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giovedì 8 maggio 2014

Fiducia nello Stato

Faccio appena in tempo a pubblicare il mio ultimo post prima di tornare in carcere.
La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello, ingiustizia
è fatta.
Torno in carcere da innocente perché, nonostante la sentenza di condanna definitiva, continuo a proclamarmi innocente, e perché vado a scontare una pena non dovuta. La cassazione infatti mi ha concesso una riduzione di pena che,sommata alla liberazione anticipata,fa andare in pari il mio conto con la giustizia. Il problema è che la liberazione anticipata è legata ad una indagine che si prenderà il suo tempo durante il quale dovrò restare in carcere indebitamente. Non mi abbandono all’ipocrisia di ostentare compostezza nei confronti di una sentenza che mi ha inflitto una condanna ingiusta e di uno Stato che, senza attendere di sapere se ero innocente o colpevole,
ha preso in ostaggio la mia vita per sedici anni.
Di uno Stato che non ha saputo apparire al di sopra di sospetti infamanti per drammatici avvenimenti ancora oggi ammantati di mistero, che per alcuni eventi ha dirottato le colpe su degli innocenti, che ai più alti livelli istituzionali è stato investito dal sospetto di collusione con la mafia, che ha ucciso Tortora premiando i suoi carnefici, di questo Stato di camarille e di boiardi che infliggono angherie e torti, di organismi di garanzia che non sempre appaiono al di sopra delle parti, di taluni magistrati che si ritengono privilegiati titolari di una impunità guadagnata grazie a coperture corporative, che hanno la spudoratezza di impossessarsi per sedici anni della vita di un uomo, che fanno dei teoremi verità processuali, che litigano pubblicamente lasciando trapelare inquietanti realtà sotterranee e gettando discredito su un corpo che, grazie a loro, appare come un qualsiasi contenitore di interessi inconfessabili, di uno Stato simile faccio a meno ritenendolo  immeritevole di svolgere le funzioni istituzionali di rappresentanza e di garanzia, di esercitare il diritto di giudicare ed emettere sentenze.
Si dice che le sentenze vanno rispettate e ci mancherebbe, ma doverle rispettare non ci impedisce di poterle criticare quando ne dissentiamo. Esse sono pur sempre il risultato di un convincimento, lasciamo stare se libero o arbitrario, che, in un sistema giudiziario dogmatico e autoreferenziale quale è il nostro, possono produrre pronunce ingiuste, come nel mio caso.
L’ingiustizia della sentenza che mi condanna risiede già nell’anomalia su cui si fonda l’impianto accusatorio con il quale è stato imbastito il mio processo. In esso infatti appare evidente che manca l’elemento essenziale di qualsiasi processo, il cosiddetto “habeas corpus”,  la contestazione di un reato specifico. E’ solo contestata la reputazione mafiosa e cioè la presunta appartenenza ad un contesto di valori ritenuti eticamente censurabili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti. Non altro.
Eppure il mio giudice non  ha esitato ad accogliere acriticamente l’impostazione accusatoria e, al contrario, ha guardato con sospetto alle tesi della difesa facendo mancare il requisito di terzietà e scrivendo una pagina nuova in fatto di principi giuridici.
Ha accettato come prova la convergenza del molteplice anche quando è apparso evidente che a convergere era solo l’inganno del dichiarante che ripeteva notizie apprese da altri o faceva dichiarazioni palesemente false e contraddittorie, ha accettato il principio del “non poteva non sapere” introducendo la nuova categoria giuridica della responsabilità oggettiva per determinare la responsabilità penale, ha ritenuto attendibili collaboratori di giustizia che mentivano e che erano  già stati smascherati in altri processi conclusisi a favore dell’imputato proprio in virtù dell’inattendibilità dei collaboratori. Ha di contro ritenuto inattendibili i testimoni della difesa sostenendo che essi hanno reso dichiarazioni compiacenti per favorirmi, senza tuttavia denunciarli per falsa testimonianza.
E’ stato celebrato un processo in cui le ragioni dell’accusa e della difesa non hanno avuto pari dignità, è stato consumato, a mio avviso, un processo ingiusto.
E tuttavia avrei accettato senza battere ciglio questa condanna, pur reputandola ingiusta, se l’avessi ritenuta frutto di un onesto errore. Di condanne ingiuste è piena la storia delle vicende giudiziarie e l’errore del magistrato è nella logica delle cose. Ma del magistrato non posso accettare la malafede, quel suo pregiudizio che gli fa piegare la verità a teoremi precostituiti e tradurre il libero convincimento in arbitrio, nella consapevolezza di non dovere rispondere delle proprie responsabilità. Costi quel che costi, denuncio questa sentenza nella quale si annida una disonestà intellettuale che è sorda al richiamo del vincolo morale e al contempo vi ricorre mischiando diritto ed etica e facendo valutazioni che attengono alla mia reputazione per giudicare e condannare un mio preteso peccato anziché un mio reato. E’ così che in questo processo la certezza del diritto è diventata certezza della pena tanto più quanto più è risultata incerta la colpa.
E mi lamento anche dei tempi della giustizia.
Lo Stato che impone al processo tempi biblici, non ha più il diritto di giudicare un uomo che, dopo tanti anni, non è più lo stesso uomo di prima. Qualunque sentenza esso emetterà nei confronti di quest’uomo sarà una sentenza ingiusta. Lo dice Veronesi:”Fino a pochi anni fa pensavamo che con il tempo aumentassero le sinapsi, i collegamenti tra neuroni. Oggi abbiamo scoperto invece che il cervello è dotato di cellule staminali proprie e dunque si rigenera. Quindi automaticamente il nostro cervello può rinnovarsi. In effetti ognuno di noi può sperimentare come il suo modo di sentire e di pensare non è più quello di dieci anni prima, ma il ragionamento ha più forti implicazioni a livello della giustizia, perché il detenuto non è più la stessa persona condannata tanti anni prima”.
Lo dice Nietzsche quando afferma che il tempo fa l’uomo diverso da ciò che era prima. E lo dice Beccaria quando sostiene che una sentenza, per essere giusta, deve avere il requisito dell’immediatezza affinché appaia evidente il rapporto di causa ed effetto tra reato e pena.
Quando invece, come nel mio caso, si è permesso che trascorressero sedici anni dall’inizio del processo prima di giungere ad una sentenza definitiva, non si può più sostenere che sia rimasto in vita un rapporto di causa ed effetto tra me e il mio processo perché io, ormai diverso rispetto a ciò che ero prima, sono diventato estraneo ad esso, di esso semmai sono diventato vittima e l’unico vero imputato è rimasto lo Stato colpevole del reato di tortura per avermi inflitto  un calvario giudiziario infinito durante il quale ho subito una violenza che mi ha segnato irrimediabilmente. Sedici anni di processo sono una pena ulteriore e ancora più crudele rispetto agli otto anni di detenzione inflittimi, perché per sedici anni la mia vita si è fermata ed è stata privata della possibilità di voltare pagina, di recuperare il tempo di cui è stata spogliata e ricomporre i tratti di una identità sfregiata, come sarebbe avvenuto se il processo si fosse concluso in tempi fisiologici. A settantacinque anni, nonostante le numerose patologie che mi affliggono, alcune delle quali contratte per lo stress di questa vicenda sciagurata, lo Stato  mi costringe a scontare gli ultimi pochi mesi di una pena ingiusta in quelle corti dei miracoli che sono le carceri italiane e continuerà, anche dopo l’espiazione della pena, ad ipotecare  la mia esistenza con un provvedimento cautelare, previsto in sentenza in aggiunta alla pena detentiva, da scontare fuori dal carcere.  Nel 1998 si è impossessato della mia vita e non è escluso che seguiterà a possederla fino all’ultimo dei miei giorni che, alla mia età, può arrivare da un momento all’altro.
Tuttavia non mi arrendo, se il tempo me lo concederà, pur con le unghie spuntate, continuerò a lottare, mi sforzerò di trascinare questo Stato incapace di garantire equità, al cospetto di un giudice nei confronti del quale non potrà far valere le sue imposture.
Ci rivedremo dunque e sapremo se  l’Europa, erede dei Lumi e intestataria  della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo,  è ancora in grado di risarcire un suo cittadino per i torti subiti da un Paese, l’Italia, che da tempo si è consegnato alla barbarie.