera è quella di un'esistenza non vissuta, regolata da ritmi sempre uguali e privi di contenuti in attesa della resa finale, che parla di uomini non più tali che si trascinano stancamente dialogando fra loro di un futuro che non verrà, di progetti che non si avvereranno, con l'ostinata convinzione che nasce dalla pietosa necessità dell'inganno. In quel camerone la maggior parte dei degenti erano ergastolani affetti da patologie irreversibili che non lasciavano speranze, neanche la speranza di amorevoli cure dei familiari negli ultimi giorni ancora da vivere. Calogero era fra questi ma di tutti era quello che non doveva preoccuparsi per una fine imminente perché le sue patologie erano una invenzione della sua mente andata in pappa. Quando mi vide e seppe che ero di Palermo mi si avvicinò per chiedermi notizie della nostra città, se era cambiata e come, se c'era ancora lo "stigghiularo" di Brancaccio dove egli in tempi lontani aveva consumato il rito quotidiano dello "schiticchio". E il mare, come era il mare, sempre puzzolente nel tratto della Cala dove si mangia il migliore pane con la "meusa" di Palermo? Poi cominciò a parlarmi delle sue innumerevoli malattie, di come aveva contratto un tumore al cervello che non gli lasciava molto tempo da vivere, al massimo sei mesi, del diabete che gli imponeva rinunce crudeli e lo esponeva a rischi collaterali, di anomalie cardiache che discendevano dall'affaticamento causato dalle tante patologie, ma non mi parlò del suo disgusto per la vita. Non mi parlò di come era ormai stanco di vivere e di come somatizzava tutti i mali del mondo evocandoli come reali in un onirico desiderio che essi ponessero fine ai suoi giorni. Anzi mi parlò di come aveva accettato con forza la sua sorte, non importandogli granché di nulla, neanche della sua innocenza che pure era ormai certa da quando un pentito ritenuto attendibile aveva dichiarato che lui con quella strage per la quale era stato condannato non c'entrava e si profilava l'eventualità di una revisione del processo. Respingeva con rabbia la prospettiva di un futuro più cristiano per lui, la possibilità di una riabilitazione dall'accusa di un delitto così odioso, non accettava che quindici anni di carcere venissero annullati come se nulla fosse, come se quegli anni, quei giorni, quelle ore patiti sulla sua pelle, fossero trascorsi inutilmente, cancellati con un colpo di spugna, come in un gioco alla fine del quale si dice: abbiamo scherzato, gli sembrava che a quegli anni venisse sottratta la loro drammatica dignità. Quegli anni erano il frutto di una condanna definitiva, quelli erano e non andavano discussi e sennò che li aveva patiti a fare? Del resto, aveva così poco tempo da vivere!
Calogero è un nome fittizio ma la sua storia è vera ed egli aspetta ancora che il suo processo venga revisionato.

lunedì 18 ottobre 2010

I sacerdoti dell'intolleranza

L'articolo di Bolzoni "Dai pizzini al blog di Cosa nostra i messaggi che preoccupano Schifani" ha avuto una specie di effetto domino che ha fatto dilatare l'interesse per il mio blog. Ho ricevuto post civili e altri meno, da alcuni sono stato fatto addirittura oggetto di lodi per come scrivo però con l'aria scandalizzata di chi non si capacita che un "mafioso" possa scrivere in maniera così "acculturata", dai più, ahimè, sono stato bacchettato per il solo motivo che ho un blog e che su di esso scrivo di tutto. Lo stesso Bolzoni non mi perdona la presunzione di "intervenire su ogni questione" e addirittura attribuisce al mio blog la funzione di pulpito dal quale consumerei la mia "vendetta contro la politica" e lancerei "pensieri e messaggi a tutto il mondo". Andiamo signor Bolzoni, prima che lo facesse conoscere lei, il mio blog era pressochè sconosciuto e dunque a chi vuole che mandassi i miei messaggi, non è esagerato ritenerli destinati adirittura al mondo intero? Ma non mi lamento, ne ho viste di peggio. Mi lamento invece, e attribuisco la responsabilità al signor Bolzoni, della stupidità che egli ha scatenato. Perchè purtroppo la maggior parte delle reazioni che l'articolo di Bolzoni ha prodotto sono improntate alla intolleranza e alla stupidità. Quando ho deciso di aprire il mio blog non avevo certamente la pretesa di salire in cattedra e pontificare di filosofia come qualcuno mi rimprovera tacciandomi di fare della filosofia spicciola e di non essere all'altezza di Schopenhauer. Troppo onore attribuirmi la capacità di fare della filosofia seppure spicciola, figuriamoci poi scomodare Schopenhauer. Non avevo intenzione di destare tanto allarme in giro presso chi fa della dietrologia attribuendomi chissà quali reconditi fini e tanto meno rivendicare pruriti etici o suscitare la pietà di nessuno, come qualcuno ha scritto. Avevo probabilmente, questo si, il desiderio inconscio di "riprendermi disperatamente gli attimi di vita fuggiti via", come ha scritto acutamente il blogger che mi bacchetta per le mie licenze filosofiche. Ma avevo soprattutto, e l'ho scritto chiaramente nel mio post di presentazione, il desiderio ben conscio di portare avanti con i miei poveri mezzi una battaglia che la mia coscienza e la mia esperienza del carcere mi dicevano di portare avanti, quella sulle condizioni di vita in carcere e della giustizia in Italia. Poi magari mi sono lasciato prendere la mano e ho allargato le mie riflessioni su tematiche che esondavano dal progetto originario, ma è un peccato veniale che si può perdonare ad un uomo che è stato in carcere e lì ha avuto tempo per leggere, studiare, riflettere e accumulare tante sensazioni da raccontare, un uomo che sta vivendo l'indegna gazzarra che lo indica come mafioso nonostante egli non sia ancora titolare di alcuna sentenza di condanna definitiva, anzi abbia incassato due assoluzioni con formula piena ed abbia dunque il diritto ad essere considerato innocente. Un uomo che continua ad essere indicato come "reggente" della famiglia mafiosa di Villabate nonostante il giudice che lo ha rinviato a giudizio e la stessa procura non gli abbiano contestato l'imputazione di capo promotore. Un uomo provato dalla sofferenza di una vicenda che non coinvolge solo lui ma avvelena la vita dei suoi cari e mette a dura prova la solidità dei suoi rapporti familiari, che vive chiedendosi quando verrà sferrato il prossimo colpo dallo sciacallo di turno, alla mercé di una stampa impetosa e non sempre onesta, logorato dalla tentazione della resa e dallo sforzo per ribellarsi ad essa. Ha motivo un simile uomo di essere in collera ed esprimere la propria rabbia senza che le prefiche possedute da furori moralistici si strappino le vesti non tollerando che egli osi pensare, avere un blog e su di esso scrivere quello che gli passa per la mente? O deve essere quest'uomo confinato in una riserva a meditare sulla propria arroganza? Invito quanti giocano al massacro, alcuni coperti dall'anonimato, a un minimo di onestà, a non addossarmi colpe che non ho, a non lasciarsi prendere dalla fregola del mostro a tutti i costi, a verificare quello che c'è dietro le apparenze, ad entrare nel merito di quello che scrivo criticandolo anche duramente e mettendo in discussione il valore di esso ma evitando di attribuirmi quello che non scrivo. Col tempo la mafia sarà sconfitta e il mondo si libererà dei blogger-mafiosi che tanto indignano un mio irridente critico, il problema è che non ci libereremo mai degli stupidi e saremo costretti a sorbirci a vita i blogger-spazzatura.

martedì 12 ottobre 2010

Giovanni

L’ho incontrato mentre, con l’aria di un pugile suonato che ne ha prese tante, uscivo dall’aula dove il Procuratore Generale aveva appena concluso la sua requisitoria invocando una pena severa contro di me.
L’ho visto venirmi incontro interamente bianco, appesantito e imbolsito, gli occhi socchiusi in una fessura rassegnata che non aveva più vita e stentai a riconoscere Giovanni, il vecchio compagno arrestato con me nel 1998.
Lui invece mi riconobbe subito e mi abbracciò stringendomi convulsamente, tremando di pianto, scosso da singhiozzi che non riusciva a frenare, biascicando di se e del suo calvario d’imputato di mafia che si trascinava ormai da 12 anni, che l’aveva ridotto sul lastrico, gli aveva rubato un pezzo di vita e gli offriva la prospettiva, a 75 anni, di scontare altri 5 anni di carcere in caso di conferma della sentenza di primo grado.
Me lo ricordavo importante imprenditore dalle cui fortune derivavano possibilità di lavoro per quanti, ed erano tanti, ogni mattina si presentavano ai cancelli dei suoi cantieri. Me lo ricordavo imponente e sicuro di se, piacione e generoso, pieno di se e della consapevolezza della sua forza. Mi ha fatto impressione vederlo adesso svuotato di ogni energia, quasi una marionetta senza fili che invocava pietà, lui un tempo così orgoglioso. Piangeva soprattutto la morte della moglie rubatagli dallo stress che ha accompagnato la sua vicenda giudiziaria crudele in se ma ancora più crudele per lo stillicidio che giorno dopo giorno per dodici lunghi anni gli aveva rubato l’onore, ne aveva sfregiato l’immagine, lo aveva privato dell’affetto e della considerazione degli amici di un tempo che adesso lo guardavano con sospetto e ne prendevano le distanze. Non riusciva a darsi pace Giovanni per la perdita della compagna di una vita e mi chiedeva che diritto aveva la società di espropriarlo di quell’affetto oltre che dei suoi beni materiali, di amputarlo di una vita che si era radicata in lui, di svuotarlo dell’unico motivo che ancora gli rendeva accettabile l’esistenza. Mi chiedeva che cosa avrebbe fatto della sua vita. Me lo chiedeva con la speranza accesa negli occhi improvvisamente colorati d’attesa e mi sono sentito un inutile impotente stupido quando, allargando le braccia, non fui capace di rispondere alla sua richiesta d’aiuto e con gli occhi lucidi farfugliai l’invito a reagire, a riprendere in mano la propria vita a un uomo che della propria vita ormai non disponeva più. Ma faccio mia la domanda di Giovanni e chiedo a mia volta a chi voglia rispondermi, in base a quale principio giuridico è lecito allo Stato impadronirsi della vita di un suo cittadino e tenerla in ostaggio per anni in attesa di decidere se quel cittadino è colpevole o innocente e intanto sottoporlo ad anni di carcere che potrebbero non essere dovuti, infliggergli la pena della gogna, della emarginazione sociale, del sospetto che spesso nella pancia di una opinione pubblica, incapace di indignarsi ed anzi avida di giustizialismo, si traduce in certezza della colpevolezza perché, come ha detto qualcuno, il sospetto è l’anticamera della verità. Che diritto ha lo Stato di dividere i cittadini in buoni e cattivi, catalogare tra questi ultimi gli imputati in attesa di giudizio e negar loro l’elementare diritto alla presunzione d’innocenza facendone carne da macello in obbedienza ad orgasmi forcaioli che risiedono in prurigini etiche con cui si pretende di venare il compito della giustizia? Ma lo Stato ha forse il compito di amministrare la giustizia facendo del diritto uno strumento sociale, etico, in definitiva ideologico o applicando la legge al riparo da qualsiasi condizionamento? Ricordo che un compianto Giudice mi diceva che non gli bastava essere convinto della colpevolezza di un imputato se questa convinzione non era sufficientemente supportata da prove. Ai sacerdoti della morale che pretendono di salvare il mondo usando la legge, consiglio di ispirarsi a lui e di dedicare un poco del loro tempo alla lettura di Kelsen.

mercoledì 6 ottobre 2010

I dietrologi a buon mercato

Non voglio deludere l’egregio Bolzoni che chiude un suo articolo su di me prefigurando una mia replica. Se voleva provocarmi c’è riuscito e gli rispondo a tempo di record che egli è un buontempone che fa della dietrologia a buon mercato senza tanti riguardi per la verità e la vita del prossimo. Cominciamo col precisare che non sono io a dire d’essere stato amico e socio del sen. Schifani, lo dicono un video in cui il presidente del senato appare al mio matrimonio e gli atti della Sicula Brokers da cui risulta che siamo stati soci in quell’azienda. Andiamo ai presunti messaggi in codice che, secondo Bolzoni, io lancerei al sen. Schifani “tormentato dal mio blog”. Tutto perché ho pubblicato un articolo intitolato “Le anime belle” in cui ironicamente faccio le pulci a un certo costume dell’usa e getta praticato dalla politica italiana. Ma quell’articolo, caro il mio Bolzoni, si riferiva alla vicenda dell’on. Cuffaro per anni amico e compagno di partito dell’on. Casini, da questi liquidato con l’epiteto di personaggio scomodo. Il principe che “dai palazzi dorati romani ha suonato il flauto” è l’on. Casini e “l’uomo accorto che ha fatto dell’astuzia la bussola con cui navigare nelle infide acque della politica siciliana” e tuttavia “ si è fatto colonizzare e cannibalizzare” è l’on. Cuffaro facilmente individuabile per l’esortazione rivoltagli a “scegliere con più attenzione chi vasare”e per le “maratone vasatorie” cui faccio cenno nell’articolo.
Se dunque il mio articolo ha come protagonista l’on. Cuffaro, come appare evidente, che c’entra il presidente del senato e quali messaggi cifrati gli starei mandando? Sono io che mi domando (una volta tanto anche io voglio fare della dietrologia) dove vuole andare a parare il sig. Bolzoni. A quale scopo egli vuole montare una vicenda torbida parlando di “dispacci , segnali e messaggi in codice “ riferiti ad un articolo innocente che si occupa di altri personaggi ma non certo del presidente del senato? Potremmo dire che è affar suo se egli non coinvolgesse con il suo pressappochismo un’alta carica dello Stato e un povero diavolo come me che vuole vivere il crepuscolo della sua vita dicendo innocentemente la sua senza avere la pretesa di “mandare pensieri e messaggi al mondo intero”, ma anche senza doversi preoccupare di essere intercettato da menti raffinate che travisano quello che scrivo e censurano il fatto che “intervengo su ogni questione”.
Invece di censurarmi, il sig. Bolzoni entri nel merito di quello che scrivo e su di esso confrontiamoci pure. Ma per favore eviti di incorrere nei soliti luoghi comuni sulle inquietanti astuzie del solito mafioso e se ha un minimo di onestà racconti come stanno le cose, racconti che, se è vero che sono stato condannato in primo grado a 8 anni per associazione mafiosa, non vuol dire che sono mafioso perché ancora non c’è una sentenza definitiva, che sono stato anche assolto in due altri processi con formula piena, che sono sulla graticola di una vicenda giudiziaria, che solo quest’anno è giunta al grado d’appello, da ben 12 anni durante i quali ho scontato 6 anni di carcere
preventivo che potrebbero rivelarsi una terribile crudeltà se fossi assolto, che ho dovuto subire l’assalto di una stampa appiattita acriticamente sulle posizione della pubblica accusa e mi ha sottoposto ad un’autentica gogna consegnandomi alla categoria degli uomini abietti, nonostante mi spetti la presunzione d’innocenza. Non pretendo di essere un novello Jean Calas nè mi aspetto che il sig. Bolzoni abbia la levatura di un Voltaire, mi aspetto, ripeto, che almeno dica come stanno le cose invece di rammaricarsi perchè sono a piede libero.
Come molti suoi colleghi egli procede per stereotipi e quando scopre che dietro l’icona mafiosa costruita dalla stampa c’è un uomo diverso da quello preconfezionato, invece di prenderne atto, ironizza sulla voglia che quest’uomo ha di offrire al mondo l’unica immagine di se che gli appartiene attraverso il solo strumento di cui dispone, la parola, e lo irride scrivendo che “sta consumando la sua vendetta mandando pensieri e messaggi al mondo intero, è particolarmente loquace e parla e chiacchera come non usa in quell’ambiente”. Come usa in quell’ambiente, sig. Bolzoni? Me lo dica lei perché io non lo so.
Da una giornalista con la quale ho avuto un colloquio mi sono sentito dire che è opinione diffusa che se in una famiglia (intendo famiglia di sangue) c’è un mafioso, sono mafiosi anche i restanti componenti della famiglia. Siamo, come si vede, alla logica tribale che vuole che le responsabilità del singolo siano estese a tutti i membri della tribù, e nel mio caso vuole che, per una sorta di riflesso condizionato, il nome di mio figlio sia una specie di campanello che fa venire l’acquolina in bocca al cane di Pavlov, che le sue responsabilità siano le mie, che, se mio figlio è mafioso, lo sono anche io e se egli ha compiuto dei reati, io non potevo non sapere o addirittura condividere.
Insomma io sarei oltre che il padre di mio figlio anche il padre delle sue condotte perché, come dicono i pentiti che mi accusano, è normale che sia così. Voglio ricordare infine al sig. Bolzoni che, se è vero quanto egli sostiene, e cioè che i Pubblici Ministeri sono convinti “che sia io a comandare ai confini orientali di Palermo”, questa è l’opinione dell’accusa non la verità, anche se io sono convinto che i Pubblici Ministeri sanno che vita conduco e che sono alle prese con il problema di arrivare, come tutti i pensionati, alla fine del mese, altro che gestire grossi affari di mafia!
Chiudo constatando con amarezza la pervicacia con la quale si continua ad alimentare il mito dell’icona mafiosa da dare in pasto all’opinione pubblica definendomi “personaggio chiave di tutta l’indagine di mafia” e pretendendo di attribuirmi ruoli che non ho e segreti che non custodisco.
Mi dispiace deludere le aspettative del sig. Bolzoni ma sono veramente quello che appaio e se lui vuole dare corpo alle sue fantasie deve rivolgersi altrove.

martedì 28 settembre 2010

Esecuzioni di Stato

L’articolo di Franco Venturini apparso sul Corriere della Sera di sabato 25 settembre invita gli europei e gli italiani in particolare ad essere meno timidi nel pretendere il rispetto della moratoria della pena di morte firmata in sede ONU, da parte dei paesi in cui essa è ancora in vigore e che comprendono indifferentemente democrazie e totalitarismi come dimostrano l’esecuzione di Teresa Lewis in USA e il rischio della lapidazione o dell’impiccagione di Sakineh in Iran.
Venturini rivendica l’orgoglio di essere cittadino di un’Europa in cui la pena capitale è bandita, vantando addirittura un sentimento di superiorità civile rispetto ad altre appartenenze macchiate dalla barbarie delle esecuzioni di Stato. Certo Venturini non può fare a meno di rilevare comportamenti ai limiti del rispetto dei diritti umani anche in Europa portando ad esempio il modo in cui viene condotta la lotta alla immigrazione clandestina e la piaga “ delle organizzazioni criminali che in Italia non esitano a versare fiumi di sangue”. Ma, conclude, “lo Stato non uccide, la legge non uccide ed è questo lo spartiacque etico e giuridico a dividerci da una massa di Paesi” in cui vige la pena di morte.
Lo Stato italiano dunque non uccide secondo Venturini. Ne è proprio sicuro o non ha dimenticato tra i comportamenti ai limiti del rispetto dei diritti umani alcune barbarie inflitte dallo Stato italiano ai suoi cittadini che vanno ben al di là dei limiti del rispetto umano? Kant sosteneva che il rispetto è la premessa della virtù e che se esso manca, manca anche la virtù. E allora vediamo se lo Stato italiano è stato più o meno virtuoso nei confronti dei suoi cittadini.
Permettere l’infamia del 41 bis che mura vivi degli uomini privandoli degli elementari diritti relazionali persino con gli affetti più intimi per decenni e che ha fatto dichiarare al presidente della Corte Europea dei diritti dell’uomo, Jean Paul Casta: “Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato”, è un comportamento virtuoso?
Permettere che continui ad essere in vigore l’ergastolo, spietato in se e ancora più spietato per le condizioni in cui viene scontato in Italia da detenuti storditi per decenni da ore, giorni, mesi, anni sempre uguali, instupiditi dalla solitudine, ossessionati dai loro passi, che coltivano conficcato nel cuore e nella mente il “ pensiero onirico latente” di quell’appuntamento estremo che è il suicidio, è un comportamento virtuoso?
Costringere 69.000 detenuti a vivere nello spazio sufficiente a ospitarne 43.000 “dentro prigioni tecnicamente fuori legge e tali dichiarate dalla Corte dei diritti dell’uomo fino ai tribunali di Sorveglianza di Cuneo e Napoli, stipati in attesa di giudizio come in nessun altro Paese d’Europa tranne la Turchia” ( Luigi Ferrarella nella stessa pagina in cui appare l’articolo di Venturini ), dove, aggiungo io per esperienza diretta, detenuti costretti a contendersi il poco spazio a disposizione vivono come polli in una stia, bivaccando per la maggior parte della giornata nella branda e aspettando il turno per andare in gabinetto, muovendosi con cautela per evitare che invasioni di campo nel clima esasperato di una convivenza forzata in così poco spazio possa sfociare in risse, condividendo l’aria viziata, gli odori, le flatulenze, le intimità più sconce della natura umana, privati di un minimo di intimità che fa la differenza con le bestie, è questo un comportamento virtuoso?
E il suicidio che sempre più frequentemente e sinistramente scandisce la vita di questi uomini, è o no una esecuzione di Stato?

sabato 25 settembre 2010

Le anime belle

Cadono dal pero fintamente stupite e a volte addirittura indignate. Sono le anime belle che vivono nell’empireo e non si mischiano con le cose terrene, che ignorano quello che accade tra gli umani affaccendati a brigare tra le miserie delle loro necessità spregevoli e si limitano a raccoglierne i frutti stando attenti a tenere la debita distanza. Sicchè quando gli schizzi di fango cominciano a zampillare, inarcano il sopracciglio con aria scandalizzata e cadono dalle nuvole chiedendosi che cosa è accaduto, come è potuto accadere e chi sono i personaggi scomodi con i quali hanno condiviso anni di militanza senza sospettare, povere mammolette, che cosa si nasconde dietro le abbondanti messi portate in dote da costoro. Come possono le anime belle sapere dell’inganno perpetrato dietro le loro immacolate spalle da spericolati avventurieri impegnati a cimentarsi in sfiancanti maratone “vasatorie” pur di conquistare il bottino da portare in dono al principe? Devono star più attenti gli avventati frequentatori della suburra e scegliere con più attenzione chi “vasare” ché i risultati non puzzano ma le fonti dalle quali provengono quelle si, e allora bisogna essere bravi ad avere la botte piena e la moglie ubriaca. Non può mica sporcarsi i calzari il principe, lui impegnato a volare nelle atmosfere rarefatte dei cieli tersi in cui si disputa del sesso degli angeli, e allora dagli all’imprudente che rischia di insozzare le sue vesti e che dunque va rinnegato.
Posso immaginare ( chi meglio di me potrebbe capirlo?) lo stato d’animo di chi è stato travolto da drammatiche vicende giudiziarie ed è costretto a pagare il danno di una vita stravolta e in più la beffa dell’ingratitudine incassata dalle anime belle con le quali ha condiviso fino a poco tempo fa la stagione delle vacche grasse e dalle quali si vede adesso ripudiato come fosse un lebbroso. Immagino anche che il nostro stia riflettendo sui suoi errori. Io mi permetto di contestargliene uno: come ha potuto, un uomo accorto come lui che ha fatto dell’astuzia la bussola con cui navigare nelle infide acque della politica siciliana, farsi prima colonizzare e poi cannibalizzare da un finto tonto che non ha avuto neanche bisogno di scendere in Sicilia e che dai dorati palazzi romani ha suonato il flauto e l’ha incantato costruendo sulla sua dote le di lui fortune per poi sbarazzarsene senza tanti complimenti? E’ possibile che anche egli sia stato vittima della sindrome del siciliano col complesso del provinciale e la voglia di farsi sodomizzare secondo un’antica tradizione delle nostre contrade?

I terribili vecchietti

Ho l’abitudine di frequentare un piccolo bar del mio rione. Ci vado ogni mattina a spulciare il quotidiano che sono solito acquistare e, al costo di un caffè, mi pago il lusso di dare un’occhiata alle notizie sulla cronaca locale leggendo anche il Giornale di Sicilia messo a disposizione degli avventori dalla proprietà del bar. Mi capita qualche volta di doverlo reclamare da qualche altro pensionato come me che non si arrende fino a quando non ha passato in rassegna l’intero necrologio e che alla fine me lo cede con l’aria di essere stato defraudato, non capacitandosi del perché io mi ostini a leggere due giornali come se le notizie non fossero le stesse su entrambi. E’ il bello di quel piccolo mondo e lo accetto come accetto l’arredamento del bar. Stamattina però è accaduta una cosa che col solito arredo stonava, è accaduto che i due amabili anziani insegnanti che tutte le mattine regalano agli incolpevoli frequentatori del bar le loro dispute sugli argomenti più vari vantando una competenza che non ammette dubbi e pretendendo di conoscere meglio di tutti come vanno le cose della vita, si sono prodotti in una filippica contro Berlusconi definendolo la causa di tutti i mali del mondo e gratificando con l’epiteto di coglione chiunque lo sostenga. Ora, ci può stare la convinzione dei due che Berlusconi sia la causa di tutti i mali e, a dire il vero, la cosa non mi tocca più di tanto, ma mi ha fatto saltare la mosca al naso l’idea che un mio familiare o un mio amico dissennato fino al punto d’avere votato Berlusconi,oltre a questa disgrazia si debba beccare l’epiteto di coglione. M’è parso troppo e l’ho fatto presente ai due insegnanti contestando il fatto che una diversa convinzione venisse bollata in maniera così pecoreccia e ricordando loro che un certo Locke aveva parlato di tolleranza e che Voltaire, personaggio caro agli spiriti illuminati, aveva difeso chi la pensava in maniera diversa dalla sua, aggiungendo che mi faceva specie che un atteggiamento di tale intolleranza venisse espresso da due vecchi esponenti della sinistra garantista come loro due. Sicuramente è colpa di Berlusconi che fa perdere il lume ai suoi contestatori come il drappo rosso al toro nell’arena, fatto è che i miei cari vegliardi, ancora in piena attività pedagogica in una scuola di Palermo, mi hanno risposto con la bava alla bocca che se ne fregavano di Loccki e di “ scarti”, che Berlusconi non merita alcuna tolleranza, che i voti dati a lui hanno il difetto d’origine di essere l’espressione della coglionaggine di gente che non capisce niente e quindi non hanno nessun valore, che questa gente va messa sotto tutela e la sola che può svolgere questo compito è la sinistra, l’unica abilitata a governare per merito autoreferenziale e, visto che c’erano, che tutta la destra è la causa dello sfascio in cui si ritrova l’Italia ed è fascista, tranne Fini che si è mondato traghettando la propria identità a sinistra. Confesso di essermi arreso ma mi sono consolato pensando che almeno una cosa stamattina l’ho capita e cioè che la verità sta tutta da una parte e che i genitori possono dormire sonni tranquilli per la formazione dei loro figli affidati a simili docenti.

giovedì 23 settembre 2010

La pena di morte

Tamara Chikunova, russa e madre di Dimitri condannato a morte e fucilato in Uzbekistan, si batte da tempo per l’abolizione della pena capitale nel mondo. La sua battaglia è stata premiata con l’abrogazione della condanna a morte prima in Kirghizistan nel 2007 e poi in Uzbekistan l’anno dopo ma non si ferma ed ha come prossimo scopo di far cancellare la pena capitale anche in Mongolia. Ospite al Giubileo delle donne che si tiene nel comune di Veroli, un paesino del frusinate, ha narrato la drammatica vicenda del figlio, giustiziato oltretutto da innocente, e ha evocato il ricordo incancellabile delle circostanze che l’hanno accompagnata. Ha parlato con voce rotta dall’emozione e ha lanciato un appello: “Fermatevi almeno un minuto, riflettete. La morte non rigenera la vita. Così si alimenta solo odio e vendetta”.
Questa cronaca letta sul Corriere mi ha ricordato il contenuto di due lettere ricevute da due miei compagni conosciuti in carcere. In una Giuseppe, che sta scontando una condanna all’ergastolo, riprendendo vecchi discorsi avuti durante le nostre passeggiate nel cortile di Pagliarelli, mi scrive: “Ritengo l’ergastolo una pena più crudele della morte. Esso è la condanna ad una parvenza di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che fanno della finzione una realtà vissuta disperatamente progettando sogni e coltivando speranze, sbirciando fuori dalla propria emarginazione e aspettando un segnale d’interesse per la propria sorte, aspettando di percepire che a qualcuno importa della loro vita,che qualcuno li consideri e, per ciò stesso, perché sono considerati, esistono. Noi ergastolani ci sforziamo di vivere, imponiamo con rabbia le nostre esistenze rivendicando il diritto alle nostre intelligenze contro quelli che vogliono seppellire i nostri sogni e revocare in dubbio l’autenticità del nostro sentire infliggendoci, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osiamo. Siamo gli eredi di origini ormai lontane che, dopo decenni, stentano a ricordare, gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati dal rumore dei nostri passi, privi di relazioni vitali,ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. René Girard ne “La nausea della vendetta” ha scritto: “Cercare l’originalità della vendetta è un’impresa vana. Nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”. Ebbene l’ergastolo come la vendetta è una tragedia senza fine in cui l’agostiniano tempo, assente nel nostro animo, diventa uno stillicidio senza passato né futuro, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un’unica fune, in cui, come scrive Gibran, “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio”. Gli uomini che sovrintendono alla nostra pena aspettano pazientemente che giungiamo a quell’appuntamento estremo che aleggia costantemente a fianco di noi ergastolani, il suicidio”. A questa lettera terribile ho risposto come ho potuto arrampicandomi sugli specchi di quello spietato principio di ispirazione cristiana che considera la vita un valore sacro con un senso ancora più compiuto se è vita di sofferenza, che accetta la volontà di Dio come causa prima ed ultima della nostra esistenza. Mi sono sentito un bastardo, ipocrita predicatore a buon mercato ma almeno ho dato una risposta. Nessuna risposta invece sono stato in grado di dare a quest’altra lettera scrittami da Antonio in regime di 41 bis: “Dopo i primi quindici minuti consentiti, il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro e batté le mani contro di esso credendo in un gioco, sorrise ancora e ancora battè le mani, poi il sorriso si tramutò in singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere ancora più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi occhioni spalancati e sgomenti”.
Che dire? Ai nobili spiriti che si intestano nobili cause chiedo: è più giusto obbedire all’orgoglio dei principi e in nome di essi condurre la battaglia per l’abolizione della pena capitale o lasciarsi guidare dalla pietà e chiedere che l’ergastolo e il 41 bis siano tramutati nella condanna a morte?

mercoledì 8 settembre 2010

L’etica in cattedra

E’ un mistero il motivo per il quale il prof. Mancuso ha reso pubblico il proprio travaglio a proposito dell’opportunità o meno di continuare a pubblicare per Mondadori, perché ha avvertito questo travaglio così tardi, perché, avendo infine sciolto ogni riserva e deciso di non pubblicare più per Mondadori, ha escluso da questa sua decisione il suo ultimo lavoro che uscirà ancora per i tipi di Mondadori. Siamo assediati da un’orgia di etica ostentata e predicata dai pulpiti più improbabili a proposito e a sproposito, attribuita a ciò cui non va attribuita, passaporto per le escursioni più spericolate nel mondo dell’illogico purché odori d’incenso, orgia d’ipocrisia in cui le coscienze individuali sono portate all’ammasso e i soliti sacerdoti della superiorità morale si siedono in cattedra pretendendo di impartirci lezioni di morale e finendo per snaturare l’onesta etica e trasformarla in moralismo. Ebbene, un uomo del valore di Mancuso rischia di trovarsi in simile compagnia quando chiama a raccolta gli autori che pubblicano per Mondadori e li invita ad un giudizio comune che sa tanto di ordalia. Perché rivendicare pubblicamente l’etica e inflazionarla in un ambito così vasto invece di recintarla nel proprio intimo? Ritengo che un’etica sentita nel suo spirito più autentico avrebbe dovuto dissuadere Mancuso dal tentativo di coinvolgere nella sua decisione di lasciare Mondadori altri autori evitando un sabotaggio che un sodalizio così antico e rispettoso delle reciproche dignità non meritava e che la sua coscienza avrebbe dovuto sconsigliare proprio per un imperativo di natura etica. Dissentire si, scegliere altre vie va bene, ma senza tanto clamore. E non solo, se il prof. Mancuso tira in ballo pubblicamente l’etica come motivazione del suo disagio nel continuare a collaborare con Mondadori, si espone a rilievi difficilmente non condivisibili. E’ già un azzardo considerare l’etica la stella polare della teologia, ancor di più lo è pretendere di farla coincidere con l’economia. Che c’entra infatti l’etica con le logiche aziendali? Le aziende obbediscono a criteri che hanno a cuore gli utili e in questo obiettivo consiste la loro etica visto che nascono con questa vocazione che, fra l’altro, non è fine a se stessa ma produce il risultato virtuoso dei posti di lavoro e dunque del benessere sociale. Certo non si può tollerare che le aziende non rispettino le leggi ma non mi risulta che Mondadori sia un’azienda fuori legge e, se per il prof. Mancuso il problema è che l’azienda di Segrate possa avere qualche scheletro nell’armadio, stia attento a dove approda. Forse che pubblicando per un’altra casa editrice egli può essere sicuro di ciò che si annida nell’armadio di essa o pretenderà di leggerne i libri contabili prima di iniziare la sua collaborazione? L’etica è una categoria spietata che non concede sconti e allora tanto vale che il prof. Mancuso, se teme di sporcarsi con gli schizzi della spregiudicatezza umana, affidi i suoi scritti ai tamburi della savana. Rimane il mistero del perché i suoi scrupoli giungono così in ritardo in relazione ad una collaborazione posta in essere quando già la Mondadori era accusata di essere stata introitata da Berlusconi grazie ad una operazione di compravendita di giudici? Ma ho paura che esso sia destinato a restare insoluto.

giovedì 26 agosto 2010

L’Italia di Pulcinella

In questa rovente estate 2010 l’Italia di Pulcinella ha dato il meglio di se mettendo in cartellone la solita sceneggiata dei puri opposti agli impuri.
Da una parte imperversa il partito delle anime belle che ha lo scandalo facile e scopre l’acqua calda ad ogni pié sospinto proclamando con piglio da vergine violata la propria indignazione. Dall’altra parte risponde il partito delle facce di bronzo che hanno buttato la maschera e messo a nudo la loro vocazione di apprendisti stregoni. Su questi ultimi non merita che ci si dilunghi granché perché la loro ruspante sfrontatezza non si presta a complicate analisi. Sono usciti allo scoperto e mostrato che cosa si nascondeva dietro i proclami su garantismo e liberalismo con i quali un populismo senza pudore ha suonato il piffero al popolo credulone. La vera natura di questi signori si sta rivelando grazie ad una vera e propria campagna di guerra mossa contro la bulimia immobiliare dell’on. Fini ( la cui intransigenza morale, sia detto per inciso, sta pagando la legge del contrappasso ) esposto alla stessa esecuzione sommaria lamentata in passato dagli attuali censori e che a sua volta risponde senza farsi tanti scrupoli di tenere la sua alta carica alla larga dalle beghe di partito. Qui non c’è niente da analizzare, tutto secondo copione, senza pudori ma anche senza ipocrisie.
Un discorso più articolato va fatto per i soliti appaltatori della pubblica (e anche privata) morale e delle giuste cause. C’è l’imbarazzo della scelta in un panorama da cui si leva un brusio di lamenti sui temi più vari che vanno dalla crisi di coscienza che affligge chi collabora con Mondadori, agli appelli di Veltroni alla Nazione, al coro indignato contro il dispotico Marchionne che osa tenere tre operai lontani dalle catene di montaggio Fiat alle quali gli stessi hanno riservato attenzioni non proprio ispirate all’interesse dell’azienda.
Merita rispetto la crisi di coscienza del prof. Mancuso il quale non riesce a decidersi se continuare a pubblicare o meno per una casa editrice, la Mondadori, che ha liquidato con pochi spiccioli il suo enorme debito con l’erario ( ma Mondadori non ha vinto i primi due gradi di giudizio nella causa con il fisco? ). Ma, se pure si possono comprendere i tormenti di Mancuso, si comprende meno la chiamata alle armi che questi ha rivolto agli autori della Mondadori invitandoli a riflettere su un caso di coscienza che essi da soli non avevano avvertito in tanti anni di collaborazione con l’azienda. Qualcuno, come Odifreddi, lo ha mandato a quel paese, qualcun altro ha finto di riflettere, resta il fatto che Mancuso, invocando l’etica “ di cui ha fatto la stella polare della sua teologia “, invece di risolvere nel suo intimo i suoi problemi di coscienza, ne ha fatto oggetto di bando rasentando l’incitamento al sabotaggio nei confronti di una azienda in cui è cresciuto professionalmente senza essere mai stato censurato, in cui ha coltivato amicizie ed affetti e della cui proprietà era a conoscenza fin dall’inizio della sua collaborazione. A proposito di etica, non direi che sia proprio il massimo!
La lettera di Veltroni al Paese apparsa sul Corriere di martedì 24 agosto, contiene tutti gli ingredienti che spiegano la vocazione al suicidio di una sinistra che risolve la propria crisi d’identità cadendo come al solito dal pero,con generici appelli alla virtù, rimuovendo la propria storia ed evitando accuratamente ogni autocritica che individui le sue colpe dalle quali trarre salutari insegnamenti. Veltroni che chiude la sua lettera invitando “il nostro Paese a smettere di vivere dominato solo da passioni tristi”, dovrebbe spiegarci quali motivi hanno gli italiani per non sentirsi tristi e dare un ripassatina alla sua lettera intrisa delle solite malinconiche ovvietà. In essa troverà la solidarietà pelosa nei confronti degli “imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un’autostrada come Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi in questi mesi”. Va bene lo strabismo politico ma a tutto c’è un limite e l’on. Veltroni dovrebbe dirci dove era lui quando è emerso il malaffare di tangentopoli, dov’era in tutti questi anni in cui si è rappresentata la storia infinita della Salerno-Reggio Calabria, dov’era quando lo Stato si è indebitato a tal punto da trasformarsi in una idrovora avida della metà del lavoro delle aziende. E dov’erano lui e i partiti ai quali via via si è riferito, dal Pci al Pd, quando si sono gettate le basi della tragedia dei ragazzi precari “senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la certezza di potere mettere al mondo dei figli”. Lui e i partiti ai quali si è riferito c’entrano qualcosa con la follia del tutto e subito che i sindacati chiedevano e ottenevano da una realtà economico-sociale assolutamente impreparata a soddisfare questa richieste e spogliata delle risorse necessarie al futuro di questi ragazzi? Questi ragazzi non riescono più a sorridere perché sono stati spogliati dall’egoismo dei loro genitori, il loro stato d’animo è privo di speranze, rassegnato ad una realtà precaria, incapace dei sussulti d’orgoglio dei giovani di una volta perché qualcuno li ha depredati del loro futuro, non sanno progettare perché sono consapevoli di essere fuori dai giochi, altro che avere “la sensazione di essere dentro una storia che va avanti” come auspica Severgnini. E quando l’on. Veltroni cade dalle nuvole chiedendo cosa sta accadendo a noi italiani, dovrebbe spiegarci lui che cosa sta accadendo interrogando la politica di cui è un insigne rappresentante, chiedendo a se stesso e agli altri attori della politica perché il costume si è così imbarbarito e darci risposte non demonizzando l’avversario, ché quello è già messo male di suo senza bisogno di essere sputtanato, ma informandoci su quello che la politica ha fatto per evitare la “profonda crisi del nostro sistema” e su quello che ancora farà.
E per favore non ci venga a parlare di populismo come se il populismo l’avesse inventato Berlusconi e lui stesso fosse indenne da quest’accusa piovutagli addosso proprio ad opera dei suoi amici di partito all’indomani della pubblicazione della sua lettera, non ci venga a parlare di “monarchia livida e pura difesa dell’esistente”, di democrazia a rischio “sotto la pressione delle spinte populiste e di dei conservatorismi di varia natura”, di “democrazia autoritaria”, quando semmai il problema è quello dell’assenza di una legittima capacità decisionale in grado di affrontare e risolvere in tempi brevi i problemi, che tanto avvilisce il Cavaliere e che lo stesso on. Veltroni lamenta. Se la parte politica dell’on. Veltroni, invece di gridare al golpe tutte le volte che si parla di modifica della Costituzione, desse un’occhiata in giro, si renderebbe conto che in democrazie molto più solide della nostra, come in Inghilterra, (è utile in proposito la lettura di un articolo di Piero Ostellino apparso sul Corriere del 23 agosto) non è scandaloso prevedere maggiori poteri per il Presidente del Consiglio tra cui quello di sciogliere le Camere e codificare con chiarezza il ritorno alle urne in caso di crisi della maggioranza eletta dai cittadini. Sicuramente verrebbe garantito il miglior funzionamento di uno Stato “forte e decidente” e si sottrarrebbero alibi alle lamentate tentazioni autoritarie del Cavaliere.
Infine quando l’on. Veltroni si rammarica che “se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese”, invece di colpevolizzare gli italiani, si è chiesto perché questi elettori hanno scelto Berlusconi anziché il centrosinistra ed è proprio sicuro che il centrosinistra avrebbe fatto meglio alla luce del vuoto di contenuti che sta schierando nel campo dell’opposizione a Berlusconi? E le magnifiche sorti e progressive che l’on. Veltroni prefigura dopo la fine dell’era Berlusconi, basate su “schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente”, è proprio sicuro che allieteranno la travagliata vita degli italiani?
Ho un’età che mi permette di ricordare con preoccupazione che cosa ha significato per l’Italia la comunanza di interessi tra i due maggiori partiti italiani d’allora, la Dc e il Pci, che sottobanco decidevano cosa fare delle sorti degli italiani colludendo in un consociativismo che è stato il forcipe dei mali che ancora ci affliggono.

mercoledì 11 agosto 2010

Sporchi, brutti e cattivi

Tutto ormai è all’insegna del politicamente corretto e il politicamente corretto impone che si obbedisca alle verità dei pochi stabilite nelle sedi che contano. Chi dissente è oggetto di scomunica, rischia il rogo riservato agli eretici e ciò che esce fuori dal novero delle verità protette è destinato all’indifferenza se non al disprezzo. I toni sono trancianti e non ammettono replica. Se ne ha la sensazione netta leggendo le analisi che da più parti sono state fatte sui temi in scaletta nell’intesa programmatica sulla quale Berlusconi dovrebbe intendersi con Fini, economia, federalismo, giustizia, Mezzogiorno e via proponendo e suggerendo le precedenze che, all’interno di ciascun tema,devono essere date, rivendicando alle esigenze dei cittadini il diritto di dettare le precedenze e naturalmente pretendendo di dettare il decalogo di queste esigenze. Apprendiamo così che tra le esigenze primarie dei cittadini c’è l’accantonamento della “sciagurata legge sulle intercettazioni che ha come scopo di condizionare la stampa”, anche se qualche giornalista che sa il fatto suo ha messo in dubbio che la battaglia ingaggiata dalla Federazione della stampa contro “ la legge bavaglio “ sia una battaglia in difesa della libertà di informazione quanto non piuttosto una battaglia in difesa dell’impunità dei giornalisti. Rientra tra le esigenze prioritarie dei cittadini la difesa della casta dei giornalisti?
Apprendiamo inoltre che in tema di giustizia le esigenze dei cittadini impongono che si dia priorità alla riforma della giustizia civile perché, si dice, i cavilli e i laccioli di cui è disseminata la legislazione che regolamenta la giustizia civile deprimono le imprese e i tempi lunghi che affliggono la conclusione dei processi (sempre quelli civili) scoraggiano investimenti di aziende estere. Potenza degli affari! Nessun accenno invece alle condizioni della giustizia penale. Per quanto ci siamo sforzati non abbiamo trovato menzione di alcuna proposta che ritenga prioritario porre mano alla riduzione della lunghezza dei tempi dei processi penali e della detenzione preventiva, evitare che il diritto d’informazione si trasformi in diritto d’arbitrio con norme che obblighino a riferire con pari rilievo le ragioni dell’accusa e della difesa sulle vicende giudiziarie di chi ancora deve essere processato ed è costretto a subire esecuzioni sommarie in piazza grazie ad un giornalismo che si appiattisce sulle posizioni dell’accusa: altro che libertà d’informazione!
Non abbiamo trovato traccia dell’invocazione di alcuna esigenza con riferimento all’affollamento delle carceri e alle condizioni di vita dei detenuti che sempre più spesso conducono al suicidio. Ma capiamo che questa è materia che urta la sensibilità dei palati raffinati e provoca un senso di fastidio in quanti considerano le esigenze di questi concittadini sporchi, brutti e cattivi, un lusso di cui non merita occuparsi e lo rimuovono con un’alzata di spalle. Meglio ignorarli, meglio non dare l’idea della solita Italia mammona e incline al pietismo accattone che rischia di proiettare l’immagine di un Paese che sui temi della sicurezza non offre garanzie di severità, meglio rassicurare i bravi cittadini che la loro quiete è al riparo da colpi di mano, tanto questi delinquenti sono senza santi protettori e non servono a nessuna causa, di loro ci si può tranquillamente e con serafica indifferenza dimenticare!

giovedì 5 agosto 2010

Quale sconfitta?

Melisso già nel V° secolo a.C. contestava il suo maestro Parmenide che parlava dell’essere sferiforme e finito e perciò perfetto, sostenendo che l’essere limitato proprio perché limitato confina col vuoto e cioè col non-essere che è impensabile. E’ sempre esistito un problema che angoscia l’uomo costretto a vivere a contatto con il mistero dell’infinito che percepiamo così vicino eppure così lontano, di un ignoto che sentiamo prossimo e di cui non conosciamo nulla, discutiamo di cosa ci attende o non ci attende dopo la morte, se c’è il nulla o l’al di là pieno della vera vita e dibattiamo anche se è giusto vivere o morire quando le condizioni di vita sono ai limiti dell’umano. E’questa una delle occasioni in cui ci interroghiamo sulla morte e tuttavia anche in questa circostanza è raro che ne cogliamo il mistero e ragioniamo su quale è l’atteggiamento più consono quando pensiamo ad essa , se di distacco, se di timore, se di indifferenza perché tendiamo a non percepirla come un evento che ci riguarda. C’è chi, ricorrendo alla esemplificazione di una filosofia consolatoria, suole dire che la morte non gli fa paura perché tanto finché c’è lui non c’è lei e quando c’è lei lui ormai non c’è più. Ma, a parte l’eristica paradossale di questa costruzione, la morte sta subendo uno attacco molto più serio portato proprio al suo mistero, alla sua sacralità che la pone al confine della domanda senza risposta che è quella su cosa ci attende dopo la fine dei nostri giorni terreni. L’immoralità della nostra inconsistenza raggiunta dopo i velocissimi anni di un nichilismo d’accatto che ha sfatato tanti miti e, direi, tanti valori, è riuscita ad assestare il colpo più duro che si potesse immaginare alla morte che ama prendersi tanto sul serio, snobbandola con una indifferenza che non nasce dalla forza del nostro animo, ma da quella del nostro limite.
Semplicemente non avvertiamo più il fascino del suo mistero perché abbiamo praticato l’iconoclastia dei valori che hanno accompagnato l’uomo per secoli lasciandoci fagocitare a poco a poco e sempre più inesorabilmente dall’ovvio inalato nelle nostre menti fino all’oblio delle nostre coscienze. Ecco non abbiamo più coscienza di noi e non riusciamo a percepire ormai che cosa ci riguardi veramente se non l’ovvio da cui siamo stati plasmati, viviamo in quel nulla tanto paventato da Melisso, figurarsi se possiamo appassionarci a questa misteriosa incombenza che è la morte e ad avere rispetto per questa ormai dimessa signora. La infliggiamo agli altri e a noi stessi senza l’esitazione e il rispetto che essa esige, la pratichiamo con la stessa levità con cui siamo stati educati a consumare le nostre vite senza contenuti. Forse qualcuno dirà che così abbiamo sconfitto la morte, noi siamo più propensi a ritenere che in realtà abbiamo sconfitto noi stessi.

A proposito dei……Fini

Non vogliamo entrare nel merito dell’implosione del Pdl, di chi è più o meno responsabile di essa, di chi ha torto o ragione, di chi ci ha ridotti in un cul de sac dopo averci illuso che ci attendeva la stagione delle riforme epocali, perché siamo stanchi del “teatrino della politica” lamentato da Berlusconi e di cui, guarda caso, la legge del contrappasso lo ha visto protagonista. Ci penseranno gli elettori a dire chi ha avuto torto o ragione o forse a non dire un bel niente e a farsi gabellare dai consueti mistificatori dalla faccia di bronzo. Ci intriga invece il personaggio amletico che è venuto fuori da questa vicenda e che, bisogna dirlo, ci confonde, quello dell’on. Fini.
In un recente articolo Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera, che ama fare le pulci alle anomalie italiane con dati solitamente inconfutabili, ha colto la contraddizione del nostro personaggio garantista e giustizialista a corrente alterna citando dichiarazioni e comportamenti che hanno contraddistinto le diverse tappe della vita politica del presidente della Camera.
Stella risale alla prima esternazione dell’on. Fini resa a proposito del famoso discorso di Craxi alla Camera dei deputati all’epoca di tangentopoli, con cui il segretario del Psi fece una chiamata di correità dell’intera classe politica e che l’on. Fini definì “una patetica autodifesa”. Sempre Stella ricorda la posizione intransigente di Fini contro l’esortazione di Scalfaro ai magistrati perché non esagerassero con le manette, l’esultanza dopo il primo avviso di garanzia ad Andreotti e la sua proposta di sospendere gli stipendi ai parlamentari inquisiti considerando un privilegio medievale l’immunità parlamentare. Infine è di questi giorni la dichiarazione: “ Il Parlamento deve essere garantista ma ciò non può giustificare quello che giustificabile non è, perché l’etica dei comportamenti pubblici è la precondizione perché ci sia fiducia nelle istituzioni”. Tutte esternazioni che non lasciano dubbi sul rigore dell’on. Fini e che meritano rispetto, anche se Bobo Craxi qualche dubbio sulla autenticità di questo rigore lo ha espresso definendolo sprezzantemente “forcaiolo”. Per quanto ci riguarda ci limitiamo far notare che le dichiarazioni intransigenti dell’on. Fini contraddicono comportamenti di segno opposto messi in atto allorché egli ha traghettato il suo partito in un contenitore, il Pdl, garantista senza ma e senza se, inducendolo a votare contro tutte le richieste di arresto dei parlamentari avanzate dai magistrati nei confronti di Previti, Cito, Giudice, Dell’Utri, Sanza etc., secondo quanto riferisce l’impagabile Stella e a far quadrato, aggiungiamo noi, in difesa dell’on. Bocchino quando questi è stato sfiorato da una inchiesta giudiziaria. Compendio di queste contraddizioni è il ruolo di paladino della morale pubblica nel quale si è calato l’on. Granata che pure in passato è stato assessore nel governo Cuffaro e oggi è supporter del governo Lombardo bacchettato dai magistrati per “condotte moralmente deprecabili”. Garantismo dunque o giustizialismo?
Confessiamo di non capirci granché e respingiamo la tentazione di condividere le maldicenze del chiacchiericcio sussurrato secondo cui le dichiarazione e i comportamenti dell’on. Fini si barcamenano tra il rigore dei principi e la strategia dei….fini che di volta in volta egli si prefigge!

venerdì 23 luglio 2010

Le anime belle

Cogliamo dalla lettura dei giornali fior da fiore:
-Berlusconi: “ Contro di me una vergognosa montatura”;
-Alfano inaspettatamente, dopo schermaglie al veleno con i magistrati, ne prende le difese contro le accuse di coinvolgimento nella vicenda della P3. “Niente caccia alle streghe “, tuona da Bruxelles;
-Il Tar del Piemonte ha emesso la sentenza con cui dispone il riconteggio delle schede per verificare che non ci siano state delle irregolarità, apriti cielo, Cota grida al complotto: “Qualcuno lavora contro la mia vittoria”.
La cronaca ci consegna un elenco di vittime di alto lignaggio e ci mette in guardia da un Paese che si esercita nel gioco al massacro di tante anime belle immuni da colpe e ingiustamente perseguitate!
Ed oltre alle iniziative giudiziarie messe in atto per colpire dei galantuomini per chissà quali inconfessabili obiettivi, si osa insinuare che nelle varie istituzioni si perpetrano sprechi, ci si abbandona a faraoniche spese di rappresentanza, che, tanto per dire, il comune di Valguarnera Caropepe possiede una sua sede di rappresentanza a Dubaj, che, sempre a Dubaj, mandiamo esperti di monnezza da Palermo per insegnare come fare a smaltirla perché, si sa, Palermo è la capitale della monnezza, che certi scambi nelle stanze dei palazzi romani con cui si consegnano le chiavi del potere ai soliti noti avvengono con la stessa disinvolta oscenità degli scambisti del sesso, che le prebende per gli incarichi che contano sono assegnate nel club esclusivo dei grand commis, sempre gli stessi come nel gioco delle tre carte. Antonio Puri Purini, in un recente articolo sul Corriere, si lamenta che “le arroganti vetture della politica romana sarebbero inconcepibili a Berlino”. E ci credo, vuoi mettere la spartana rozzezza dei rudi vichinghi con l’ eleganza dei raffinati romani? E poi, andiamo, un po’ di comprensione per le giuste aspirazioni degli arrembanti arrampicatori che si imbattono nelle opulenti contrade romane portandosi appresso appetiti ancestrali, bisogna pur capirli e non essere così severi come Purini. E, tanto per non cambiare, ci si mette anche quel solito bastian contrario di Ostellino il quale, sempre sul Corriere, snocciola impietosamente i dati relativi ai costi in euro, per abitante, del personale delle nostre Rregioni.Sicilia: 349, Molise: 187, Lazio: 53 e via sperperando. Ma in definitiva, di che cosa si lamenta Ostellino, lui, mica vive in Italia!
Un vero e proprio stillicidio contro la beneamata classe politica ovvero, come dice Alfano, una vera e propria caccia alle streghe cui fa da controcanto la solita solfa sulla lunghezza dei processi, sulle stragi su cui non si fa luce, sull’aereo caduto a Ustica perché hanno ceduto le strutture ( sic ! ), sul sovraffollamento nelle carceri (potete immaginare che allegria con i 40 gradi di questi giorni), sui suicidi in carcere, sui pensionati che con 500 euro al mese arrivano si e no alla terza settimana, sui licenziamenti che ormai hanno la cadenza di un bollettino di guerra, sui giovani che non capiscono più chi cazzo sono e si abbandonano a omicidi alla ricerca della loro perduta d’identità, sulla inefficienza delle infrastrutture, sulla mancanza di futuro dei bamboccioni, sul nulla che ci affligge. Ma che volete che sia, questo riguarda la gente comune e lamentarsene è di pessimo gusto, mentre ben altri drammi lambiscono i potenti nei confronti dei quali i soliti rompiscatole si accaniscono ad avanzare sospetti senza alcun riguardo per la loro impunità, senza alcuna preoccupazione che dalla loro serenità turbata possano discendere gravi conseguenze per il Paese che guidano.

Le “tricoteuses”

Come era da temere, il diciottesimo anniversario della strage di via D’Amelio ha acceso gli appetiti dei soliti professionisti del giacobinismo urlato che hanno fatto a gara nell’esibire intransigenza e toni lontani anni luce dallo stile dell’uomo sobrio che fu Paolo Borsellino.
Veti, intimazioni diretti a delimitare il territorio del consentito e del moralmente lecito sono stati impartiti da chi si è arrogato il diritto di stabilire cerimoniali nel nome di un uomo che aveva nei suoi tratti essenziali un sano laicismo e un distaccato scetticismo per le verità assolute che non fossero la sua fede religiosa e nei valori dello Stato. Non dava nulla per scontato verificando tutto con scrupolo e mai si sarebbe avventurato in liquidatorie verità precostituite, coltivava una garbata ironia, fino a quando non gli fu spenta dalla morte di Falcone, che gli faceva affrontare ogni cosa senza la furiosa cecità dei sacerdoti della verità. Quelli che oggi strumentalizzano il suo nome per conquistare un poco della sua luce riflessa e issarsi su gli scudi di una notorietà che altrimenti non avrebbero conosciuto, sono corvi appollaiati sulle sue spoglie che ne tradiscono la memoria.. Sentire uomini e donne che mai lui avrebbe preso in considerazione pontificare nel suo nome, vedere giovani, guidati su sentieri che mai lui avrebbe indicato, che urlano incitando all’odio e all’intransigenza, fa percepire quanto sia stato distorto il messaggio che il suo esempio di vita ci ha lasciato, assistere ai diktat e ai processi in piazza allestiti da certi personaggi, evoca le tricoteuses che facevano pollice verso sedute ai piedi della ghigliottina all’epoca della rivoluzione francese. I nostri uomini politici non brillano per essere di schiena diritta ma mai ci saremmo aspettati di assistere allo spettacolo penoso di alcuni di essi che si sono piegati alle liste di proscrizione imposte dagli organizzatori della manifestazione e hanno preso le distanze dagli appestati esposti al linciaggio della piazza. Uno spettacolo che non ha nulla da spartire con la compostezza del personaggio che si pretende di onorare, una compostezza che invece traspare dalle sole persone che hanno confermato il loro diritto a rappresentare Paolo Borsellino, sua moglie e i suoi figli.