Visualizzazioni totali

lunedì 23 febbraio 2015

Uniti da un comune destino


Quella degli agenti penitenziari è una delle occupazioni meno ambite. In carcere si è soliti dire che fare il secondino è l’ultima spiaggia per chi non riesce a trovare uno sbocco lavorativo più soddisfacente, e questo la dice tutta sulla considerazione che i detenuti hanno degli agenti e sul clima che si respira tra le due parti. Il bello (o il brutto ) è che anche gli agenti avvertono la singolarità del loro lavoro e ne portano le stimmate nella loro psiche. Passare buona parte della loro vita da detenuti né più né meno dei reclusi che hanno in custodia, avere il compito di serrare dietro le sbarre la libertà di altri uomini, assorbire la tensione che ne consegue, portarsi a casa i veleni del carcere mischiandoli ad un menage familiare che finisce per risentirne, riportare le frustrazioni che ne derivano in carcere ( con la conseguenza che, oltre che tra i detenuti, anche tra gli agenti ricorrono frequenti casi di suicidio ), produce delle ferite che non si cancellano e spiega il motivo per il quale gli agenti considerano i detenuti ( guarda caso quegli stessi grazie ai quali hanno colto la loro unica opportunità di lavoro ) responsabili del loro disagio e infieriscono su di loro non appena se ne presenta l’occasione.  Occasione che si è presentata proprio in questi giorni quando si è avuta notizia del suicidio nel carcere di Opera del detenuto Ioan Gabriel Barbuta e alcuni agenti penitenziari hanno vomitato in rete frasi terribili che danno la misura di ciò che intendeva Hobbes a proposito della natura umana. E tuttavia la natura è spesso figlia delle circostanze, e i colpevoli non sempre sono così colpevoli come sembra. C’è una realtà che pochi conoscono, la realtà della carcerazione in Italia, una condizione ai limiti del tollerabile che non è inflitta ai soli detenuti ma coinvolge anche gli agenti costretti a lavorare in un ambiente insicuro e carico di sospetti, in cui l’imponderabile è sempre dietro l’angolo e dove è costantemente in corso una guerra tra poveri. La disattesa vocazione del carcere quale luogo di rieducazione, la sua incapacità di creare un clima di complicità positiva tra detenuti e agenti che realizzi l’obiettivo di edificare creature nuove, sono all’origine delle scioccanti reazioni in rete, ed è per questo che, sebbene non si possa non condividere la decisione di punire gli autori delle frasi incriminate, non si può altresì non riconoscere che essi sono colpevoli irresponsabili di un odio inoculato dall’unico vero responsabile: lo Stato!  

martedì 17 febbraio 2015

L’incompiuta


Il più grande mercato del mondo è al contempo un nano politico.  E’ l’incompiuta europea incapace di coniugare la propria vocazione mercantile dedita al miope interesse particolare con una visione più alta che persegua l’ideale di un progetto destinato a fare di una congrega di Stati imbelli e litigiosi, una patria comune.  Ai soci più ricchi di questo mercato delle vacche che si lamentano di dover pagare il conto dei costi causati dai Paesi più poveri, bisognerebbe ricordare che la storia delle nazioni in tutte le parti del mondo è la storia di ricchezze economiche che vengono soccorse da povertà ricche di ingegno. Ciascuna comunità ha il suo Mezzogiorno che porta in dote, assieme alle problematiche sociali ed economiche, doni che rafforzano il DNA di una identità altrimenti più povera e incompleta. Che ne sarebbe della Germania senza L’Italia, la terra dei limoni amata da Goethe e del Rinascimento? E dell’Italia senza la Germania che con il suo Ottocento ha influenzato la cultura del mondo e che proprio con l’Italia ha vissuto secoli di osmosi che risalgono ai tempi di Federico II o senza la Francia, la terra del lumi? Dove sarebbe la civiltà che pone l’uomo al centro dell’universo che ci ha permeato se non ci fossero state le nazioni europee che l’hanno condivisa? E non è l’ adesione ai medesimi valori un motivo sufficiente per decretarci appartenenti ad una patria comune?                                                                                                                                                                 Sennonché prevalgono gli interessi di bottega che ci fanno avanzare in ordine sparso contro i pericoli che ci insidiano in eguale misura. E allora è possibile assistere allo spettacolo penoso della conferenza di MInsk in cui l’Europa ha dimostrato di non esistere come entità politica escludendo dai colloqui l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e ha mostrato tutta la sua debolezza dichiarando, ancor prima che iniziassero i colloqui e per la bocca di una Merkel preda di un complesso di inferiorità nei confronti della Russia, che un accordo pur che sia con Putin si imponeva. Putin ne ha tenuto ben conto e i risultati si sono visti.  Anche qui ha prevalso la logica dei numeri delle due nazioni più ricche piuttosto che una condivisa e fiera presa di coscienza comune.                                                                                                                                                              Un’altra cartina di tornasole della debolezza europea è quella fornitaci dagli avvenimenti libici. Una Francia in vena di protagonismo ha voluto dare una riverniciata alla sua pretesa grandeur, capeggiando l’attacco a Gheddafi. Con l’alibi della bandiera dei diritti umani brandita da un Bernard- Henri Lévy bardo dell’etica delle intenzioni che si fotte dell’etica della responsabilità, il signor Sarkozy in effetti mirava al petrolio libico. Siamo sempre lì, la logica dei bottegai ha avuto la prevalenza e i risultati si stanno vedendo. Non dico che Gheddafi fosse un campione di democrazia e che non gli si dovessero prendere in qualche modo le misure, ma statisti che hanno la presunzione di sentirsi tali devono sapere quali possono essere le conseguenze delle loro azioni ed essere pronti a fronteggiarle. Con la scomparsa di Gheddafi si è scoperchiato il vaso di Pandora. Abbiamo l’ISIS alle calcagna, la Francia così bellicosa all’epoca di Gheddafi adesso è in preda al panico, della Germania non si hanno notizie, e l’Italia che avrebbe dovuto nella circostanza rivendicare un suo ruolo primario in considerazione dei suoi rapporti privilegiati con la Libia, non ha saputo fare altro che passare dal baciamano al bombardamento del tiranno, ed oggi si trova a dover pagare il conto più salato mentre i partner europei giocano a rimpiattino.                                                                                                                                                                          Un altro caso paradigmatico è quello della Grecia, una nazione che è sull’orlo della bancarotta ma è parte dell’Unione Europea che dovrebbe essere sentita come pezzo irrinunciabile della nostra storia e invece gravita nell’orbita della Russia navigando in tutt’altra direzione rispetto ai progetti europei. Abbiamo un cavallo di Troia dentro la cittadella europea e nessuno se ne preoccupa, la sola preoccupazione che ha animato i ragionieri di Bruxelles  è quella di scudisciare le cicale ateniesi facendo di conti e dimenticando che a tanto si è arrivati anche grazie all’avidità dei Paesi cosiddetti virtuosi, e che una soluzione politica è nell’interesse di tutti certamente più di quella che offre la Grecia su un piatto d’argento alla sinistra europea orfana dell’URRSS che attraverso SYRIZA si prende le sue rivincite perpetuando quella sciagurata vocazione terzomondista che tanti guasti ha prodotto.                                                                                                                                            Una Europa che avesse un minimo di dignità e di schiena diritta, che sapesse affrontare le vicende nelle quali si imbatte  senza complessi di colpa e con la consapevolezza che affrontare con risolutezza i problemi non significa essere guerrafondai, che le guerre si combattono proprio per difendere i principi democratici,  dovrebbe finalmente individuare in maniera più determinata e costruttiva il comune denominatore che  lega i suoi popoli, dotarsi di una forte identità politica, marciare come una sola nazione e mostrare al mondo che è ferma nella difesa dei valori che l’accomunano, anziché dividersi sulle convenienze di bottega e marciare debole alla mercé di chi la vuole colonizzare.

sabato 14 febbraio 2015

Lo slalom nella miseria


La mattina prima di uscire, mi munisco di un po’ di spiccioli. So che incontrerò un manipolo di questuanti che ormai sono diventati i compagni abituali delle mie passeggiate e so anche che, nonostante mia moglie (molto più furba di me) mi metta in guardia contro una miseria che potrebbe essere un inganno, non riuscirò a passare oltre come se nulla fosse. Peraltro provo un senso di gratitudine per quei ragazzoni che allungano la mano chiedendo uno po’ di centesimi che li aiutino a sbarcare il lunario, perché anche essi come me sono soci del club degli emarginati e mi fanno sentire meno solo. Stamattina lo scenario consueto si è arricchito di una variante, due ragazze hanno inaugurato una nuova rappresentazione della sofferenza. Inginocchiate sul marciapiede, con un cartello appeso al collo, lo sguardo fisso e chino verso il basso, senza muovere un muscolo, sparano in faccia ai passanti l’appello ad aiutarle a curare un bambino ammalato o la madre in fase terminale. Non so se ha ragione mia moglie e se debbo diffidare, so che la mia fragile sensibilità è andata in crisi. Va bene la condivisione della sofferenza ma ci sono limiti oltre i quali l’uomo non può andare. Sia che recitino una finzione o vivano una realtà autentica, che mandino in scena una cinica mistificazione oppure una vera sofferenza, in entrambi i casi queste ragazze sconfinano in una oscena rappresentazione della miseria umana. Di questa miseria possono andar fieri gli artefici che l’hanno generata, governanti  inadeguati e in mala fede che ci raccontano come tutto avviene nell’interesse del Paese mentre i soliti noti guazzano nei privilegi grazie a meccanismi iniqui che premiano gli appartenenti alle caste. E proprio ai più alti livelli dove l’ingiustizia sociale viene perpetrata più sfacciatamente, assistiamo alla indegna pantomina della solennità morale ad opera dei sepolcri imbiancati che si strappano le vesti denunciando con calde lacrime la sofferenza dei diseredati e al contempo godono di prebende da capogiro, senza avvertire il disgusto di sé davanti allo spettacolo dei  giovani che mendicano in ginocchio e degli anziani che si arrangiano con cinquecento euro al mese. Al danno aggiungono la beffa dell’irrisione e dell’ipocrisia.

lunedì 2 febbraio 2015

Ma Renzi è un uomo d’onore


Bisogna dargliene atto, Renzi è un camaleonte capace di tutti i mutamenti necessari a raggiungere lo scopo. Affabulatore e non particolarmente propenso a vincoli di lealtà, piega la politica agli obiettivi  che si è posto senza tanti scrupoli e tentennamenti. Ha seminato il suo cammino di fior di vittime che si sono fatte irretire dal canto delle sue sirene, tranquillo Enrico, tranquillo Silvio, e si è visto come è andata a finire. E tranquilla anche la minoranza PD che, dopo essere stata bellamente ignorata sulla legge elettorale e adescata nella partita per  l’elezione del Capo dello Stato, tornerà puntualmente a non contare nulla.  Sulla marginalità del Nuovo Centro Destra accantonata come una ciabatta vecchia sulle decisioni più importanti, sorvoliamo per carità di patria (mi sfugge il motivo dell’esultanza con cui l’on. Alfano ha salutato l’elezione di Sergio Mattarella).  Ma, per dirla con uno che se ne intendeva, Renzi è un uomo d’onore e se ha sacrificato le sue vittime, avrà avuto i suoi buoni motivi, tanto cinismo deve necessariamente avere una sua ragione d’essere nella nobiltà degli obiettivi. E nobile è stato certamente il proposito di candidare Mattarella a sedere sullo scranno del Quirinale consumando l’ennesimo strappo alle spalle dei suoi alleati. Mattarella ha nutrito anche lui le sue brave passioni con uno spirito di parte che ha deragliato dalla sua proverbiale impassibilità, allorché si è dimesso da ministro in dissenso con la legge Mammì che aveva il torto di allargare la fascia d’informazione e intrattenimento televisivo o quando ha definito l’ingresso di Forza Italia nel PPE un “incubo irrazionale” o ha bollato con l’epiteto di fascista Buttiglione reo di aver  fatto delle scelte diverse dalle sue. Ha dunque nei suoi precordi una certa vocazione a derive manichee e non è il caso di santificarlo, tuttavia dà l’impressione di essere un uomo di cui ci si può fidare, schivo e lontano dalla politica gridata, quasi ascetico e di poche parole, lodevole per la sua mancanza di esibizione delle stimmate di parente di un martire della mafia, un uomo insomma in grado di offrire sufficienti garanzie di imparzialità e di tutela delle prerogative costituzionali. E  Renzi non si è fatta sfuggire la ghiotta occasione imponendolo e facendolo eleggere  Presidente della Repubblica, nell’interesse degli italiani certo ma anche nella convinzione che il nuovo inquilino del Quirinale, mite e poco incline a levate di scudi, non gli farà ombra. Attenzione però, nessuno ha mai visto sorridere Mattarella e chi lo conosce giura che dietro quell’aspetto grigio si nasconde una schiena dritta non disponibile a giochi che non rispettino le regole.  E’ proprio sicuro il nostro Bruto di avere fatto la scelta giusta puntando su Mattarella e di avere fatto un buon affare mortificando Berlusconi e complicandosi la vita sul percorso delle riforme, o non dovrà fare i conti con la legge del contrappasso che lo attende a Filippi?