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martedì 23 settembre 2014

La lotta alla mafia



La stampa ha riportato con toni scandalizzati la notizia che due giovani sposi, parenti di mafiosi, hanno osato sposarsi nientedimeno che alla Cappella Palatina, la basilica situata all’interno del Palazzo dei Normanni,  “varcando il portone della reggia popolata dai 90 deputati dell’Assemblea regionale, e così provando ad ostentare potere” ( Felice Cavallaro-Corriere della Sera di lunedì 15 settembre ).
Mi pare di capire che si voglia condannare l’arroganza dei due sfrontati che si sono permessi di profanare con la loro intrusione i luoghi sacri dove espletano la loro elevata funzione 90 gentiluomini impegnati a tenere alte le sorti della Sicilia. I due sciagurati avrebbero dovuto avere il buon gusto di celebrare la loro unione di cittadini di serie B in maniera meno provocatoria, accontentandosi di una anonima cappella sperduta nelle campagne di Castelvetrano, e così evitando di urtare la sensibilità degli onesti cittadini.
L’episodio si salda allo scandalo suscitato dall’assegnazione del premio “Recalmare-Leonardo Sciascia” al pluriomicida Grassonelli  anziché a Caterina Chinnici figlia del magistrato Rocco assassinato dalla mafia, ed è paradigmatico della stupidità umana oltre che della presunzione morale priva del senso della misura che scade nel moralismo a basso prezzo.
Nello stesso numero del Corriere potrete leggere la lettera con cui il ministro Alfano suggerisce di combattere l’ISIS ricorrendo alla normativa antimafia fiore all’occhiello dell’Italia, Paese dell’Occidente che ha “come pilastro fondativo la libertà della persona nel nome della democrazia”. Ora, la faccia tosta ci può stare  e a volte può essere anche simpatica, ma non quando a parlare di libertà della persona in nome della democrazia è un personaggio che ha inasprito il 41 bis infischiandosi delle garanzie previste dalla Costituzione e condannando degli infelici a vivere la carcerazione da murati vivi. Allora è irridente e, in questo caso, si, provocatoria. Come può questo signore parlare di democrazia a proposito di un Paese che nega i diritti fondamentali ai suoi cittadini e non tollera che due giovani si sposino dove cavolo gli pare? E come si permette il signor Alfano di salire in cattedra, lui che è uno dei massimi rappresentanti di quella classe politica responsabile dei tanti guasti la cui  casistica è eloquente:  la corruzione diffusa, un Parlamento che non riesce ad eleggere i membri della Consulta e del CSM, l’ammontare della spesa pubblica fuori controllo, la disperazione dei giovani senza futuro, l’estorsione fiscale, le corporazioni che lottizzano il potere e ne fanno strumento di interessi particolari contro l’interesse generale, mentre gli organi di garanzia che dovrebbero tutelare l’inerme cittadino convivono con gli autori degli abusi perché i loro componenti provengono dagli stessi salotti frequentati dai personaggi che dovrebbero perseguire? Questa classe politica e i sodali che ad essa si rifanno non sono forse più pericolosi della mafia, non solo perché si annidano nei gangli vitali della società e ne condizionano la vita in maniera capillare e diffusa con buona pace della democrazia del signor Ministro, ma perché molto spesso coincidono con le istituzioni e godono di una impunità di cui certo non gode la mafia?
Siamo stanchi di assistere alla fiera del perbenismo di facciata che, mentre l’Italia cola a picco per motivi che nulla hanno a che fare con la mafia, hanno come unico leitmotiv il frustro refrain  della lotta alla mafia utilizzata come rampa di lancio di un nuovo professionismo che garantisce laute prebende e da l’aire a sfrenate ambizioni. Perché i nostri accigliati Catoni si ostinano a fare dei mafiosi  carne da macello tenendo alta la soglia d’allarme e agitando lo spettro di un pericolo ormai pressoché rientrato, pur di tenere vivo un clima di emergenza e garantire i santuari dei Vysinskij assetati di protagonismo e arroccati in difesa di un carrierismo intriso di intransigenza ideologica? Perché invece non sperimentano un approccio diverso nei confronti di un fenomeno che ha dimostrato di sapere esprimere personaggi  di spessore, capaci di conversioni insospettabili che non vanno confuse con la squallida offerta della propria disponibilità in cambio di benefici, bensì intese come autentico percorso di ravvedimento?  Perché non imparano a capire con che cosa hanno a che fare e non combattono la mafia con lo strumento del perdono ( non, beninteso, come remissione delle colpe ma come concessione di una carcerazione più umana  e volta al recupero )  che un ergastolano ha definito la migliore vendetta di una società, perché innesca il senso di colpa per il male fatto e può portare alla redenzione?
Il carcere più che un luogo è una condizione che rende la vita non vita e la confina in un limbo dove tutto è sfocato e incerto. Anche i più forti in carcere vengono privati di qualcosa, la loro volontà è erosa da quello che è stato definito l’ozio senza riposo, da un logorio metodico e costante che lima la resistenza e la piega alla monotonia di consuetudini sempre uguali, sempre obbedienti ad una logica che ha nella demenzialità la sua ragion d’essere. Quando le albe e i tramonti salutano giornate fatte degli stessi rituali di sempre che hanno nelle quattro pareti di una cella i confini del loro mondo, la prospettiva si accorcia impercettibilmente e inesorabilmente  giorno dopo giorno, e le coscienze tramortiscono. Oppure si ribellano e gli animi si inaspriscono fino alla crudeltà o alla pazzia e, nel caso degli ergastolani, fino alla tentazione del gesto estremo.
Ma ce ne sono, io lo so, specie tra i pezzi da novanta sepolti nelle patrie galere, ultimi epigoni di un mondo al tramonto, che possono essere recuperati e dare corpo alla speranza di un futuro diverso nell’opera di affrancamento da valori negativi. Ci sono coscienze provate che hanno abdicato al mito di una mafia idealizzata e fanno i conti, sconfortati, con le macerie lasciate in eredità da stagioni folli. Il recupero di esse è la vera sfida che lo Stato si deve imporre, invece di ricorrere ai soliti strumenti che incattiviscono piuttosto che redimere.
I tempi sono maturi e i Torquemada hanno ormai concluso il loro compito.

venerdì 5 settembre 2014

Le sindromi del carcere e della società civile

Vivere il carcere e piangersi addosso.
È la sindrome che vivono alcuni detenuti quando, a contatto con la sofferenza, si abbandonano alla facile tentazione del vittimismo e confondono la giusta pretesa di una carcerazione dignitosa con la fuga dalle proprie responsabilità.
Una sindrome di segno opposto è quella dei sacerdoti del moralismo arrembante schierati su posizioni intransigenti, i quali negano qualsiasi concessione a chi ha sbagliato e fanno della detenzione un cordone sanitario che separa il peccato dentro le carceri dalla virtù fuori dalle carceri.
È la somatizzazione, da una parte della propria innocenza, dall'altra dell'altrui colpevolezza, con la differenza che, mentre i detenuti dispongono di armi spuntate, i Savonarola del giustizialismo possono imperversare a loro piacimento. Ne è un esempio la reazione del signor Gaspare Agnello, componente della giuria che assegna il premio letterario “Recalmare - Leonardo Sciascia”, il quale si è dimesso dal suo incarico lamentando che si sia osato assegnare il premio a Giuseppe Grassonelli, ergastolano pluriomicida, invece che a Caterina Chinnici figlia del giudice Rocco, ucciso da Cosa Nostra.
Per il signor Agnello i trascorsi giudiziari sono una discriminante quando si deve giudicare una opera letteraria il cui valore, secondo il suo punto di vista, va misurato con il lindore o meno della fedina penale e passa attraverso il riscatto del suo autore.
Non c'è dubbio che l'opera letteraria di un detenuto nasce anche dalla sensibilità guadagnata attraverso una presa di coscienza e un percorso di riscatto, ma non c'è dubbio neanche che essa ha un suo valore intrinseco che prescinde da implicazioni di carattere sociale e morale e non deve necessariamente avere potere salvifico. E senno' il dissoluto Baudelaire e il “depravato” Rimbaud non dovrebbero figurare nell'Olimpo dei poeti.
Di ciò che passa per il cuore dei detenuti ho una discreta esperienza. Ho scritto un diario durante la mia ultima recente esperienza in carcere in cui ho cercato di rendere le dimensioni di un dramma che non può essere liquidato con semplicistiche prese di distanza avendo a cuore esclusivamente la sicurezza della cosiddetta società civile. La società è fatta anche di chi ha sbagliato e se pretendiamo di dirci uomini, non possiamo girarci dall'altra parte e ignorare la sorte di una umanità che, con tutti i suoi errori, ci appartiene. Ignorare questo spicchio di umanità significa rinnegare noi stessi e fare un passo indietro rispetto al traguardo di un mondo più civile.
Invito a leggere la corrispondenza ospitata in un blog “Le urla dal silenzio” (urladalsilenzio.wordpress.com) da sempre impegnato a dar voce a quelli che un ergastolano, Carmelo Musumeci, ha definito “uomini ombra”.
Dalla lettura di quella corrispondenza emerge uno spaccato che non ha niente da spartire con il luogo comune secondo cui il detenuto è merce avariata sui cui non vale la pena investire. È una realtà insospettabile dove uomini che si è soliti pensare colpevoli e intrappolati nella riserva degli irrecuperabili, hanno da tempo valicato i confini dei loro errori e sono solo prigionieri dei limiti dei “benpensanti”.
Nel mio diario uno di questi uomini, Gerti Gjenerali, un giovane ergastolano albanese, si erge in tutta la sua straordinaria statura. E “Urla dal silenzio” ci propone una galleria di personaggi i quali ci dicono che il tempo ha fatto giustizia di certi stereotipi, che la sofferenza ha reso questi uomini migliori dei tanti che guardano alla detenzione col sopracciglio inarcato.
Sono uomini che in carcere si sono riscattati e hanno affidato la loro sofferenza a pagine struggenti che colpiscono per la loro drammaticità, il loro lirismo, la loro delicatezza. Leggete la prosa maschia di Carmelo Musumeci nel suo libro “L'urlo di un uomo ombra”, le poesie di Tommaso Amato, il diario di Pasquale De Feo, la scrittura intensa di Pierdonato Zito, e saprete di cosa parlo.
Nei confronti di una simile realtà, l'indifferenza, l'accanimento di chi dovrebbe affrontare il problema della detenzione e delle sue aberrazioni, l'ergastolo ostativo e il 41 bis, in una ottica più laica, ispirandosi peraltro al dettato costituzionale, e' colpevolezza.