L’ho incontrato mentre, con l’aria di un pugile suonato che ne ha prese tante, uscivo dall’aula dove il Procuratore Generale aveva appena concluso la sua requisitoria invocando una pena severa contro di me.
L’ho visto venirmi incontro interamente bianco, appesantito e imbolsito, gli occhi socchiusi in una fessura rassegnata che non aveva più vita e stentai a riconoscere Giovanni, il vecchio compagno arrestato con me nel 1998.
Lui invece mi riconobbe subito e mi abbracciò stringendomi convulsamente, tremando di pianto, scosso da singhiozzi che non riusciva a frenare, biascicando di se e del suo calvario d’imputato di mafia che si trascinava ormai da 12 anni, che l’aveva ridotto sul lastrico, gli aveva rubato un pezzo di vita e gli offriva la prospettiva, a 75 anni, di scontare altri 5 anni di carcere in caso di conferma della sentenza di primo grado.
Me lo ricordavo importante imprenditore dalle cui fortune derivavano possibilità di lavoro per quanti, ed erano tanti, ogni mattina si presentavano ai cancelli dei suoi cantieri. Me lo ricordavo imponente e sicuro di se, piacione e generoso, pieno di se e della consapevolezza della sua forza. Mi ha fatto impressione vederlo adesso svuotato di ogni energia, quasi una marionetta senza fili che invocava pietà, lui un tempo così orgoglioso. Piangeva soprattutto la morte della moglie rubatagli dallo stress che ha accompagnato la sua vicenda giudiziaria crudele in se ma ancora più crudele per lo stillicidio che giorno dopo giorno per dodici lunghi anni gli aveva rubato l’onore, ne aveva sfregiato l’immagine, lo aveva privato dell’affetto e della considerazione degli amici di un tempo che adesso lo guardavano con sospetto e ne prendevano le distanze. Non riusciva a darsi pace Giovanni per la perdita della compagna di una vita e mi chiedeva che diritto aveva la società di espropriarlo di quell’affetto oltre che dei suoi beni materiali, di amputarlo di una vita che si era radicata in lui, di svuotarlo dell’unico motivo che ancora gli rendeva accettabile l’esistenza. Mi chiedeva che cosa avrebbe fatto della sua vita. Me lo chiedeva con la speranza accesa negli occhi improvvisamente colorati d’attesa e mi sono sentito un inutile impotente stupido quando, allargando le braccia, non fui capace di rispondere alla sua richiesta d’aiuto e con gli occhi lucidi farfugliai l’invito a reagire, a riprendere in mano la propria vita a un uomo che della propria vita ormai non disponeva più. Ma faccio mia la domanda di Giovanni e chiedo a mia volta a chi voglia rispondermi, in base a quale principio giuridico è lecito allo Stato impadronirsi della vita di un suo cittadino e tenerla in ostaggio per anni in attesa di decidere se quel cittadino è colpevole o innocente e intanto sottoporlo ad anni di carcere che potrebbero non essere dovuti, infliggergli la pena della gogna, della emarginazione sociale, del sospetto che spesso nella pancia di una opinione pubblica, incapace di indignarsi ed anzi avida di giustizialismo, si traduce in certezza della colpevolezza perché, come ha detto qualcuno, il sospetto è l’anticamera della verità. Che diritto ha lo Stato di dividere i cittadini in buoni e cattivi, catalogare tra questi ultimi gli imputati in attesa di giudizio e negar loro l’elementare diritto alla presunzione d’innocenza facendone carne da macello in obbedienza ad orgasmi forcaioli che risiedono in prurigini etiche con cui si pretende di venare il compito della giustizia? Ma lo Stato ha forse il compito di amministrare la giustizia facendo del diritto uno strumento sociale, etico, in definitiva ideologico o applicando la legge al riparo da qualsiasi condizionamento? Ricordo che un compianto Giudice mi diceva che non gli bastava essere convinto della colpevolezza di un imputato se questa convinzione non era sufficientemente supportata da prove. Ai sacerdoti della morale che pretendono di salvare il mondo usando la legge, consiglio di ispirarsi a lui e di dedicare un poco del loro tempo alla lettura di Kelsen.
No, non ha nessun diritto.
RispondiEliminaAnche se non sono un cultore della giurisprudenza, ricordo che alle scuole medie, alle lezioni di educazione civica, ci insegnavano che lo Stato fosse ognuno di noi e che la libertà di ogni individuo finisse dove iniziasse quella di un'altro.
Beh, concetti talmente semplici ed elementari che, forse è proprio per il continuo calpestio di questi principi che oggi, a differenza di quando andavo alle scuole medie, non credo convintamente in questo Stato "democratico".
Non ricordo il nome di chi sosteneva che comunista è colui che vuole abbattere l'ordine delle cose esistenti. Io non sono più tanto convinto della bonarietà di quest’ideologia, ma dell'abbattere l'ordine delle cose esistenti oggi ne sento la necessità più che in passato.
Per questo esprimo a Lei ed al Suo amico Giovanni la mia incondizionata solidarietà.