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mercoledì 1 dicembre 2010

La crisi dello Stato


Credo sia giunto il momento di chiedersi se l’Italia ha ancora titolo per chiamarsi Nazione.
Se vale il concetto di Nazione inteso nel senso rousseauiano di corpo al quale vengono affidati i diritti dei singoli per ricavarne una sovranità nazionale la cui obbedienza “ ci forza ad essere liberi “, l’Italia non è più una Nazione. Il desolante panorama che abbiamo di fronte parla di oppressione anziché di libertà, perché non hanno funzionato le salvaguardie pensate da Constant contro il rischio di un indirizzo autoritario della volontà generale e perché è mancata la classe dirigente.
La libertà e l’autonomia individuali sono state invase e sacrificate e la così detta religione civile è diventata un simulacro che si nutre di una sacralità vuota e procede per miti in una parvenza di democrazia imbalsamata nelle sue liturgie. E mentre i soliti sacerdoti si baloccano con i refrains di una stagione giunta al capolinea invocando l’intoccabilità della costituzione, la divisione dei Poteri e il rispetto dei relativi ruoli , l’inviolabilità della volontà popolare, la sovranità del Parlamento, la solennità delle garanzie costituzionali, le” magnifiche sorti e progressive “ della nostra democrazia, nel cui funzionamento tutte le parti politiche giurano di impegnarsi, mentre imperversano parole vuote, i nostri pensionati vengono consegnati ad una vita di stenti, i giovani sono lasciati alla mercé della loro disperazione, la nostra cultura e le nostre opere d’arte sono abbandonate allo sfascio, le imprese a se stesse e le nostre città al degrado, la nostra immagine nel mondo è sporcata dalle organizzazioni criminali ma anche da certi nostri impresentabili governanti, il Paese è ostaggio della piazza, i Poteri si accapigliano fra loro.
Si cominciano ad avvertire i sinistri scricchiolii della catastrofe mentre la nostra classe dirigente produce politici litigiosi che hanno a cuore interessi particolari, che riescono ad esprimere le loro elevate virtù al massimo issandosi sui tetti a caccia di visibilità, che fanno volare il debito pubblico al doppio dello standard europeo indicato quale soglia a garanzia della messa in sicurezza, che sperperano, corrompono e si fanno corrompere per fini miserabili, che sfasciano il tessuto sociale e produttivo e distruggono la vita e le garanzie dei cittadini facendo della giustizia il tempio dell’ingiustizia. In questo clima proliferano gli imbonitori e i tribuni servi delle opposte ideologie che confondono l’opinione pubblica e soffiano sul fuoco di faide insanabili. In questa che è una vera e propria rimozione del concetto di bene comune, matura e si consuma il dramma degli orfani del sistema, di chi non ha la protezione della consorteria d’appartenenza, dei paria senza visibilità che hanno perduto la speranza del futuro e si dibattono nella loro impotenza, ma si consuma anche la deriva di un Paese ormai allo sbando senza che i protagonisti di esso provino vergogna e abbiano l’intelligenza di capire che gli interessi particolari finiranno per travolgere deboli e forti indifferentemente e che è necessario un comune impegno che metta il Paese al riparo dal default che prima o poi, ma piuttosto prima che poi, busserà alla nostra porta.
Un paese così fatto può ancora chiamarsi Nazione? E la sua classe dirigente che procura lutti e sofferenze, che si è appropriata dei nostri diritti impedendoci di essere liberi, che non ha la credibilità morale e la forza per esercitare la sovranità nazionale, si discosta molto dai mali che pretende di guarire?

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