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giovedì 28 maggio 2015

La mafia dell’antimafia

Rispondo a un mio lettore il quale mi chiede che cosa intendo per mafia dell’antimafia e che cosa per mafia volgarmente intesa. Non ho la pretesa di dare la risposta giusta ad un quesito così impegnativo ma ci provo. Quella che viene definita con una formulazione suggestiva “mafia dell’antimafia” è, a mio avviso, un bubbone scoppiato sulla pelle infracidita della mafia tradizionale. Una rivolta ideale nata dalla presa di coscienza di una opinione pubblica spaventata e indignata, ha arruolato lungo il suo cammino maneggioni e faccendieri che hanno fiutato l’affare e si sono dati appuntamento attorno alle spoglie di una mafia ormai al tracollo, sconfitta, oltre che dallo Stato, dalla sua stessa crudeltà spinta fino alla stupidità. Appollaiati sul trespolo di una pretesa superiorità morale, gli sciacalli si sono impegnati in una gara a chi rivendicava più quarti di antimafiosità, alcuni per pruriti meramente moralistici, altri per interessi di bottega, altri ancora per carrierismo, tutti inseguendo una patente di verginità che può sempre servire. E’ così che si spiega il proliferare degli impostori che si sono appaltati l’esclusiva della memoria degli autentici eroi antimafia, delle associazioni che molto più prosaicamente si sono impossessate dei beni sequestrati vantando, in alcuni casi, improbabili meriti antimafiosi, di sequestri molto spesso operati a cuor leggero e gestiti a cuore ancora più leggero sperperando il valore dei bei sequestrati e promuovendo un giro d’affari miliardario a favore dei pochi appartenenti al cerchio magico che fanno affari d’oro incamerando per un piatto di lenticchie i beni messi all’asta grazie all'opera meritoria di taluni amministratori giudiziari che hanno il loro tratto identitario nell'abbondanza degli incarichi e nella vocazione a far fallire aziende sane intascando laute parcelle. Il risvolto drammatico di questo gioco al massacro è il disastro sociale che condanna i dipendenti alla disoccupazione e, nel caso di aziende sequestrate a personaggi usciti indenni dalle accuse di mafiosità, l’aberrante ingiustizia della “pena sine culpa” che distrugge vite e patrimoni onesti. Quello che impressiona è l’impudenza degli organi costituzionali che hanno rigettato per “manifesta infondatezza” i rilievi di incostituzionalità promossi da alcuni avvocati contro lo sfregio portato al diritto da leggi dello Stato che non si curano di un principio fondamentale quale la presunzione di innocenza e sanciscono l’illiceità dei beni sequestrati fino a prova contraria a carico dell’imputato (l’imputato deve cioè dimostrare che i beni oggetto di sequestro sono di origine lecita), spianando una prateria all’arbitrio. A questo si aggiunga l’ambizione di certi magistrati che, pur di fare carriera, gonfiano inchieste che andrebbero archiviate od orientano i processi in direzione delle loro teorie producendo mostruosità come il caso Tortora ed altre che non vengono alla ribalta perché le vittime non hanno la notorietà di Tortora. Tutto è avvenuto con la complicità di una parte del nostro giornalismo che, fatta salva qualche coraggiosa eccezione, si è genuflesso ai piedi delle verità di comodo rinunciando al suo compito di denuncia e preferendo rappresentare una realtà suggestiva ancorché palesemente manipolata, utile a far cassa. Ecco che cosa intendo per mafia dell’antimafia. Grazie a questa deriva mercantilistica nella quale è scaduta l’ideale battaglia delle origini, una buona fetta dell’economia, specie quella siciliana, è andata in malora e il diritto è andato a farsi benedire. Naturalmente esiste anche un’antimafia onesta seppure ormai in minoranza, mentre è una contraddizione in termini parlare di onestà a proposito della mafia tradizionalmente intesa. Chi mitizza la mafia considerandola una sorta di ammortizzatore che svolge una meritoria funzione sociale, delira. Certo in tempi in cui lo Stato era completamente assente e la giustizia era, per dirla con Trasimaco, l’interesse dei più forti, il mito del mammasantissima giusto che riparava i torti e difendeva i deboli, ha potuto prendere piede. E anche oggi, con le istituzioni che producono l’antimafia che ho descritto, certe insane tentazioni sono forti. Ma deve essere ben chiaro che il mammasantissima giusto è una figura immaginifica che non ha riscontro nella realtà, che è allo Stato e non al mammasantissima che il cittadino ha delegato il compito di proteggerlo, che le battaglie per correggere le deviazioni dello Stato vanno combattute entro argini che non si possono valicare.
Purtroppo non è il caso di illudersi che le cose cambino, perché mafia e antimafia deviata sono il prodotto di un popolo irredimibile che anche nelle sue componenti più sane coltiva il disprezzo per l’altro e ignora le virtù civiche . Arrotiamo i nostri simili sulle strisce pedonali e ci incazziamo se quei disgraziati osano protestare, passiamo col rosso, trasformiamo gli angoli delle città in immondezzai, parcheggiamo in doppia fila e irridiamo il povero cristo intrappolato dentro la sua macchina, siamo campioni mondiali di evasione fiscale (anche se in alcuni casi è difficile non evadere), denunciamo i privilegi altrui nel momento stesso in cui perpetriamo i nostri, e mi fermo qui lasciando all’immaginazione di ciascuno l’elenco delle nostre nefandezze. Non voglio essere pessimista, ma l’unica è fuggire lontano.

venerdì 15 maggio 2015

La cenerentola del diritto nel conflitto tra poteri

I diritti, non solo quelli approssimativamente codificati, ma anche quelli solennemente consacrati nella Carta Costituzionale, che si presume non possano essere disattesi, sono diventati in Italia ostaggio di un conflitto tra poteri che decidono obbedendo a categorie che non hanno nulla da spartire con quella che Kelsen ha definito “dottrina pura del diritto”. Il governo Monti, in debito d’ossigeno e con problemi di cassa, ha deciso che si potesse bloccare la rivalutazione monetaria delle pensioni in deroga al principio della intangibilità dei diritti acquisiti previsto dalla Costituzione. La Corte Costituzionale ha risposto bocciando il provvedimento Monti, immemore di pronunce precedenti di segno contrario sullo stesso argomento e infischiandosi delle conseguenze devastanti per il bilancio dello Stato costretto a far fronte ad un debito di 14 miliardi di euro. Il governo Renzi ha a sua volta dichiarato che rispetterà la sentenza nei modi che riterrà opportuno. Un bel teatrino, non c’è che dire. Bisogna dare atto a Renzi che egli in questa vicenda è costretto a misurarsi con una tegola di cui non ha colpa, con il fiato sul collo dell’Europa che teme uno sforamento dei parametri. Anche lui certo avrebbe potuto evitare i soliti toni spavaldi e non sparare a zero contro la Consulta rea, a suo dire, di invadere il campo della politica. La Consulta sostiene di limitarsi a svolgere il ruolo che le compete, e cioè a vigilare che le decisioni prese dalla politica siano compatibili con la Costituzione e non con equilibri economico sociali. In verità, come osserva qualche costituzionalista, la Corte Costituzionale, così come ha fatto in passato, anche per le pensioni avrebbe potuto procedere in modo da non trascurare le conseguenze finanziarie della sua decisione, pur tenendo il punto sulla perentorietà dei diritti dei cittadini. Avrebbe potuto per esempio sancire l’inviolabilità della rivalutazione delle pensioni, “ma”, cito Sabino Cassese, “lasciando a governo e a Parlamento il compito di scegliere come provvedere” o avrebbe potuto (sempre Cassese) “ripetere il monito (la messa in mora che la Corte fa quando non vuole produrre gli effetti immediati e traumatici che derivano da un annullamento), già fatto in precedenza in fatto di pensioni ”. Invece è andata giù a testa bassa. Sorge il dubbio che si sia verificato uno scontro tra poteri che tendono l’orecchio ad interessi che nulla hanno a che vedere col diritto e che sulle pensioni si sia giocata una partita dal sapore squisitamente politico. Solo così si spiega come ci sia stata una contrapposizione inconciliabile di sei contro sei giudici su una fattispecie giuridica che non avrebbe dovuto prestarsi a divaricazioni così nette. Il crocevia di dialettiche contrapposte ci propone sempre più spesso il dilemma di chi e che cosa privilegiare. Così come oggi si contrappongono la rivalutazione delle pensioni con i vincoli di bilancio, domani si potrebbero fronteggiare esigenze di legittimità con problematiche economiche e sociali di vasta portata (per esempio l’esigenza di perseguire le aziende che fanno disastri ambientali con la tutela del posto di lavoro che quelle aziende assicurano, l’esigenza di garantire la sicurezza con quella di porre mano al problema delle condizioni inumane di vita in carcere, l’esigenza di sequestrare i beni in odore di mafia con quella di non farle fallire, e quant’altro ancora) e purtroppo la Corte Costituzionale non sembra capace di sciogliere il nodo gordiano di queste contrapposizioni coniugando rigore ed equità, né di vigilare affinché i diritti fondamentali dei cittadini vengano rispettati. La conseguenza è che proprio su questo fronte essa subisce l’iniziativa dell’Europa che la surroga in maniera imbarazzante dettando all’Italia l’agenda dei compiti a casa. Le condanne ormai non si contano più, solo che anche l’Europa deve fare i conti con la capacità tutta italiana di bypassare il possibile e l’impossibile. La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia per le inumane condizioni di vita in carcere dei nostri detenuti? L’Italia ha risposto con una legge che prevede rimedi compensativi (8 euro al giorno per chi ha già scontato la pena detentiva, lo scomputo di un giorno ogni dieci giorni per chi deve ancora scontare la pena). Peccato che la normativa per l’ottenimento di questi compensi vanifichi il risultato, visto che l’85% delle domande finora avanzate è stata dichiarata inammissibile e il risarcimento concesso si limita all’1,2% delle richieste. Sempre la Corte di Strasburgo ci ha condannato per la macelleria messicana del G8 di Genova? L’Italia ha risposto approvando in Commissione la proposta di legge che prevede il reato di tortura nel nostro codice penale. Peccato che la proposta giaccia nel dimenticatoio in un ramo del Parlamento. C’è da scommettere che anche per quanto riguarda le pensioni decurtate da Monti, Renzi troverà il modo di bypassare la sentenza della Corte Costituzionale. E’ così che funzionano le cose nostre in un Paese dove le esigenze della giustizia subiscono i ricatti delle esigenze economiche e sociali tanto quanto le esigenze economiche e sociali sono vittime delle schizofrenie della legge, con sullo sfondo i potentati di appartenenza. Tutto mentre coloro che non hanno santi protettori recitano la parte dei vasi di coccio.  

sabato 9 maggio 2015

Le inutili cautele

Lo ammetto, nonostante le cautele adottate, sono stato ugualmente smascherato. Malgrado abbia finto di essere povero, secondo un costume caro ai mammasantissimi che accumulano ricchezze ma non possono godersele, è venuto alla luce che sono tra i titolari di un patrimonio di ottocento milioni di euro. Questo almeno è quello che si deduce leggendo le dichiarazioni degli investigatori e i servizi giornalistici che riportano la notizia di un sequestro di beni ai danni del dottor Giuseppe Acanto. Su Repubblica si può leggere infatti che il patrimonio in questione appartiene in effetti a quei mafiosi di Villabate che hanno accompagnato a Marsiglia Bernardo Provenzano. Poiché uno di questi mafiosi è mio figlio Nicola, è a lui che, secondo gli inquirenti e la stampa, appartiene il patrimonio intestato ad Acanto. E poiché come padre io non potevo non sapere, due più due fanno quattro, quel patrimonio appartiene anche a me. Il Giornale di Sicilia di ieri poi lo dice chiaramente: dietro questo ben di Dio ci sono i Mandalà. In assenza di prove e, in verità, in assenza del senso della decenza, è stato stabilito dunque che i beni sequestrati ad Acanto appartengono in realtà a me e a mio figlio. Il dottore Acanto, secondo quanto riferiscono i giornali, è stato indagato per concorso esterno in associazione mafiosa ma non è stato mai processato e tantomeno condannato perché, non risultando prove a suo carico, l’indagine è stata archiviata. Egli dunque non è mafioso ma questo non è stato sufficiente ad evitargli un provvedimento che ha scompaginato la sua vita e metterà a repentaglio il lavoro dei tanti suoi collaboratori. Non ci sono prove che il patrimonio sequestratogli appartenga alla mafia, ma c’è il sospetto e questo basta. Purtroppo per lui, il dottore Acanto ha avuto il torto di avermi assistito professionalmente e questo, come si vede, gli sta creando qualche problema. Pare infatti che a mettere in allarme gli investigatori sia stata la scoperta presso lo studio dello stesso dei libri contabili di un’attività riconducibile al sottoscritto. Un quotidiano on line riporta la notizia parlando di “scritture contabili di una sfilza di imprese riconducibili a mafiosi del calibro di Nino Mandalà………” e lasciando intravedere scenari inquietanti. Con buona pace del mio calibro, i soli libri contabili che mi riguardano e che possono essere stati riscontrati presso lo studio Acanto, sono quelli che si riferiscono ad una mia attività lecitissima che svolgevo alla luce del sole quando lavoravo (stiamo parlando di sedici anni fa) e non ero stato ancora investito da alcuna vicenda giudiziaria. Degli innocenti libri contabili intestati all’attività di un uomo che solo parecchi anni dopo sarebbe stato condannato per mafia, sono bastati a innescare il sospetto e il sospetto è bastato a determinare il provvedimento di sequestro. Così funzionano le cose in quel deserto del diritto che è il mondo della prevenzione. Tutto sommato però niente di grave, in definitiva stiamo parlando di soldi, cosa volete che sia, il dottore Acanto se ne farà una ragione. Ben altre conseguenze sono quelle che possono derivare al sottoscritto. Ho dovuto arrangiarmi per coniugare il pranzo con la cena, mi sono privato dell’indispensabile per sopravvivere, non faccio un viaggio da tempo immemorabile, non compro un nuovo capo dall’alba dei tempi, devo fare i salti mortali per pagare l’affitto, ma a quanto pare, non è servito a nulla, la messinscena è fallita miseramente. Chi convincerà i miei complici con i quali ho sempre pianto miseria raccontando di essere povero in canna, che non li ho ingannati, dopo che le straordinarie rivelazioni della DIA hanno svelato le mie ricchezze? Questi signori, come è noto, non hanno il senso dell’umorismo e hanno il brutto vizio di prendere tutto maledettamente sul serio. Questo sul fronte della criminalità. Sul fronte della Giustizia è in itinere la decisione del Tribunale per le misure di prevenzione di un provvedimento nei miei confronti. Quale pensate che sarà l’esito alla luce del regalo fattomi dalla DIA? Le aberrazioni narrate da Kafka ne “Il processo” impallidiscono in confronto a quelle della realtà giudiziaria italiana.