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martedì 28 luglio 2015

La voglia di suicidio

Chi non si è fatto tentare almeno una volta nella vita dalla voglia di suicidio? Credo in parecchi, perché la vita è un affare complicato e pieno di insidie e non sempre siamo all'altezza di affrontarla. Ho una certa dimestichezza con l’argomento, perché nei luoghi da me frequentati sono stato vicino di stanza della morte e l’ho sentita aleggiare, suadente compagna di infelici che trascinano la loro esistenza ascoltando l’eco dei loro passi sempre uguali, ossessionati dal tempo che non scorre mai. E l’ho anche vista qualche volta all'opera mentre colpisce alle spalle coscienze tramortite dall'abbrutimento e andate in pappa inseguendo i loro fantasmi, e vi posso dire che la bastarda non fa tanti complimenti. Mi ricordo di un episodio in particolare. Un mio compagno si fermò davanti alla mia cella, mi raccontò dei suoi progetti, di quello che avrebbe mangiato quel giorno, di come stava mettendo da parte i soldi per un regalo all'ultimo figlio appena nato, e passò oltre ostentando una normalità che ingannava per primo lui privandolo delle difese contro l’insidia incombente. Dopo pochi minuti sentii le urla dell’agente che, compiendo il suo giro d’ispezione, se lo ritrovò davanti privo di vita, penzolante dal cappio di un lenzuolo. Ho letto in questi giorni la testimonianza di molti uomini noti che hanno confessato di avere pensato al suicidio. Crocetta per primo che ha strillato di avere corso il rischio ma di essersi salvato non sappiamo in virtù di quale miracolo. E Galan che lamenta di possedere solo 30.000 euro con cui sbarcare il lunario e di avere pensato anche lui al suicidio ma di avere desistito grazie alla figlia. Sono uomini che, grazie a Dio, non hanno trovato il coraggio di uccidersi ma che purtroppo hanno anche smarrito il senso della decenza, mettendo in piazza la narrazione della loro tentazione suicida e facendone mercimonio per lucrare una visibilità che muovesse a compassione. I miei compagni che si sono suicidati erano già morti prima di uccidersi e hanno vissuto fino in fondo e coerentemente la loro sciagurata scelta, questi campioni di insulse brodaglie melodrammatiche, aggrappati morbosamente alla vita, sapevano da sempre di non voler morire e hanno scelto di frignare tentando di barare con i nostri sentimenti. Un minimo di rossore signori e, per favore, un po’ di rispetto per chi con la morte gioca a dadi partite dall'esito scontato.

giovedì 23 luglio 2015

La solitudine


Ho finito di leggere  “Avventurieri dell’eterno” di  Antonio Socci e “Abolire il carcere” di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta, e sono passato dalla sensazione di speranza e di felicità cui, secondo il messaggio di Socci, è destinato l’uomo, ad una sensazione opposta che ben conosco, la sensazione di pena per la condizione  in carcere narrata nelle pagine del libro di Manconi & C. e  drammaticamente confermata dalla notizia degli ultimi suicidi di due detenuti. Mi sono venute in mente la poesia di Quasimodo  “Ed è subito sera” e la lode della solitudine di Gervaso e mi sono chiesto se la solitudine non sia il solo vero rimedio alla vita che ci è stata assegnata e che decliniamo come possiamo e sappiamo tra le insidie di un mondo contraddittorio, a volte generoso a volte crudele, che mette a dura prova la nostra fragilità raziocinante. Ho un parente ossessionato dalla cultura della legalità e da una sorta di paranoia etica che lo guida in tutti i suoi giudizi, in genere severi e senza sconti. Giunge a negare i meriti più evidenti se macchiati da ciò che a lui appare eticamente censurabile. Inutile spiegargli che merito e moralità non sono categorie inscindibili, che l’uno non deve necessariamente presupporre l’altra, e che anzi nella storia dell’uomo ricorrono tanti esempi di sommi artisti moralmente indegni, il nostro intransigente campione non si convince e resta fermo nella sua condanna inappellabile. Peccato che egli, come tutti i moralisti, abbia una doppia morale. Quando, esasperato dalla sua inflessibilità, gli ricordo che sta godendosi la pensione grazie ai buoni uffici dell’onorevole Pincopallo che lo ha sistemato illo tempore in una struttura pubblica senza farlo passare attraverso le forche caudine di un concorso, mi guarda con aria stupita protestando che così fan tutti. Una bella morale come si vede. Non ricordo chi disse: “Guardo dentro di me e inorridisco”. Ebbene  la  morale del mio parente è la morale farisaica di chi è indulgente con se stesso e inorridisce solo per i peccati altrui, di coloro che inarcano il sopracciglio al cospetto della sorte infelice di una umanità che non conoscono eppure demonizzano, quella degli innocenti figli di padri colpevoli, che, a loro dire, se la sono voluta, come la signora Maria Concetta Riina, per esempio, che è onesta ma nipote del capo dei capi e tanto basta, e come i familiari dei detenuti in regime di 41 bis costretti dal vetro divisorio a non stringere al petto la propria carne per decenni. E’ la morale di quanti incitano a buttare la chiave perché il carcere è l’unica soluzione che appaga il loro senso di giustizia e si girano dall’altra parte infastiditi dalle notizie da bollettino di guerra dei detenuti che si impiccano, colpevoli incalliti fino alla fine quando, penzolando imbarazzanti dal cappio di un lenzuolo, fanno l’ultimo, estremo dispetto allo Stato. E’ la morale degli Ingroia e dei Lumia che si sono caricati sulle spalle la vara di San Saro elevandolo a icona del galateo etico e campione della lotta alla corruzione e al malaffare e adesso si rifugiano tra le pieghe di mille distinguo, non pagando pegno per il disastro morale e politico al quale hanno prestato il fianco cavalcando incautamente un crocettismo che non hanno saputo imbrigliare. E’ la morale dei censori che imperversano in rete, tutti onesti e assetati del sangue della vittima di turno, sventolando la ragione di chi si nasconde dietro un nickename anonimo.  Mi sono detto che l’unica amica che non mi tradirà è la mia cara, fedele solitudine che mi tiene a distanza di sicurezza da questo mondo di…..onesti.

domenica 19 luglio 2015

Crocetta

E’ forte la tentazione di unirsi alla canea che ha investito Crocetta. L’uomo si è distinto in passato per il cinismo con cui ha tentato di macchiare la reputazione di galantuomini pur di lustrare la sua patente di antimafioso inflessibile, e dunque viene spontaneo l’impulso di ripagarlo con la stessa moneta senza stare tanto a sottilizzare. Ma anche nei confronti di un uomo simile, contro il quale si ha ragione di nutrire sacrosante riserve per mille motivi, la cautela è d’obbligo non per riguardo alla persona ma al dovere dell’onestà. Quanti hanno a cuore le garanzie di chi è sottoposto ad accuse senza riscontri certi, non possono prestarsi al furore dei linciaggi, e la legge del contrappasso che Crocetta sta subendo dopo aver maramaldeggiato per anni, è una questione tra duri e puri che non può riguardare chi, come i comuni mortali, con la purezza non ha molta dimestichezza. Coloro che hanno subito esecuzioni sommarie, anche ad opera del signor Crocetta, sanno che cosa significa finire nel frullatore di certa stampa al servizio di ragioni non sempre chiare e a caccia di colpevoli sulla cui responsabilità non c’è ancora il timbro definitivo della magistratura, e non possono condividere gli insulti della canaglia in rete. L’Espresso sostiene di essere in possesso di una intercettazione che inchioderebbe Crocetta a responsabilità morali stomachevoli, la Procura di Palermo sostiene che non c’è alcuna traccia di una simile intercettazione. Vedremo chi dice il vero, anche se non c’è bisogno di attendere le verifiche sulle frasi attribuite a Tutino, per essere preoccupati. Dalle intercettazioni in mano agli inquirenti emerge infatti, stavolta senza alcun dubbio, il comparaggio, che evoca scenari inquietanti, tra Crocetta e Tutino, all’ombra del quale veniva decisa la spartizione degli incarichi da affidare. Che dire, si rimane sconcertati non tanto perché scopriamo che il santo martire della lotta al malaffare usa gli stessi metodi di coloro che dice di combattere, ma perché avvertiamo un senso di impotenza di fronte ad un gattopardismo duro a morire che ci irride attraverso la sfrontatezza del nostro governatore. Non ci resta che ripagarlo col senso di ripulsa che suscita la sua panza ballerina.   

giovedì 16 luglio 2015

L’inossidabile Germania


C’è un Paese in Europa che non è solito onorare i suoi impegni e ha la pretesa di dare lezioni di morale agli altri, che ha un debito con la Storia per aver scatenato due  guerre mondiali ed essere stato  graziato con un taglio cospicuo dei suoi debiti di guerra, eppure si atteggia a severo censore,  che dovrebbe sapere che le condizioni capestro non portano a nulla di buono per averle avute imposte dal dissennato trattato di Versailles ed essersene vendicato con la follia del nazismo, che ha tratto vantaggio dall’istituzione dell’Europa Unita  grazie alle ricadute positive della moneta unica agganciata alla sua moneta forte e di un mercato europeo asservito allo strapotere della sua industria che vi esporta il 45% del suo PIL senza avere mai avuto la lungimiranza di dirottare i suoi appetiti verso il mercato interno liberando spazi per le economie più deboli, che ha praticato una cieca politica di arcigna difesa dello status quo imposto dai trattati negando, in ossequio alla intollerabilità delle deroghe, il taglio del debito greco, immemore dell’accordo di Londra del 1953 e delle deroghe che, esso si, si è regalato in combutta con la Francia sforando i limiti del deficit di bilancio nel 2003, che ha preteso e ottenuto, sempre nel nome delle regole, un fondo al quale conferire un pezzo della Grecia per il valore di 50 miliardi di euro destinato alla vendita per ripagare il programma ESM da 82 miliardi e tentando (senza riuscirci) di mortificare la dignità di un Paese sovrano con la pretesa di allocare questo fondo in Lussemburgo, che è alle spalle della potentissima banca d’affari scelta per gestire questo fondo, nel cui consiglio di amministrazione siedono il ministro delle finanze  Schauble e il vice cancelliere Sigmar Gabriel, che è la patria di un gruppo di investitori pronti a scippare a prezzi di realizzo i beni del suddetto fondo, che ha lo stomaco di imporre da una posizione di forza quello che Der Spiegel ha definito il “catalogo degli orrori” ad un Paese allo stremo, che otterrà come risultato immediato ulteriori inutili sofferenze di un popolo al quale sono stati negati i mezzi per sopravvivere, e come risultato successivo un  fallimento la cui ineluttabilità è insita nella pesantezza delle draconiane condizioni imposte  che non potranno mai essere rispettate dai greci. Il fallimento greco con l’effetto domino che ne deriverà lascerà sul terreno un cumulo di macerie fra le quali la signora Merkel si aggirerà ebbra di potere secondo la migliore tradizione dello Sturm und Drang. Ci meritiamo che un simile campione d’altruismo funga da severo custode del farisaismo in quel giardino del Getsemani che è la casa comune europea.

venerdì 10 luglio 2015

La crisi greca


Commentare la crisi greca significa avventurarsi su un terreno nel quale è difficile districarsi. La vicenda con i suoi connotati di politica economica e finanziaria, è troppo complicata e insidiosa per tollerare incursioni non pertinenti ed io che non sono un esperto, non ho la pretesa di azzardare analisi di natura tecnica. Proverò piuttosto ad esprimere un punto di vista che ha a che vedere con la sofferenza di un popolo che amiamo, il popolo greco. So di dovere fare i conti con quanti sostengono che i greci hanno avuto quello che si meritavano perché hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità e si sono indebitati senza avere gli strumenti per potere rientrare dal debito, non una industria produttiva, non una politica che sapesse gestire il welfare in modo ragionevole, non un programma di riforme che offrisse una via d’uscita ad una condizione che precipitava verso il peggio. E so anche che non è condivisibile l’indulgenza di quanti assolvono il popolo affermando che la colpa è solo dei governanti e dimenticano che la democrazia si basa sulla sovranità popolare, che il popolo è responsabile dei governanti che si è scelti. Detto questo però, rimane il fatto che il popolo greco non ha potuto esprimere la propria volontà al riparo dall’inganno, l’inganno dei suoi governanti che hanno truccato le carte pur di farsi accettare nella casa europea con conseguente sfascio del bilancio statale e dell’economia, e l’inganno delle istituzioni europee che non hanno vigilato a sufficienza perché gli conveniva non vigilare. La signora Merkel, impegnata a germanizzare l’Europa e piegarla agli interessi del suo popolo e delle sue banche, era troppo intenta a cogliere l’occasione propizia tollerando una finanza avida e cialtrona, per avere voglia di imporre allora piuttosto che oggi, dopo che il danno è stato consumato probabilmente in modo irreversibile, il rigore necessario a monitorare una deriva che ha portato al disastro attuale. Quando in futuro si parlerà della signora Merkel non si ricorderà certo la sua statura di statista ma la miopia che ha guidato il suo istinto di massaia dedita al bilancio familiare.  Il popolo greco ha poi dovuto fare i conti con quello che ha ritenuto essere la soluzione ai suoi problemi, il signor Tsipras. Un governante che con la riedizione del materialismo storico ha sfidato le lezioni della Storia, che ha mentito al suo popolo promettendo quello che sapeva di non potere mantenere, che ha contraddetto se stesso con una condotta ondivaga prestandosi alle richieste dell’Europa e dei creditori dopo aver vinto il referendum indetto proprio per farsi autorizzare ad opporre un rifiuto a tali richieste e così ingannando ancora una volta il suo popolo, non può essere la soluzione al problema. La DDR dall’economia collassata accolta a braccia aperte dalla Repubblica Federale Tedesca, i Paesi ex comunisti che, dopo la caduta dell’impero sovietico, si sono rifugiati sotto l’ombrello dell’Europa unita ricevendone una pioggia di contributi, la stessa Germania di Adenauer che ha goduto di un taglio del 60% del suo debito di guerra (la Grecia fu tra i sottoscrittori), sono tutti esempi di una solidarietà europea che adesso viene negata alla Grecia. Una costruzione così alta quale è quella pensata dai padri fondatori dell’Europa unita, che ha dimostrato di essere in grado di garantire decenni di pace e di stabilità, che contiene in sé valori che ci accomunano in un uguale sentire e che dobbiamo ad una lontana provincia dove migliaia di anni fa si gettavano le basi della moderna civiltà, non merita la miopia degli egoismi nazionali. La Grecia è nostra sorella come lo è la Germania, l’Ungheria, la Francia e quante altre, e abbandonarla a se stessa significa rinunciare a un pezzo della nostra identità. Chi sa e può metta da parte la pretesa delle proprie ragioni e sposi le ragioni di quel popolo meraviglioso, obbedendo allo spirito di Antigone piuttosto che a quello di Creonte. I governanti greci non sono degni del loro passato ma non è neppure degno permettere che nella patria di Socrate e Platone dove è nata la civiltà occidentale, un popolo a noi caro sia lasciato al proprio destino.

martedì 7 luglio 2015

Gli appestati

La prefettura di Trapani ha comunicato ad una azienda che non può concederle il certificato antimafia. Motivo: la presenza nel suo organico della signora Maria Concetta Riina, nipote di Totò Riina. L’interdittiva, si esprime esattamente così: “La inquietante presenza nell’azienda della citata signora Riina, fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell’organizzazione mafiosa, ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un’oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”. Conseguenza: allo scopo di ottenere la certificazione antimafia l’azienda è stata costretta a licenziare la signora Riina, pur non essendo stato contestato alla stessa alcunché di illecito, ma non è stata a sua volta sottoposta a provvedimento di sequestro, pur essendo essa “permeabile alla mafia”. Lo dico non perché mi auguro che ad un torto se ne aggiunga un altro ma per rilevare la contraddittorietà e strumentalità del provvedimento. Le qualità professionali della signora Riina riconosciute dall’azienda nella stessa lettera con cui viene comunicato il licenziamento, l’articolo 27 della Costituzione che recita: “La responsabilità penale è personale”, gli articoli 2, 3 e 4 sempre della Costituzione che parlano di diritti inalienabili dei cittadini, e in particolare l’articolo 4 che riconosce il diritto al lavoro e alle condizioni che rendono effettivo questo diritto, non sono stati sufficienti a evitare il licenziamento di una impiegata non solo brava ma anche onesta, visto che ha una fedina penale immacolata e non si è mai macchiata di alcun reato. Però c’è il nome e questo basta a far dire al signor Prefetto, forte del “prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale”, che “la cautela antimafia non mira all’accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, al di là dell’individuazione di responsabilità penali”. Dunque è così che funziona, apprendiamo che lo scopo dell’antimafia non è quello di accertare responsabilità penali, bensì di accertare l’innocenza e punirla perché macchiata dal suo difetto d’origine. Come a dire che l’uomo, erede di Caino, è colpevole per natura e non c’è libero arbitrio che tenga. Una sorta di predestinazione di agostiniana memoria non emendata né dalla scelta che ciascuno di noi compie in difformità dal male né dalla grazia divina, una mostruosità giuridica come dogma che con la cecità del suo assioma punisce la responsabilità dell’innocente e giustifica il sopruso nel nome della madre di tutte le battaglie, la lotta alla mafia (sacrosanta per carità, a scanso di equivoci, quando non è strumentale), cui vanno sacrificati persino i principi che hanno fatto la storia della civiltà del diritto e hanno trovato accoglimento nella nostra Costituzione. Ci mancherebbe che questi principi valessero anche per una che si chiama Riina anche se non ha commesso alcun reato! Una che ha il torto di portare un nome così pesante, è già colpevole al di là delle sue responsabilità personali, e dovrebbe avere il buon gusto di non esistere e di non creare imbarazzo alla collettività. Si arrangi a brigare sotto banco come può e come sa, come i tanti che, non potendo ottenere le autorizzazioni necessarie ad affrontare un’attività lecita perché parenti di mafiosi, sono spinti verso il sottobosco della criminalità che, come sappiamo, non si formalizza più di tanto. Siamo alla istituzionalizzazione dei cittadini di serie B per i quali i diritti, anzi il diritto è sospeso. D’altronde perché scandalizzarci in un Paese in cui la legge Severino si applica a Berlusconi ma non vale per De Magistris e De Luca?

venerdì 3 luglio 2015

L’innominato

Il personaggio di cui mi occupo in questo post dispone di un potenziale offensivo di tutto rispetto che sconsiglia sfide suicide, per questo motivo eviterò di declinarne apertamente l’identità. So che non faccio la figura di un cuor di leone ma appartengo ad una specie non protetta e non mi posso permettere certi lussi. Come recita saggiamente un proverbio siciliano,“fuggire è vergogna ma è salvamento di vita”. Dunque il personaggio in questione è una icona della superiorità morale, sodale della consorteria dei puri, sacerdote del verbo antimafioso, che dall’alto del suo ambone distribuisce sermoni e scaglia fatwa contro gli infedeli che non aderiscono alla sua chiesa, liquidandoli tutti come mafiosi. Il principio guida della sua vita è il sospetto che brandisce per mascariare gli avversari, anzi i nemici, attingendo ad un retroterra sub culturale che mescola un pot pourri di frasi fatte e di ovvietà politicamente corrette date in pasto a un popolo di tricoteuses traboccanti di vuoto e assetate di sangue che sbavano in sognante adorazione di cotanto profeta. Un’altra categoria che lo ispira è la sua inclinazione sibarita che lo indirizza verso valutazioni estetiche imbarazzanti sulla morfologia dei personaggi che non gli aggradano, ma il meglio di sé lo da nella sua personalissima concezione del diritto inteso quale optional piegato alla bisogna, ora malandrino e incurante delle regole quando si tratta di colpire gli avversari, ora compiacente e omertoso quando si tratta di coprire le magagne degli amici del cerchio magico ammessi ai privilegi della greppia da lui stesso creata, secondo un copione caro a certi tromboni radical chic che hanno una doppia morale e la utilizzano come un’arma impropria. Ognuno ha il messia che si merita e noi siciliani ci meritiamo questa caricatura di Savonarola perché siamo un popolo di servi che ha perduto il senso della decenza e ha dilapidato il proprio orgoglio deponendolo ai piedi di ciò che conviene, ora della mafia che traffica con la morte e il malaffare, ora della mafia dei furbi che ha fatto dell’antimafia un affare lucroso servendosi dei soliti turibolanti utili idioti. Grazie alla sua disinvoltura morale il nostro innominato ha saputo barcamenarsi, in barba alla decenza, tra le insidie delle verità scomode e, con la sua natura debordante che non conosce argini, dilagare imperterrito approfittando della dabbenaggine del solito gattopardismo siciliano che, inseguendo i suoi bizantinismi, si è incartato e ci ha regalato questa guida illuminata. Ce lo siamo meritato e ce lo teniamo, ma è troppo sperare che, nella migliore tradizione della nostra storia di popolo messo a giudizio da provvidenziali invasori, qualcuno abbia misericordia di noi e venga ancora una volta a soccorrerci? Il signor Renzi, per esempio, alla cui scuderia tutto sommato appartiene il nostro campione, e che potrebbe decidere di ritirarlo dall’agone siciliano destinandolo a competere nelle sue contrade?