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martedì 22 giugno 2010

I leghisti ovvero l’apologia del suicidio

I leghisti conducono la loro sacrosanta lotta contro la mafia e un loro uomo insediato al Viminale può a buon diritto rivendicare i buoni risultati di questa lotta. Latitanti arrestati, cosche decimate,…….mafiosi suicidati. E si anche il suicidio è un risultato di cui mena vanto la Lega attraverso l’on. Gianluca Buonanno il quale, senza alcun imbarazzo, ha dichiarato: “Abbiamo saputo che si è suicidato un mafioso nel carcere di Catania. Se altri pedofili e mafiosi facessero lo stesso non sarebbe affatto male.” Anche noi diciamo: “Non male on. Buonanno, non male che un componente della commissione antimafia come lei individui nel suicidio di un mafioso un modo per risolvere il problema della mafia. Almeno abbiamo le idee chiare su che cosa intende la sua parte politica per lotta alla mafia. Non ci impressiona tanto la sua mancanza di pietà per un suo simile che la disperazione ha condotto alla morte, per il rappresentante di una umanità dolente che lascia intravedere lo scenario in cui matura una decisione così estrema, per un essere che non è più concreto sciagurato essere ma anima che ritorna a Dio, essendo la pietà una categoria sconosciuta a lei e a i suoi amici. Ci preoccupa quello che c’è dietro il suo compiacimento per la morte di un mafioso. C’è tutto il disprezzo per una sub-umanità alla quale sono negati i diritti che spettano agli altri uomini, persino il diritto alla vita, c’è tutta la filosofia manichea che divide i buoni dai cattivi e nega a questi ultimi la titolarità di cittadini di uno Stato di diritto, o meglio nega lo Stato di diritto se non addirittura lo Stato italiano, che tradisce la convinzione tutta lombrosiana secondo cui la gente del sud è sporca e cattiva. C’è l’arroganza di una pretesa superiorità etnica e dunque di una legittimazione a farsi guida morale, quasi una sorta di platonica repubblica dei filosofi che ambisce educare un popolo con l’esempio delle proprie virtù ma che manca dei fondamentali culturali e finisce per produrre un’oscena, folcloristica, imbarazzante caricatura di una epicità cialtrona e improbabile che coglie col celodurismo il suo momento più alto. Ci sono gli eredi di un popolo di predoni che si propongono di saccheggiare come gli antenati le contrade italiane ignorando secoli di cultura ai quali sono rimasti estranei”.
I barbari sono tra noi e non sono certo solo i mafiosi!

mercoledì 9 giugno 2010

L’onorevole in carcere

Nel supplemento del sabato del Corriere della Sera ho letto un graffiante articolo di Maria Teresa Meli che mi ha riportato indietro negli anni a ricordi sopiti. Nell’articolo intitolato “Per favore non disturbate l’ex detenuto Scaglia”, la giornalista scrive:

“C’è uno “sport” bipartisan molto in voga tra i politici. Si chiama la caccia al carcerato. Niente di efferato: siccome possono visitare le prigioni quando vogliono, perché questa è una delle loro prerogative, i parlamentari varcano spesso le porte delle patrie galere per controllare le condizioni di questo o quel detenuto. Incontrano quasi sempre personaggi eccellenti, raramente l’oggetto delle loro premure è un povero cristo. In genere vedono qualche assessore amico, sospettato di corruzione, oppure qualche pezzo grosso dell’imprenditoria inquisito per analogo reato. Così ottengono due scopi: attrarre l’attenzione sul “caso” del momento e su se medesimi. A praticare ogni tanto questo sport c’è anche il segretario del gruppo parlamentare del Pd alla Camera Roberto Giachetti. Per amore di cronaca, bisogna precisare che è un garantista vero, molto impegnato su questo fronte, uno che visita tutti, noti e ignoti. Qualche tempo fa, quando Silvio Scaglia, il fondatore di Fastweb, era ancora in prigione, Giachetti ha deciso di andarlo a trovare. Ma, meraviglia delle meraviglie, il manager non poteva: era ora di pranzo e voleva consumare il suo pasto in santa pace. L’esponente del Pd non l’ha presa male, anzi ha raccontato l’episodio ai colleghi ridendo: tanto lui non doveva farsi pubblicità e il fatto che se non la volesse fare nemmeno Scaglia lo ha colpito in positivo.”

La lettura di questo articolo mi ha fatto ricordare un episodio della mia detenzione e il protagonista dell’episodio, Nazareno Salluzzo mio compagno di cella.
Nazareno Salluzzo era alla sua prima carcerazione e la viveva coltivando l’illusione di una rapida conclusione favorevole della sua vicenda giudiziaria. Aveva letto l’ accusa che gli veniva rivolta di essere vicino ad un noto capomafia ed era convinto che la sua amicizia risalente ai banchi di scuola con il boss, non poteva costituire reato. Rivendicava il suo diritto a quel rapporto dal quale non risultava discendere alcun fatto illecito ed era fiducioso che, di fronte a tanta evidenza, presto tutto si sarebbe risolto positivamente. Non si rendeva conto il buon Nazareno del ginepraio in cui si era cacciato e di come la comune logica non aveva patria in un contesto in cui il sospetto veniva teorizzato come l’anticamera della verità. E infatti fu rinviato a giudizio con la prospettiva, se fosse andata bene, di scontare tre anni di carcere preventivo. Non si dava pace Nazareno e continuava a ripetere tra se e se che era una vergogna e che avrebbe messo in moto le sue conoscenze. Aveva svolto, prima dell’arresto, una discreta attività politica e aveva coltivato una rete di rapporti con compagni di partito che avevano scalato importanti cariche istituzionali e che, ne era certo, non si sarebbero dimenticati di lui. Leggeva di parlamentari i quali andavano a visitare in carcere personaggi eccellenti della politica e dell’imprenditoria e tuonavano contro le precarie condizioni dei detenuti e la lungaggine dei tempi della giustizia che costringevano a lunghe detenzioni galantuomini infangati da sospetti più che da prove certe. Nazareno esultava alla lettura di queste notizie ed era convinto che presto sarebbe toccato a lui, che qualcuno dei suoi amici sarebbe venuto a visitarlo e avrebbe denunciato l’ingiustizia alla quale lo stavano sottoponendo. Di uno più che di tutti gli altri era sicuro, dell’on. Patané che aveva, anche lui, conosciuto l’onta del carcere per una brutta storia di mafia dalla quale però era stato del tutto scagionato. Raccontava Nazareno dei momenti che erano succeduti alla scarcerazione quando l’on. Patané nel partito era guardato ancora con sospetto e si rifugiava in lunghe passeggiate con lui sfogando la sua amarezza e trovando in Nazareno un’attenzione paziente e partecipe. Era sicuro, Patané presto si sarebbe fatto vivo. Passarono mesi durante i quali Nazareno potè contare sulle visite dei suoi familiari, sulla solidarietà dei suoi compagni che tolleravano con pazienza le sue aspettative senza irridere alla sua ingenuità, ma non sulla visita di Patané. Senonché in prossimità della Pasqua si diffuse la voce che per la festività un parlamentare sarebbe venuto in carcere a portare solidarietà e conforto ai detenuti, l’on. Patané appunto. Nazareno non stava nella pelle per la soddisfazione, a tutti diceva che aveva avuto ragione lui, che, come lui aveva previsto, Patané stava arrivando, che era chiaro che l’obiettivo della visita era lui e assaporava la rivincita nei confronti di chi, ne era sicuro, non gli aveva creduto. Passò il tempo che lo separava dalla visita immaginando la scena del loro incontro, rimuginando tra sé e sé le cose che si sarebbero dette e pregustando la soddisfazione per l’invidia dei compagni. Il giorno di Pasqua Nazareno balzò fuori dalla branda all’alba e cominciò a prepararsi con la stessa cura con cui si preparava al colloquio di ogni giovedì con i familiari. Il colloquio era l’occasione della settimana in cui tutto veniva vissuto secondo rituali ben precisi, una passerella esposta al giudizio severo dei compagni, la vetrina in cui venivano esibiti i capi più eleganti e quel giorno Nazareno aveva un motivo in più per dare il meglio di se.
Quando finì di prepararsi, si sedette impettito e teso in attesa.
Trascorse tutta la mattinata e già si cominciavano a perdere le speranze di vedere l’on. Patané, i compagni si abbandonavano alle prime perfide battute all’indirizzo del povero Nazareno, quando, preceduto da un via vai di agenti, vedemmo spuntare in fondo al corridoio un corteo composto dalla direttrice, dal comandante e da altri personaggi che non identificammo e in testa a tutti lui, l’on. Patané che procedeva rivolgendo saluti e auguri a destra e a manca, fermandosi davanti a qualche cella a scambiare battute e avvicinandosi in direzione della nostra cella. Nazareno era paonazzo , con un sorriso stirato sul volto contratto, scalpitando nell’attesa, aggrappato alle sbarre del blindo fino a quando l’on. Patané non si materializzò davanti a lui. Questi guardò Nazareno stranito manifestando chiaramente lo stupore di trovarselo di fronte, imbarazzato e incerto sul da farsi, poi farfugliò: “Lei qua Salluzzo?”, quindi lo salutò con poche sbrigative parole e passò oltre proseguendo la visita. Nazareno pallido ed esangue girò le spalle al blindo, si avviò verso la branda dove si sedette per un attimo a riflettere, poi si distese bocconi, il volto affondato nel cuscino e rigato da lacrime copiose che ingoiava fra singulti di rabbia.

sabato 5 giugno 2010

Controcanto

Vittorio Messori in una lettera al direttore apparsa sul Corriere della Sera di giovedì 3 giugno, elenca una serie di motivi per i quali , in concomitanza con i festeggiamenti per l’unità d’Italia, sente di dovere dire “Grazie Italia”. I motivi sono sacrosanti e condivisibili ma si prestano al controcanto di una elencazione di motivi altrettanto sacrosanti e condivisibili per dire “No grazie Italia”. Beato lui, Messori dice di essere stato fortunato anche se non privilegiato e, oltre a ringraziare l’Italia, ringrazia la Provvidenza che gli ha concesso salute e occasioni.
E chi invece non è stato né privilegiato né fortunato?
Da noi in Sicilia si dice che la fortuna è “facciola” e la Provvidenza, nel caso dei meno fortunati, deve fare i conti con variabili spietate che non concedono sconti. Certo, nella sua infinita generosità, questa cornucopia senza fondo ha regalato, per esempio, a me, in una tra le più drammatiche stagioni della mia vita, doni che altrimenti non avrei conosciuto in aggiunta a quelli che mi sono stati sottratti. Ma debbo ringraziare appunto la Provvidenza non l’Italia.
All’Italia semmai chiedo conto del :
_ perché i 400 mila immigrati a Torino di cui parla Messori hanno dovuto trovare il benessere in contrade così lontane;
_ perché lo stesso giornale che ospita Messori e gli fa dire “ciò che vuole dire”, può tranquillamente ignorare una mia lettera di protesta per l’articolo diffamatorio di un suo cronista;
_ perché se voglio andare da Palermo in un posto qualsiasi della Sicilia orientale le strutture ferroviarie e stradali mi costringono ad ore e ore di interminabili tragitti e tortuosi itinerari;
_ perché, al contrario della famiglia Messori che “da una camera in subaffitto è giunta a una dignitosa casa di proprietà”, io la casa di proprietà donatami da mia madre, ho rischiato di perderla e l’ho avuta sotto sequestro per un anno con l’accusa di provenienza illecita prima che se ne riconoscesse la liceità;
_ perché sono sotto processo per mafia da 12 anni, ancora al vaglio del giudice d’appello, e, a causa di questa lunga esposizione giudiziaria, la mia vita e il mio nome sono stati preda di una opinione pubblica avida che ha potuto sostituirsi ai magistrati e mi ha condannato, anzi, giustiziato senza riguardo per la mia presunzione d’innocenza;
_ perché a questa esecuzione sommaria si sono aggiunti 6 anni di carcere preventivo scontati in anticipo rispetto ad una sentenza definitiva che tarda ad arrivare e che potrebbe anche essere di assoluzione;
_ perché si è consentito che la stampa, senza certezza di nulla e senza curarsi delle dovute verifiche, scegliendo di considerarmi mafioso, cosa legittima, offrisse ai lettori, cosa meno legittima, questa sua presunzione di colpevolezza come verità, avvelenando gli animi, dicendo alla gente ciò che la gente voleva sentirsi dire e creando un’icona mafiosa alla quale ha dato il mio nome. Forse perché, per dirla con Ostellino, “più sangue scorre, più copie si vendono? ;
_ perché dopo 50 anni di lavoro lecito su cui neanche il Pubblico Ministero più agguerrito ha potuto gettare l’ombra di un sospetto, mi ritrovo a tirare la cinghia con una pensione di 480 euro, dopo che 12 anni di spese legali mi hanno ridotto sul lastrico;
_ perché non posso più permettermi il lusso del pudore e presto sarò costretto ad arruolarmi nell’esercito dei rovistatori nei bidoni dell’immondizia alla ricerca di qualcosa da recuperare;
_ perché da detenuto ho dovuto condividere con altri 2 infelici una cella di 10 mq. e assistere alla morte di alcuni compagni suicidi o alla deportazione di altri verso l’inferno del 41 bis a proposito del quale il presidente della Corte Europea dei diritti dell’uomo Jean Paul Casta ha detto: “La detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, causa pesanti rischi per la salute psichica del carcerato”.
Posso ringraziare quest’Italia? Non credo.
Posso solo ringraziare la Provvvidenza la quale, tra i doni che mi ha regalato, mi ha regalato quello più prezioso, date le circostanze, la forza d’animo grazie alla quale ho respinto tentazioni insane. Ma l’Italia no, quest’Italia non riesco a ringraziarla e, se debbo scegliere da quale bicchiere bere, scelgo quello mezzo vuoto.