Calogero consuma i suoi giorni in carcere ormai da quindici anni, da quando è stato condannato all'ergastolo per strage mafiosa. L'ho conosciuto negli ultimi mesi della mia ultima detenzione, in uno stanzone del centro clinico di Opera dove sono stato ricoverato per la mia polimiosite e dove mi sono imbattuto in quella strana, surreale sofferenza patita con ovattata rassegnazione da chi ormai da tempo ha detto addio alla vita. Dove l'atmosfera è quella di un'esistenza non vissuta, regolata da ritmi sempre uguali e privi di contenuti in attesa della resa finale, che parla di uomini non più tali che si trascinano stancamente dialogando fra loro di un futuro che non verrà, di progetti che non si avvereranno, con l'ostinata convinzione che nasce dalla pietosa necessità dell'inganno. In quel camerone la maggior parte dei degenti erano ergastolani affetti da patologie irreversibili che non lasciavano speranze, neanche la speranza di amorevoli cure dei familiari negli ultimi giorni ancora da vivere. Calogero era fra questi ma di tutti era quello che non doveva preoccuparsi per una fine imminente perché le sue patologie erano una invenzione della sua mente andata in pappa. Quando mi vide e seppe che ero di Palermo mi si avvicinò per chiedermi notizie della nostra città, se era cambiata e come, se c'era ancora lo "stigghiularo" di Brancaccio dove egli in tempi lontani aveva consumato il rito quotidiano dello "schiticchio". E il mare, come era il mare, sempre puzzolente nel tratto della Cala dove si mangia il migliore pane con la "meusa" di Palermo? Poi cominciò a parlarmi delle sue innumerevoli malattie, di come aveva contratto un tumore al cervello che non gli lasciava molto tempo da vivere, al massimo sei mesi, del diabete che gli imponeva rinunce crudeli e lo esponeva a rischi collaterali, di anomalie cardiache che discendevano dall'affaticamento causato dalle tante patologie, ma non mi parlò del suo disgusto per la vita. Non mi parlò di come era ormai stanco di vivere e di come somatizzava tutti i mali del mondo evocandoli come reali in un onirico desiderio che essi ponessero fine ai suoi giorni. Anzi mi parlò di come aveva accettato con forza la sua sorte, non importandogli granché di nulla, neanche della sua innocenza che pure era ormai certa da quando un pentito ritenuto attendibile aveva dichiarato che lui con quella strage per la quale era stato condannato non c'entrava e si profilava l'eventualità di una revisione del processo. Respingeva con rabbia la prospettiva di un futuro più cristiano per lui, la possibilità di una riabilitazione dall'accusa di un delitto così odioso, non accettava che quindici anni di carcere venissero annullati come se nulla fosse, come se quegli anni, quei giorni, quelle ore patiti sulla sua pelle, fossero trascorsi inutilmente, cancellati con un colpo di spugna, come in un gioco alla fine del quale si dice: abbiamo scherzato, gli sembrava che a quegli anni venisse sottratta la loro drammatica dignità. Quegli anni erano il frutto di una condanna definitiva, quelli erano e non andavano discussi e sennò che li aveva patiti a fare? Del resto, aveva così poco tempo da vivere!
Calogero è un nome fittizio ma la sua storia è vera ed egli aspetta ancora che il suo processo venga revisionato.
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