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mercoledì 26 marzo 2014

Papa Francesco

Il Papa ha implorato i mafiosi di pentirsi, glielo ha chiesto addirittura in ginocchio. L’appello ha in sé la speranza che il cuore di questi uomini sia punto dal rimorso, come se fosse lecito nutrire speranza nei confronti di chi è capace di uccidere bambini. Per dirla con Sciascia, non si può essere cristiani fino al punto da considerare uomini gente simile. Persino con un mondo senza speranza come quello mafioso, da sempre fermo ai tempi dell’uomo in natura,  che ha abdicato fin dalle origini ai valori del convivere civile, riesce difficile coniugare tanta efferatezza. Una certa mitologia ci aveva proposto una mafia ammantata di paternalismo bonario che risolveva i problemi là dove l’assenza dello Stato determinava ingiustizia ed assolveva ad un compito di cui la gente avvertiva il bisogno. Mi è capitato di sentire parlare con nostalgia della mafia di un tempo, quella che riparava i torti, e pazienza se il costo era qualche ammazzatina. E’ chiaramente una mitizzazione che non può essere condivisa ma che serve a spiegare alcune letture fatte senza andare tanto per il sottile. Certo gli antichi custodi dei disvalori mafiosi non potevano immaginare che si sarebbe arrivati a tanto, essi disconoscevano il valore della legge, confidavano su discutibili vincoli morali, e quando questi vincoli si rivelarono in tutta la loro fragilità e non resistettero alla piena di più concreti interessi, in assenza della legge non disposero degli strumenti per arginare questa deriva. Niente vincoli morali, niente leggi, neanche quelle del taglione. Come si può pretendere di predicare a gente che non ha più una sua identità, sia pure quella infame delle origini che almeno aveva un suo valore deterrente?
Detto questo, dobbiamo però anche dire che non è solo il mondo mafioso che ha perduto la bussola. Dobbiamo prendere atto che viviamo in un mondo di violenza in cui sono saltati tutti gli schemi.
Basta gettare lo sguardo sul panorama che ci circonda per mettersi le mani ai capelli: una democrazia incompiuta che produce ingiustizia sociale, l’assalto alla diligenza delle lobbies che si spartiscono le spoglie della nostra bella Italia lasciando a bocca asciutta una larga fetta di società che non ha fatto in tempo a entrare in qualche camarilla, il fisco predatorio, la burocrazia che gestisce il potere di condizionare all’ombra dei palazzi che contano, la giustizia amministrata in un fortilizio inaccessibile dove viene esercitato un potere terribile che, in nome di un malinteso diritto di indipendenza, talvolta si traduce in un arbitrio decisionale irresponsabile di cui nessuno mai paga pegno, la sofferenza degli ultimi disseminati per i marciapiedi delle nostre città e nelle celle delle nostre carceri tra l’indifferenza di chi finge di guardare altrove, il dolore e la frustrazione di chi non trova un lavoro. Non è tutto questo una violenza pari a quella mafiosa?
Se si, ci aspettiamo che il Papa non si fermi entro i confini della violenza mafiosa la quale, proprio perché così brutale e stupida e arrogantemente appariscente, si offre come facile bersaglio aggiudicandosi l’esclusiva dell’indignazione. E’ così che la mafia diventa il male assoluto, l’unica realtà fenomenica percepita mentre rimane inabissata una realtà che non viene percepita con lo stesso impatto traumatico ma che è altrettanto devastante, la realtà intima delle cose che sta sotto le apparenze, il cuore nascosto di intrecci sciagurati in cui si consumano ingiustizie, la sopraffazione dell’interesse dei più forti, senza che l’opinione pubblica se ne indigni più di tanto impegnata com’è a consumare le sue scorte di rabbia unicamente contro la mafia.
E allora il Papa superi il confine tra le due realtà e gridi con voce forte la sua indignazione contro i farisei, i sepolcri imbiancati che si ammantano di perbenismo mentre banchettano con la nostra sofferenza, i portatori di morte che con la loro paludata avidità uccidono né più e né meno dei mafiosi, si cali nelle contraddizioni crudeli della nostra società, denunci l’ipocrisia di una lotta solo contro la mafia da parte di chi vuol dirottare l’attenzione da una realtà ancora più crudele della mafia, ancora più insidiosa perché nascosta, si batta contro la sofferenza di quelli che hanno sbagliato e sono le prime vittime dello stesso male di cui sono autori, stupidi al punto da infliggere sofferenza a se stessi e continuare a ripetere la loro stupidità, costretti a marcire in condizioni che non hanno niente di umano.

I carnefici sono tra noi e l’unica speranza che ci resta è un uomo di Stato straniero di bianco vestito che sappia cacciare i mercanti dal tempio.

martedì 25 marzo 2014

Barroso e affini

I sorrisini che Van Rompuy e Barroso si sono scambiati all’indirizzo di Renzi ripetono un copione già visto quando presidente del consiglio era Berlusconi. Ma Berlusconi aveva perduto di credibilità  e sorridere di lui obbediva ad una tentazione alla quale era difficile resistere anche se la signora Merkel e Sarkozy avrebbero dovuto frenare il loro impulso ben sapendo che irridere a Berlusconi voleva dire irridere all’Italia intera, un Paese che, per quanto abbia potuto fare delle scelte infelici, è pur sempre uno dei fondatori dell’Europa unita e merita di essere trattato con maggiore rispetto. Non siamo mica la repubblica delle banane e la Germania e la Francia non hanno meno torti da farsi perdonare. Certamente nessuno in Italia, forse solo Ferrara, sta ridendo del popolo francese per il copione berlusconiano che in questi giorni sta interpretando Sarkozy vittima di una perfida legge del contrappasso.
I sorrisi ironici e di sufficienza di Van Rompuy e di Barroso sono ancora più inopportuni. Essi si intonano con la fisiognomica da faina del primo e con l’aspetto pacioso di burocrate ottuso del secondo, non certo con lo sforzo e i sacrifici che stanno facendo gli italiani per riparare agli errori fatti e con l’impegno del giovane Renzi di corrispondere a questi sforzi con un programma che parla di scardinare assetti consolidati che da sempre hanno penalizzato l’Italia. Egli sta avendo il merito di progettare l’abbattimento di steccati ideologici e mettere d’accordo in maniera trasversale l’Italia dei meno protetti, facendoci sognare che si può fare e che anche i soliti intoccabili sono chiamati a pagare dazio, che non ci sono tabù insormontabili. Il progetto può andare in porto o no, può convincere o no, ma ha diritto al rispetto, non a sorrisetti. A maggior ragione ha diritto di essere rispettato il nostro popolo che sta lottando come mai nella sua storia recente e che merita solidarietà anziché scherno. I signori Van Rompuy e Barroso, custodi dell’ortodossia europea, dovrebbero sapere per primi che maneggiano una materia su cui non c’è certezza, ancorata com’è a variabili che sfuggono a calcoli sicuri, e non dimenticare che sono solo dei burocrati cui non è lecito irridere alla politica della quale sono una emanazione e per la quale devono nutrire una rispettosa considerazione. La politica a sua volta non dimentichi quale è la sua vocazione, si riappropri del suo ruolo e prenda atto che qualsiasi decisione può essere rivista e che il rapporto del 3% tra PIL e deficit rischia di essere un feticcio fine a se stesso se non ha a cuore il benessere dei suoi cittadini.
Le sofferenze dell’Italia di cui portiamo indubbiamente la responsabilità, hanno coinciso con le speculari fortune di altri Paesi e non è dunque il caso di imperversare, è invece l’ora di ristabilire un poco di equità venendo in soccorso di un Paese straordinario che da lustro all’intera Europa.

Senza la supponenza del gatto e la volpe che, oltretutto, sono prossimi a fare le valigie.

venerdì 7 marzo 2014

Le verità dei Pubblici Ministeri

Ricordo una lontana intervista dell’on. Fassino, all’epoca Ministro di grazia e giustizia, a proposito dell’opportunità o meno di separare le carriere del magistrati. L’on. Fassino si rifaceva all’assunto del codice di procedura penale secondo cui il compito del magistrato, anche del magistrato inquirente, è quello di accertare la verità, sempre. Egli sosteneva che, proprio in virtù dell’accorpamento delle carriere, l’imputato è maggiormente garantito perché il PM, appunto perché obbligato ad accertare la verità, è costretto a certificare la sua innocenza, quando la verità dice che egli è innocente. Fassino ha ragione in via puramente teorica e di principio se non fosse che la coscienza del magistrato che sostiene l’accusa si scontra spesso con le incrostazioni dell’uomo che obbedisce ai propri impulsi, a convinzioni non provate e a teoremi ai quali non riesce a rinunciare. In un sistema che prevede il libero convincimento del magistrato, il convincimento rischia di tradursi in arbitrio in omaggio alla pretesa infallibilità di chi si sente vocato ad una missione palingenetica.
In più queste tentazioni non proprio garantiste sono spesso assecondate da investigatori che, pur di costruire un impianto accusatorio, non esitano a formulare ipotesi basate più sul pregiudizio che su l’elemento fondante di ogni impianto accusatorio, l’habeas corpus, e li trasformano in prove o indizi gravi, con l’unico risultato di gettare al macero la reputazione dell’indagato dato in pasto alla canea mediatica.
So di che cosa parlo perché lo sperimento continuamente sulla mia pelle tutte le volte che la Procura ci riprova e leggo con stupore e rabbia farneticazioni che mi prendono di mira e che fanno a pugni con la logica pur di giungere ad una improbabile quadratura del cerchio.

Mi viene in mente ciò che Dostoevskij fa dire a Trofimovi  ne “I demoni” a proposito della stupidità: “Che cosa vi può essere di più stupido di un imbecille buono? Un imbecille cattivo, un imbecille cattivo è ancora più stupido”. Penso con terrore al destino di quanti, per loro mala sorte, devono fare i conti con la stupidità dei cattivi!