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mercoledì 30 gennaio 2013

La rivolta delle vestali in mala fede


Premesso che il fascismo è indifendibile perché una dittatura non è mai difendibile.
Premesso che Berlusconi è indifendibile perché non può essere difeso uno che, prima di parlare, non si collega con il cervello e dimostra un’abissale ignoranza della storia o mala fede affermando che nella scelta delle leggi razziali Mussolini “ preferì essere alleato alla Germania piuttosto che contrapporvisi nel timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale” e lasciando intendere che le leggi antiebraiche fasciste andarono a rimorchio di quelle naziste a guerra iniziata, quando invece è a tutti noto che esse risalgono a prima della guerra e furono quindi una scelta autonoma del fascismo.
Premesso che per ogni esternazione, specie se discutibile e provocatoria, bisogna avere la sensibilità di evitare luoghi e momenti sacri e dolorosi.
Tutto ciò premesso, si ha la sensazione sgradevole che il coro di prefiche avventatosi sul  black-out mentale di Berlusconi voglia speculare su di esso per fini di bottega elettorale enfatizzando ad arte una infelice uscita del Cavaliere e ostentando una indignazione farisaica gabellata per esternazione di solidarietà nei confronti di  uomini e donne che hanno già subito tanti torti dalla follia dei loro simili e non meritano di subire anche il torto dello sciacallaggio.
Sempre fatte salve le premesse di cui sopra, la dichiarazione di Berlusconi che il fascismo ha fatto qualcosa di buono, merita tanto scalpore? Forse che  un regime dittatoriale, per il fatto che è una dittatura, deve essere rimosso al punto da non prendere atto, allo stesso modo in cui se ne rinnega la natura e ci si rammarica che sia esistito, che esso è tuttavia esistito e non lo si può ignorare, come non si può ignorare il merito di alcune sue realizzazioni che sono sotto gli occhi di tutti e che ancora oggi non sono state rinnegate, anzi continuano a regolare la vita di tutti noi? Riconoscere l’efficacia di alcune leggi del fascismo significa forse accreditarlo come una democrazia? Nell’infuocata deflagrazione di critiche piovute su Berlusconi, una, quella di Alfonso Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano, afferma che “la dittatura è dittatura, la storia non si può cambiare”. Giusto, la storia non si può cambiare e non si può negare che sia esistita una dittatura con tutto il male ad essa connesso ma anche con quel poco di buono che le appartiene. E’ necessario, pur di fare esercizio di purezza democratica strumentale, demonizzare tutto facendo un torto alla storia e buttando con l’acqua sporca il bambino?
Abbiamo mai sentito i post comunisti, così intransigenti in fatto di democrazia, i quali, quando erano comunisti, andavano in brodo di giuggiole al cospetto di quel birbantello di Stalin autore di qualche milioncino di vittime, dissociare la loro storia da quella della loro ex casa madre sovietica? Forse che la “democrazia” di Stalin avevano una matrice ideologica e morale che sfugge ai più?
O forse la sventatezza di Berlusconi serve come foglia di fico per tentare di nascondere le marachelle di un P.D. pescato con le mani nella marmellata nel pasticcio M.P.S. e che, nonostante l’evidenza, si ribella alle critiche liquidandole come messaggi mafiosi nel momento stesso in cui , per bocca del suo segretario, manda a sua volta messaggi mafiosi minacciando di sbranare chi lo critica?
E non si imporrebbe un poco più di decenza, specie da parte di personaggi impresentabili che se la tirano con ipocrita indignazione per le gaffe di Berlusconi e non hanno il pudore di sparire assieme a lui dalla scena nella speranza di far dimenticare i guasti prodotti al Paese?
Tanto per parafrasare Don Basilio, demonizzate, demonizzate, qualcosa resterà!

lunedì 21 gennaio 2013

“Colui che sa”


Chiamiamolo  “Colui che sa”. Lui conosce uomini e cose, lui sa cosa passa realmente per la mente della gente e anche i messaggi più criptici non hanno per lui nessun segreto. Al pari dell’idealismo hegeliano, lui la realtà la crea ricavandola, come faceva Michelangelo, dai cippi marmorei inaccessibili ai più. Ai più ma non a lui che la natura ha dotato di una capacità di analisi senza pari: la dietrologia, grazie alla quale può divulgare tutto e il contrario di tutto, soprattutto la menzogna. Questo cacciatore di verità nascoste non conosce ostacoli, non si lascia scoraggiare neanche dai più raffinati congegni di difesa, parte lancia in resta e denuncia, a lui non la si fa!
Qualcuno parla di anime belle? Apriti cielo, il messaggio è chiaro ed è rivolto ad antichi “sodali” ai quali si vuol far pervenire l’avvertimento che le loro carriere, il loro presente, il loro avvenire, sono appesi ad un filo, alle decisioni che sul loro conto prenderà questo Qualcuno inquietante e in agguato. Peccato che le carriere degli antichi “sodali” continuino a navigare vento in poppa e il vulnerabilissimo Qualcuno continui ad annaspare nel merdaio giudiziario di una vicenda senza fine. Potenza dei masochistici ideali mafiosi, ai quali si è usi obbedir tacendo!
Un senatore della Repubblica ricorda quale è la sua storia e, in verità, con accenti piuttosto accesi che rivendicano i suoi meriti nella costruzione di una delle forze politiche che hanno dominato la scena degli ultimi vent’anni, pretende di avere diritto a non essere considerato una scarpa vecchia? Apriti cielo, il messaggio del senatore è chiaro ed è rivolto all’antico “sodale” assieme al quale ha costruito un partito ma anche, lascia intendere il nostro “Colui che sa”, ha coltivato inconfessabili relazioni mafiose, e allora, stia attento l’antico “sodale”, non faccia scherzi e lo tenga nella dovuta considerazione perché lui dalla poltrona di senatore non si lascia schiodare, pena la minaccia di ritorsioni. Meglio senatore che traditore! Peccato che il senatore, giusto il giorno successivo alla ricostruzione del nostro “Colui che sa”, dichiari di rinunciare alla candidatura a senatore d’accordo con il suo “sodale”, senza conseguenze per quest’ultimo che continua imperterrito a tessere la sua tela. Potenza della complicità anche questa mafiosa portata fino all’estremo sacrificio!
“Colui che sa” ha però un limite. Non tutto gli appare evidente. Non gli appare per esempio evidente il progetto di chi ha dominato la scena giudiziaria della propria città e ha combattuto la sua  battaglia contro la mafia, lui si alla luce del sole e senza bisogno di mandare messaggi criptici, dilatando la sua dimensione di paladino della giustizia in una visibilità che ha avuto una sua ragione d’essere fino a quando è stata messa al servizio della sua battaglia per la legalità, ma non gli fa onore se capitalizzata al servizio di una diversa battaglia, quella politica e soprattutto getta un’ombra sulla serenità del suo impegno di magistrato quando questo impegno era impiegato contro quelli che sarebbero diventati i suoi avversari politici. In tutto ciò il nostro “Colui che sa” non avverte nessuna anomalia e nell’enorme patrimonio di notizie accumulate dal magistrato non rinviene nessun pericolo di utilizzazioni strumentali da parte del politico, nessun conflitto inquietante e nessun disegno oscuro da denunciare considerando la coincidenza fra il distretto in cui ha operato il magistrato e il collegio in cui si candida il politico. Tutto alla luce del sole! Vuoi mettere la differenza fra i messaggi criptici dei “mascariati” e i messaggi chiari dei giusti? Potenza della lirica, cantava il compianto Dalla, e della fiducia del nostro nel proprio fiuto e nella propria capacità di individuare i buoni e i cattivi, gli inquisiti da epurare e gli inquisitori da incoraggiare, senza tanti strombazzamenti, in maniera felpata, omettendo, ignorando, senza dubbi stavolta, con silenzi solidali che qualcuno potrebbe leggere come una forma di connivenza. Il nostro “Colui che sa”, maestro di dietrologia, inciampa a sua volta nei sospetti della dietrologia!
Affinché non si fantastichi sull’identità di “Colui che sa”, ne rivelo il nome: trattasi di Bolzoni Attilio, giornalista emerito di la Repubblica, depositario delle verità nascoste.
Inoltre, per evitare di essere impallinato dai sospetti del nostro inquisitore, dichiaro solennemente che questo è un post innocente e non contiene alcun messaggio cifrato.

lunedì 14 gennaio 2013

Il giornalismo in Italia


Il giornalismo in Italia, fatte poche eccezioni, soffre di nanismo nei confronti delle testate di respiro europeo. Provinciale e bacchettone, si presta all’adulazione nei confronti del potente di turno o si lascia guidare da incrostazioni ideologiche che assoggettano la verità a teoremi precostituiti e guardano alle vicende del mondo e di casa nostra con strabica incoerenza. Un simile giornalismo non si ispira all’unico ideale dal quale dovrebbe essere spinto, e cioè a quello di vigilare affinché a chi legge giunga una informazione onesta, di ringhiare ai polpacci dei potenti, di servire il solo padrone che Montanelli riconosceva, il lettore, serve semmai le proprie convenienze e, invece di constatare e narrare la realtà, la partorisce ad libitum offrendola contraffatta in pasto allo sprovveduto lettore. La notizia in questo modo diventa strumento di parte piuttosto che del lettore, suggestiva e suggerita dall’interesse per lo scoop e per il messaggio che si vuole far giungere, fedele ai luoghi comuni di maniera che fanno tendenza, è macelleria protesa alla vendita di più copie e alla difesa di rendite di posizioni, cinica fino a pregiudicare vite e reputazioni, fino a ingannare i lettori.
E’ così che veniamo bombardati da notizie drogate su che cosa è giusto e cosa non lo è, su che cosa è vero e cosa non lo è, in materia di diritti umani, di giustizia, di scelte politiche, di scelte etiche, di tragedie sparse per il mondo. Si danno letture diverse delle sacche di ingiustizia morale, economica, sociale, di discriminazioni razziali e religiose, a seconda che rispondano o meno alle ideologie di parte o agli appetiti del mercato mediatico.
Si enfatizza, come è giusto, il dramma del popolo palestinese ma non se ne analizzano onestamente le cause e le origini, ricorrendo ad una comoda demonizzazione di Israele.
Si levano voci indignate contro l’imperialismo degli Stati Uniti, su una certa loro disinvoltura nel trattamento dei diritti umani a Guantanamo e nelle varie arie geografiche, Vietnam, Afganistan, Iraq, in cui sono stati e sono impegnati, ma si glissa sulla sorte dei dissidenti a Cuba o in Cina o in Iran.
Ci si sbizzarrisce sugli epiteti da riservare ai nostri governanti che, per carità, sono la causa prima del nostro malessere e meritano tutto la nostra disapprovazione, ma non si è capaci di allargare l’orizzonte denunciando la disinvoltura delle nostre banche che utilizzano gli euro ottenuti a tassi di realizzo dalla BCE per speculare investendo in BOT e CCT invece che per far credito alle imprese e alle famiglie o analizzando il fenomeno di certa finanza internazionale che mette in crisi popoli interi. Ormai l’impresa più redditizia non è quella industriale con i suoi rischi e le sue finalità sociali, è la finanza spietata che gira solo attorno al proprio ombelico. Si parla tanto di poteri forti ma nessuno che faccia nomi e cognomi e ci dica cosa è veramente questa specie di Spectre. Nessuno che smascheri l’ipocrisia dell’approccio moralistico di alcuni Paesi cosiddetti virtuosi, preoccupati di difendere la propria integrità dal pericolo del contagio, che oggi pretendono di imporre a popoli già stremati ricette di dimagrimento senza la prescrizione delle vitamine per la crescita, laddove ieri incoraggiavano gli stessi popoli allo sperpero per saziare gli appetiti delle loro economie.
Ci si strappa le vesti sui rischi del populismo tutto italiano di destra e di sinistra che si affida a messaggi improbabili e dunque facile da disinnescare, ma si tace sul vero rischio che nasce dal fiume carsico di una potente burocrazia che trama dispotica invischiando la macchina dello Stato e condizionandola fino al punto da impedire il regolare funzionamento di essa e il varo delle riforme necessarie. Ci si sciacqua la bocca con la sacralità della separazione dei poteri, ma nessun grido di protesta si leva quando un potere travalica con invasioni di campo e mette a rischio la democrazia e le garanzie dei singoli. Non ci si scandalizza per l’uso improprio di carriere destinate a svolgere delicate funzioni dello Stato e impiegate invece per approdare a più comode e fruttuose carriere politiche, grazie alla visibilità conquistata sul campo.
Si da addosso ai poveri diavoli ma si risparmiano i santuari. Alcuni giornalisti, con piena consapevolezza di quale sia la scelta di campo più conveniente, non hanno dubbi sulle colpe degli imputati declinate come certe nei sancta sanctorum delle procure e le propalano come definitive senza tanti riguardi per la presunzione di innocenza, senza tanti complimenti e soprattutto senza tanti sciocchi scrupoli nel compiacere la fonte della notizia e verificarne la fondatezza.
E ci sono poi le cause più degne e quelle meno degne. Non vengono considerate degne per esempio le cause che riguardano le condizioni di vita dei detenuti e si da notizia nel sottoscala di un minuscolo trafiletto di una pagina interna, del suicidio del disgraziato di turno in uno dei nostri grand’hotels carcerari. Non ci si intesta la battaglia per una riforma onesta della giustizia che sottragga l’imputato, anche se titolare della più infamante delle accuse, all’arbitrio di un sistema giudiziario che ha fatto strame del diritto. Al contrario è facile dimenticare la sorte dei cittadini titolari di imputazioni di un certo tipo contro cui tutto è lecito, contro i quali vale la vendetta piuttosto che la garanzia del diritto. Si lasciano soli ad abbaiare alla luna personaggi folli e straordinari come Pannella.
Ci si intesta invece il giacobinismo di una opinione pubblica avvilita e confusa, disposta a farsi ingannare, e lo si incoraggia con articoli che lisciano il pelo del qualunquismo e alimentano la sete di giustizialismo. Basta andare in rete per imbattersi in un campionario infinito di ovvietà frutto della normalizzazione che l’informazione ha fatto del nostro cervello. Personaggi anonimi e squallidi spacciano per originali convincimenti che sono stati subdolamente inculcati dal bombardamento di verità addomesticate, e nelle televisioni assistiamo a osceni giochi delle parti contrabbandati per dibattiti in cui tutto è assicurato tranne la decenza.
Si strilla di uguaglianza ma i balconi dei protestatari d’assalto confinano con quelli del potere e persino gli uomini deputati alla carità si siedono sugli scranni della loro alta appartenenza lontana dai poveri di spirito, senza che da quella stampa che dovrebbe attivare un controllo severo nei confronti dei potenti, si levi un grido di denuncia.
Tiziano Terzani, a proposito di che cosa deve essere il giornalismo ha scritto: “Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili. La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è il Potere. Perché il potere corrompe, il potere ti fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui diventi un suo scagnozzo, no?.......Il mio istinto è stato sempre di starne lontano……Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere ci stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Questo è giornalismo.” Luigi Einaudi a sua volta paragonava il giornalismo al sacerdozio.
Quelli erano i tempi di Terzani e di Einaudi, i tempi di oggi vedono i giornalisti massicciamente presenti nelle liste dei candidati alle prossime elezioni politiche e registrano il tracollo dell’innocenza di quanti credono alle favole.




mercoledì 9 gennaio 2013

La condanna della U.E.


L’Unione Europea ha condannato l’Italia per il sovraffollamento nelle sue carceri. C’era da aspettarselo, anzi ci si stupisce come mai la condanna si limiti al sovraffollamento e non investa altri aspetti del sistema giudiziario italiano che ha fatto man bassa del diritto. La detenzione preventiva, per esempio, che fa scontare in anticipo una condanna che potrebbe non essere emessa, la tortura di certe detenzioni speciali che confliggono con il rispetto dei diritti fondamentali, la lunghezza dei processi, la confisca delle vite di uomini che, dopo avere pagato con il carcere, sono costretti a pagare un conto aggiuntivo, quello delle misure di prevenzione decise in maniera dogmatica.
Pannella, come al solito senza mezzi termini, ha definito l’Italia“tecnicamente criminale”. Non si può non essere d’accordo con lui, perché di questo Stato che fa vivere la carcerazione ai suoi cittadini come dei polli in batteria, che causa suicidi in carcere con cadenza quasi giornaliera, che infligge tempi giudiziari biblici, che ha barato procurando l’ergastolo a sette innocenti condannati per la strage di via D’Amelio, che depista, occulta, falsifica, omette, sperpera vite umane, non si può esser fieri e non lo si può ritenere meritevole di svolgere le funzioni istituzionali di rappresentanza e di garanzia. Che razza di Stato è quello nel quale il Parlamento boccia un disegno di legge del ministro di Grazia e Giustizia sulle misure alternative che, oltre a sfoltire le presenze in carcere, abbassano dal 70% al 19,8% la recidiva, o nel quale un imputato, come nel mio caso, è relegato per quindici anni fra i cittadini indegni a causa del ritardo nella emissione di una sentenza definitiva che ancora, dopo quindici anni, aspetta di essere pronunciata?
Uno che se ne intendeva, Cesare Beccaria, raccomandava che una sentenza, perché fosse giusta, dovesse avere il requisito della immediatezza, affinché appaia evidente il rapporto di causa ed effetto fra reato e pena, e affinché non appaia ingiusta una pena inflitta dopo tanti anni ad un uomo che, trascorso tutto quel tempo, non è più lo stesso uomo, non è più l’originario autore del reato. Recentemente Umberto Veronesi, intervenendo a favore dell’abolizione dell’ergastolo, ha ribadito con considerazioni scientifiche il concetto di Beccaria. Ha scritto Veronesi: “Fino a pochi anni fa pensavamo che con il tempo aumentassero le sinapsi, i collegamenti fra neuroni. Oggi abbiamo scoperto invece che il cervello è dotato di cellule staminali proprie, e dunque si rigenera. Quindi automaticamente il nostro cervello può rinnovarsi. In effetti ognuno di noi può sperimentare come il suo modo di pensare e sentire non sia lo stesso di 10 anni prima; ma il ragionamento ha ben più forti implicazioni a livello della giustizia, perché il detenuto non è la stessa persona condannata 20 anni prima…..”. Un processo che si prolunga per 15 anni, finisce per essere scippato del suo imputato, sulla scena del delitto rimane solo un fantasma e la sentenza, se di condanna, colpisce un innocente.
Uno Stato del genere non merita il rispetto dovuto alla Patria di tutti noi, e non condivido le dichiarazioni di compostezza professate da alcuni condannati nell’accettare le sentenze della magistratura. La compostezza si imporrebbe se le leggi fossero giuste, se la magistratura fosse messa nelle condizioni di offrire garanzie di imparzialità, di essere equidistante, indipendente, atarassica custode della legge e ai condannati fosse consentito di scontare la loro pena con dignità. Purtroppo non è così e il diritto non può identificarsi con lo Stato se lo Stato non è giusto, se esso è venuto meno al patto con i suoi cittadini nell’amministrare la giustizia come in tutte le altre funzioni con le quali dovrebbe far sentire tutelati i suoi figli. Privati di questa certezza, delle garanzie disattese da un impegno non mantenuto, non possiamo condividere la sindrome di Stoccolma di chi, massacrato dallo Stato, professa fiducia nelle istituzioni.