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venerdì 29 aprile 2016

Voglia di giustizia

In questi giorni sui giornali è apparsa la notizia di una indagine per estorsione che sarebbe in corso nei confronti di Pino Maniaci direttore dell’emittente televisiva Telejato, protagonista di tante inchieste e denunce specie contro la mafia. La reazione di Maniaci non si è fatta attendere. Egli infatti è andato all’attacco sostenendo senza tante perifrasi che l’indagine nei suoi confronti è una ritorsione della Procura per avere egli osato attaccare un santuario della magistratura, allorché ha scoperchiato la pentola dei presunti illeciti nella gestione dei beni confiscati da parte dei giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Maniaci che in passato non ha avuto dubbi sulla correttezza dell’operato dei giudici quando l’obiettivo erano altri, non ha parimenti dubbi sulla faziosità degli stessi adesso che l’obiettivo è lui. A sua volta Maniaci è stato bacchettato da coloro che, non avendo anche essi dubbi, gli hanno ricordato che la fiducia nel lavoro dei magistrati e nella magistratura non deve mai essere messa in discussione. Io che invece sono pieno di dubbi, qualche pensiero me lo faccio, sia sul dogma dell’infallibilità della magistratura che sulla buona fede di tanti manettari. Quando si parla di magistratura non si può negare il suo ruolo di baluardo in difesa della società purché essa abbia come unica bussola l’applicazione della legge. La magistratura è una istituzione insostituibile e la sua indipendenza è sacrosanta come la presunzione della sua onestà. I dubbi sorgono quando alcuni magistrati scambiano la severità per intolleranza e le categorie della legge per categorie morali e trasformano lo spirito di servizio in arroganza con cui invece di servire la legge, la inventano promuovendo crociate che pretendono di redimere la società. Si seggono sul pulpito e ci impartiscono lezioni di superiorità morale mettendo all’indice gli indagati prima ancora di pronunciarsi sulla loro colpevolezza in un’aula di tribunale. La sortita del dottore Davigo contro i politici definiti ladroni per antonomasia che per giunta non si vergognano, è un esempio fra i tanti. Questo accade perché purtroppo il nostro non è un Paese normale. Non è normale infatti un Paese incapace di produrre, nella maggior parte dei casi, autentici servitori dello Stato, paladini solitari e sobri della legge, ma capacissimo di produrre uomini che equivocano sul ruolo del potere al quale appartengono e lo trasformano in casta. Che cosa è infatti se non casta un potere che, godendo di una assoluta indipendenza rispetto ad altri poteri e avendo l’obbligo morale di autogestire questa indipendenza con una severità nei confronti di se stesso maggiore di quella usata nei confronti di altri, si comporta da organismo al di sopra della legge? Hanno forse pagato i giudici che perseguitarono ingiustamente e disonestamente Enzo Tortora? No, anzi sono stati promossi? E il carcere preventivo tanto abusato nei confronti dei comuni mortali, perché non è inflitto con lo stesso zelo a quei giudici su cui gravano gravi indizi di colpevolezza? Di che cosa si lamenta Maniaci e di che cosa si lamenteranno domani altri cronisti giudiziari che vanno a nozze con i teoremi dell’accusa, quando sarà il loro turno di finire nella macelleria delle colpe sospette e non provate ma date ugualmente per certe? Quanti sono i galantuomini, tra i giornalisti che sbattono il mostro in prima pagina, capaci di chiedere scusa ai mostri innocenti come fecero Pannella e Bonino quando inviarono al Presidente Leone una lettera rammaricandosi per averlo accusato ingiustamente di essere implicato nell’affare Lockheed? Lo Stato di diritto può essere una parola vuota se non è tutelato dalla coscienza onesta di quanti hanno un ruolo pubblico, siano essi magistrati e giornalisti, ma anche dei cittadini comuni che dovrebbero evitare di inveire contro il presunto reo alla stregua delle popolane che tumultuavano ai piedi della ghigliottina all’epoca della rivoluzione francese.

sabato 16 aprile 2016

Il referendum sulle trivelle

Il referendum sulle trivelle di domani ha acceso un dibattito, non tanto sul merito, quanto sulla legittimità di astenersi o meno dal voto. La Costituzione all’articolo 48 recita che votare è un dovere civico e il presidente della Consulta, forte del dettato costituzionale, sostiene che votare esprime la pienezza della cittadinanza. Chi si schiera per la partecipazione al voto arriva ad affermare che l’astensione è una deriva ingannevole e sleale perché sabota il referendum sommando gli indifferenti ai contrari, mentre chi vota resta solo col suo si: un espediente bello e buono (Ainis ). Altri ( Panebianco ) sostengono che l’astensione è una espressione legittima quanto quella di votare perché, se è previsto il raggiungimento del quorum come condizione perché passi il referendum, significa che l’astensione non è un espediente ma un diritto previsto come il si e il no. Se parliamo del merito, tutte le posizioni sono rispettabili ma pare che questo dibattito sul referendum più che parlare di merito si sposti sul piano dell’etica, visto che parecchi sostenitori del si, invece di spiegarci la bontà delle loro ragioni, denunciano la mancanza di senso civico degli astensionisti. Naturalmente sorvolano sull’espediente al quale ricorrono anche essi quando, issando la bandiera del senso civico, si disinteressano del quesito e utilizzano il referendum quale strumento di lotta contro il governo, in questo, bisogna dirlo, incoraggiati dalle esternazioni di Renzi. Su cosa i signori del si fondano la presunzione dell’ etica del voto, lo abbiamo visto. La fondano sul dettato costituzionale che parla di dovere civico. Ma la nostra Costituzione, anche se è “la più bella del mondo”, è emendabile e l’articolo 48 lo è ancora di più, perché non è accettabile che un sacrosanto diritto al voto, che ciascuno può esercitare o no senza alcuna implicazione di carattere morale, venga spacciato per un dovere che ricorda tanto l’obbligo al voto imposto nei Paesi dove, guarda caso, l’affluenza al voto è del 100%.  

martedì 12 aprile 2016

Romanzi imbarazzanti

Non sono solito leggere “la Repubblica” e dunque intervengo solo adesso su una notizia che ho appreso in ritardo. Ho appreso cioè che su “la Repubblica” di domenica 10 aprile è apparso un servizio con tanto di foto del sottoscritto, a proposito dell’ospitalità concessa dalla Fonderia Oretea alla presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”. L’articolo è calato nell’ambito della vicenda che ha visto Salvo Riina ospite di Bruno Vespa su “Porta a porta” e fa un accostamento tra le due ospitate assolutamente infelice. Quale è infatti l’attinenza tra la presentazione del mio libro e l’intervista a Riina? Questi nell’intervista ha fatto dichiarazioni che palesano una chiara forma di assoggettamento ai disvalori mafiosi disponendo di una platea di dimensioni nazionali che ne ha dilatato l’eco. Per inciso sono convinto che il solo a uscire con le ossa rotte dall’intervista è stato proprio il signor Riina messo in ridicolo dalle sue stesse improbabili dichiarazioni e subissato da una valanga di critiche feroci. La società, grazie a Dio, possiede gli anticorpi necessari a isolare certi virus e il signor Riina è rimasto solo, terribilmente solo tra le macerie del suo mondo sconfitto. Ma, tornando al punto, io che c’entro con tutto questo, quale è l’accostamento? Non c’è confronto con la modesta dimensione della platea in cui si è svolta la presentazione del mio romanzo e, cosa fondamentale, alla Fonderia Oretea non si è colta l’occasione per esprimere condivisioni mafiose. Peraltro la Fonderia è una struttura che il Comune mette a disposizione per eventi culturali e artistici e il mio romanzo ha le carte in regola per accedere al diritto di usufruire di quella struttura. E’ stato scritto, è vero, da un condannato per mafia, ma chi lo ha letto sa che il romanzo ha un suo valore letterario che non può offrirsi a nessun equivoco, non fa l’apologia della mafia, anzi, contiene un messaggio che parla di un percorso di riscatto rispetto al mondo mafioso e, in occasione della presentazione, non è stato utilizzato per messaggi criptici o per flirtare con la mafia. Alla Fonderia si è parlato solo di lettere, di sofferenza, di dolore e di lacrime. Bisognerebbe leggere il libro, solo che se ne fa a meno e si va per le spicce, utilizzando la scorciatoia che nega a un condannato per mafia il diritto di pensare, anche se pensa cose positive, e di guadagnarsi lo spazio in cui esprimere quello che pensa, perché ad un condannato per mafia nulla è dovuto, tranne il disprezzo. Il merito non conta, non vale la pena di fare una valutazione intrinseca del valore del libro, meglio circondarlo col silenzio riservato ai reprobi, come nei fatti è puntualmente accaduto, salvo tirarlo fuori dal cilindro quando serve per sparare a zero contro lo sfrontato che si permette di sfidare l’opinione pubblica con la pretesa di alzare la testa. Meglio andare sul sicuro e ribadire ciò che è politicamente corretto: un“mafioso” non ha diritto di pensiero e di parola e tanto meno ha diritto ad essere ospitato in una struttura pubblica. Signora Nicolosi, che facciamo, mettiamo al rogo i libri e le opere di personaggi discussi come Celine e Caravaggio facendo finta di dimenticare che la Santa Inquisizione ha fatto il suo tempo e dopo di essa sull’Europa si è abbattuto uno tsunami conosciuto sotto il nome di illuminismo?

sabato 9 aprile 2016

L’intervista a Salvo Riina

L’intervista rilasciata da Salvo Riina a Bruno Vespa e mandata in onda su “Porta a Porta”, si è tradotta nel più classico degli autogol per questo giovane che ha tentato una improbabile operazione di make up mancando l’obiettivo. Uno come Salvo Riina, nel momento in cui si prestava ad accettare un’intervista destinata a ruotare fatalmente attorno al fenomeno mafioso e al nome di cotante padre, doveva sapere che non avrebbe potuto limitarsi a rivendicare i diritti del suo vincolo parentale smarcandosi da un giudizio sulla mafia e sulla figura del padre. A nessuno, credo, interessi più di tanto apprendere che egli ama suo padre, ma a tutti interessa apprendere se egli, senza rinnegare il suo affetto filiale, prenda le distanze da un uomo indicato come il capo assoluto di un autentico impero del male. Se ha accettato di esporsi in una intervista che doveva immaginare pena d’insidie, doveva accettare anche di mettersi in gioco fino in fondo ed evitare di fare il pesce in barile. Detto questo, dobbiamo purtroppo registrare il solito balletto ipocrita messo in scena da chi lamenta che la Rai non doveva concedere una platea così vasta al figlio del boss dei boss. Tanto per cambiare cadiamo nella solita intolleranza degli ottusi paladini della censura ad oltranza che non vanno oltre il loro naso. Mandando in onda l’intervista a Salvo Riina, la Rai ci ha fatto conoscere attraverso la fissità dello sguardo e i tratti marmorei del viso dell’intervistato l’ineluttabilità della condizione di cui questi è prigioniero e l’inesorabilità di una logica demenziale declinata inespressivamente, col vuoto negli occhi, da un giovane che, come ha detto Felice Cavallaro, sembrava sbarcato da Marte, l’unico pianeta che ha avuto in sorte di conoscere. L’intervista descrive come meglio non poteva la spietatezza di questa condizione e ci fa toccare con mano magistralmente l’insensatezza del mondo da cui essa proviene e i limiti imbarazzanti dell’intervistato. Dove è dunque il rischio insito in essa, chi può prendere in seria considerazione le affermazioni di Salvo Riina quando egli sostiene che lo Stato ha avuto la colpa di averlo privato del padre, più tutta una serie di amenità di cui è infarcita l’intervista? Altro che favore fatto a Salvo Riina e alla mafia, questa intervista è, ripeto, un autogol. E invece si è gridato al lupo secondo il vizietto caro ai perbenisti in servizio permanente che, più che combattere la mafia, danno la stura al loro isterismo sterile. A un certo punto della trasmissione l’avvocato Li Gotti e Felice Cavallaro hanno lamentato che una certa antimafia di facciata è servita a procacciare carriere e prebende, suscitando le proteste di Dario Riccobono di Addio Pizzo il quale ha rivendicato i meriti di un’antimafia senza macchia che non va demonizzata. Nessuno nega i meriti dell’antimafia ma questo non deve impedire che essa guardi al proprio interno e monitori il marcio che vi si può annidare. Un esempio di intransigenza auto assolutoria persino in presenza di segnali inquietanti che giungevano dal mondo dell’antimafia, si è avuto allorché l’on. Rosy Bindi ha bacchettato sdegnata il prefetto Caruso colpevole di avere avanzato dei dubbi sull’operato della Sezione per le misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Abbiamo visto come è andata a finire ed è il caso di dire che la presunzione di una purezza che non va mai messa in discussione pena l’accusa del delitto di lesa maestà, non rende un buon servizio alla lotta contro la mafia. La cronaca degli ultimi tempi costellata di episodi che narrano di marioli assisi sul cadregino dell’antimafia intenti a fare i loro comodi, ci informa su come funziona una certa antimafia al riparo dalle doverose censure. Ma il problema non sono solo i marioli, un problema ancora maggiore sono i professionisti dell’antimafia di cui parlava Sciascia, i maitres à penser che indirizzano l’opinione pubblica verso teoremi assoluti, abili nell’arte della manipolazione. Quanti salgono sugli scudi e stigmatizzano la messa in onda dell’intervista a Riina, giustamente lamentando il fatto che questi non mostri alcun segno di ravvedimento, ci debbono spiegare perché non insorgono con la stessa veemenza e non difendono questi segnali quando essi emergono e vanno incoraggiati invece di essere soffocati dall’ostracismo ( vedi il caso della nipote di Totò Riina presa di mira dalla questura di Trapani e licenziata dall’azienda dove lavorava nonostante una fedina penale immacolata e un curriculum lavorativo irreprensibile ) e dalle congiure del silenzio che ricacciano nelle viscere del degrado la voglia di riscatto. Questi calvinisti a buon mercato sono distratti o in malafede? Nell’un caso come nell’altro, anche essi non rendono un buon servizio alla lotta contro la mafia.