Melisso già nel V° secolo a.C. contestava il suo maestro Parmenide che parlava dell’essere sferiforme e finito e perciò perfetto, sostenendo che l’essere limitato proprio perché limitato confina col vuoto e cioè col non-essere che è impensabile. E’ sempre esistito un problema che angoscia l’uomo costretto a vivere a contatto con il mistero dell’infinito che percepiamo così vicino eppure così lontano, di un ignoto che sentiamo prossimo e di cui non conosciamo nulla, discutiamo di cosa ci attende o non ci attende dopo la morte, se c’è il nulla o l’al di là pieno della vera vita e dibattiamo anche se è giusto vivere o morire quando le condizioni di vita sono ai limiti dell’umano. E’questa una delle occasioni in cui ci interroghiamo sulla morte e tuttavia anche in questa circostanza è raro che ne cogliamo il mistero e ragioniamo su quale è l’atteggiamento più consono quando pensiamo ad essa , se di distacco, se di timore, se di indifferenza perché tendiamo a non percepirla come un evento che ci riguarda. C’è chi, ricorrendo alla esemplificazione di una filosofia consolatoria, suole dire che la morte non gli fa paura perché tanto finché c’è lui non c’è lei e quando c’è lei lui ormai non c’è più. Ma, a parte l’eristica paradossale di questa costruzione, la morte sta subendo uno attacco molto più serio portato proprio al suo mistero, alla sua sacralità che la pone al confine della domanda senza risposta che è quella su cosa ci attende dopo la fine dei nostri giorni terreni. L’immoralità della nostra inconsistenza raggiunta dopo i velocissimi anni di un nichilismo d’accatto che ha sfatato tanti miti e, direi, tanti valori, è riuscita ad assestare il colpo più duro che si potesse immaginare alla morte che ama prendersi tanto sul serio, snobbandola con una indifferenza che non nasce dalla forza del nostro animo, ma da quella del nostro limite.
Semplicemente non avvertiamo più il fascino del suo mistero perché abbiamo praticato l’iconoclastia dei valori che hanno accompagnato l’uomo per secoli lasciandoci fagocitare a poco a poco e sempre più inesorabilmente dall’ovvio inalato nelle nostre menti fino all’oblio delle nostre coscienze. Ecco non abbiamo più coscienza di noi e non riusciamo a percepire ormai che cosa ci riguardi veramente se non l’ovvio da cui siamo stati plasmati, viviamo in quel nulla tanto paventato da Melisso, figurarsi se possiamo appassionarci a questa misteriosa incombenza che è la morte e ad avere rispetto per questa ormai dimessa signora. La infliggiamo agli altri e a noi stessi senza l’esitazione e il rispetto che essa esige, la pratichiamo con la stessa levità con cui siamo stati educati a consumare le nostre vite senza contenuti. Forse qualcuno dirà che così abbiamo sconfitto la morte, noi siamo più propensi a ritenere che in realtà abbiamo sconfitto noi stessi.
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