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venerdì 21 settembre 2012

In risposta ai soliti noti


Avevo messo nel conto la reazione dei soliti noti che impazzano in rete alla ricerca delle occasioni per liberare le loro frustrazioni e deciso in partenza di non tenerne conto. Ma non mi aspettavo tanto. Debbo dire che ho difficoltà a leggere il senso degli insulti che mi vengono rivolti ed è troppa fatica (oltretutto non ne ho la competenza) cimentarsi nell’unico ambito che dovrebbe occuparsi della complessità dei deliri piovutimi addosso: la psicoanalisi. Non c’è nessuno che abbia centrato il cuore del problema, non uno che abbia contestato, sul piano morale e giuridico, il mio appello per la cancellazione del regime del 41bis, quasi tutti sono andati fuori tema e si sono concentrati sulla mia indegnità. Come se essere indegni precluda la possibilità di porre un problema che indubbiamente esiste e che non è così scontato (vedi le censure in sede europea). Siamo alla damnatio memoriae, alla cancellazione dell’individuo e della sua capacità di pensare, all’etica come strumento di lobotomizzazione della mente, alla rete che esibisce campioni di un massimalismo che si appalta le poltrone del moralismo e l’esclusiva delle patenti da distribuire, in cui tanti Vinscinsky da strapazzo scorazzano sognando di dar corpo alle loro ambizioni forcaiole. Ho persino prodotto un mostro che coltiva il sogno del ripristino della pena di morte.
I soli che sono entrati nel merito del mio appello seppure per contestarlo, sono stati l’on. Lumia e il dr. Ingroia, l’uno con considerazioni di opportunità, l’altro con considerazioni di carattere giuridico. Al primo il quale sostiene che il regime del 41bis andrebbe addirittura indurito e che la sua cancellazione equivarrebbe ad una sconfitta dello Stato, mi permetto far presente che le esigenze di sicurezza non sono esigenze di vendetta, che esse  possono essere tutelate anche con strumenti diversi dall’isolamento e che forte della sua intransigenza, invece di imperversare nel comodo mattatoio di casa nostra contro i reietti tagliati fuori dalle garanzie del nostro ordinamento giuridico, egli dovrebbe volare a Strasburgo e bacchettare Jean Paul Casta presidente della Corte Europea dei diritti dell’uomo il quale ha censurato l’Italia con queste parole: “Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato”. E per favore non scomodi Pindaro che cantò gesta e miti inseguendo un ideale umano che nulla ha a che fare con la concretissima quotidianità di uomini murati vivi.
Al dr. Ingroia il quale ci ricorda che la Consulta si è pronunciata per la costituzionalità del 41bis, voglio a mia volta raccomandare la lettura dei seguenti articoli della Carta Costituzionale, gli articoli 2, 10,13,27. La pronuncia della Consulta alla luce di queste norme costituzionali è, mi sia consentito, un mistero.
Non voglio chiudere questo post senza rispondere ai soli che hanno usato toni pacati e mi hanno fatto sentire un poco meno indegno.
A Balqis De Cesare ricordo che sono un imputato di mafia condannato in primo e secondo grado e dunque una mia partecipazione ad una manifestazione antimafia suonerebbe inopportuna, poco credibile e, oserei dire, provocatoria, a parte il fatto che non verrebbe accettata. Ma cosa penso della mafia e la mia distanza da essa si possono evincere dalla lettura dei post del mio blog e soprattutto dalla lettura del mio libro “L’universo di Nazareno” stampato dal gruppo editoriale l’Espresso.
Ringrazio Aledo per i suoi toni pacati, ogni tanto si respira un poco d’aria pulita. Rischio però di deluderlo. C’è una verità processuale seppure non definitiva che dice che sono mafioso. Si vedrà come andrà in Cassazione, nel caso venissero confermate le sentenze di primo e secondo grado, sarò definitivamente e ufficialmente mafioso. C’è però anche una verità non processuale della quale parlo nel mio post “Ritorno in carcere”, e quella è la mia verità. A lei scegliere a chi credere. La posso aiutare citando la mistica spagnola Teresa D’Avila che sosteneva: “Se vuoi conoscere veramente un uomo, devi leggere le sue epistole perché è lì che l’uomo si libera degli orpelli e denuda il suo cuore”. Cito a memoria ma il senso dovrebbe essere questo. La ringrazio qualunque dovesse essere la sua scelta.

giovedì 13 settembre 2012

Il 41 bis


Ho sperimentato sulla mia pelle cosa significa sollevare il problema relativo al regime del 41 bis per essere stato investito, quando ho affrontato l’argomento, da invettive, insulti e inviti a finire i miei giorni in un gulag. So poi che, assieme ai soliti ignoti a caccia di buglioli in cui vomitare il loro odio, debbo mettere nel conto anche  il rischio di essere frainteso dai soliti aruspici che amano leggere chissà quali dietrologie in articoli innocenti, e le sacrosante proteste di quanti portano impresse sulla loro pelle i segni delle ferite riportate sul fronte della lotta alla mafia. Ma sono testardo e torno sull’argomento che, seppure impopolare, ha il fascino della lotta impari e della pietà sentita come imperativo morale.
Mi rivolgo innanzitutto ai parenti delle vittime di mafia. Di essi condivido lo sdegno e comprendo l’ira, ad essi, se la Cassazione deciderà in via definitiva che sono mafioso, seppure estraneo alle loro sofferenze ma colpevole dell’identità inflittami, chiederò perdono, ma ad essi sento di  rivolgermi come a compagni di un medesimo viaggio, titolari di quello che Gibran ha chiamato il comune destino in cui “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio.”
Ad essi dico che il loro desiderio di giustizia è sacrosanto ma che questo desiderio non può confondersi con la voglia di sangue di cui si nutrono gli squallidi personaggi che usano i drammi altrui per liberare la loro anima malvagia, che essi sono l’umore dal quale sono germogliati gli spiriti di uomini che hanno sacrificato la loro vita, che il loro dolore è troppo nobile per sporcarsi col rancore e la vendetta. I loro destini servono a riscattare altri destini e ad essi chiedo di unirsi ai familiari dei carnefici dei loro cari per un atto di giustizia. Quando parlo di giustizia non intendo indulgenza nei confronti delle colpe e delle pene. A ciascuno il suo, ai colpevoli l’espiazione della pena, ai giusti la pretesa del rispetto dei fondamentali diritti umani. Il rigore dell’espiazione non deve essere frainteso e confuso con la tortura, l’espiazione deve procedere senza sconti ma avendo riguardo per la dignità del colpevole e dei suoi familiari. Quando in un mio post proposi la lettera di un detenuto in regime di 41 bis che descriveva le condizioni strazianti in cui si svolgeva il colloquio tra se e suo figlio di pochi anni, ho dovuto registrare il sarcastico commento di un anonimo che si compiaceva della crudeltà del colloquio descritto e si augurava sofferenze ancora maggiori. Ecco cosa intendo per giustizia di contro al giustizialismo, non certo il perdono da parte dello Stato che non può abdicare al suo rigore, ma neanche la vendetta e l’accanimento nei confronti del reo al cui fianco mi piace immaginare la pietà della vittima che ben conosce la sofferenza e ne avverte l’insensatezza.
Ad altri mi rivolgo con diverse motivazioni e, fra esse, non certo la pietà. Alle coscienze libere che hanno a cuore l’equità del diritto mi rivolgo per ricordare loro che hanno dormito a lungo, che tra diritto e sicurezza urge una scelta e che l’opzione della sicurezza finora prevalsa non fa onore alla tradizione dei lumi e delle garanzie liberali. La pena non può essere utilizzata come risposta eccezionale ad una condizione d’emergenza e lo Stato di diritto deve sapere tenere i nervi saldi non dimenticando che la contrapposizione fra sicurezza e diritto va gestita con misura ed equilibrio. Vi è chi si richiami alla lezione Dei Beccaria, dei Montesquieu, dei Locke, e sappia gridare che la pena non è afflizione e che non è ammissibile che esseri umani fatti della stessa carne di noi tutti subiscano l’inferno di una condizione intollerabile quale è quella del 41 bis reiterato ininterrottamente per decenni, senza alcuna considerazione per le mutate circostanze e per le nuove sensibilità nel frattempo maturate nell’animo dei detenuti, in cui la vita fisica e quella psichica vengono giorno dopo giorno spente con un crudele stillicidio di vessazioni che coinvolgono i reclusi e i loro familiari?
Dal mio non invidiabile osservatorio percepisco che mio figlio non è più quello di sette anni fa e constato lo smarrimento di mio nipote costretto a sottoporsi al martirio del colloquio mensile col padre, il vuoto del suo sguardo, la mia inadeguatezza a dare risposte alle sue domande mute e il mio terrore per le derive che possono nascere nel suo animo provato.
Uomini come il Capo dello Stato, campioni del pensiero liberale che hanno a cuore la tutela dell’individuo come Ostellino, luminari della scienza che hanno sostenuto la capacità dell’uomo di cambiare e di avere diritto ad una seconda opportunità come Veronesi, combattivi difensori dei diritti umani come Pannella, Della Vedova e Manconi, portatori di una concezione giuridica rigorosamente garantista come Pisapia e Ferrajoli, giornalisti intellettualmente onesti come Panza, Polito, Battista e carismatici come Scalfari, non hanno alibi se continuano a latitare in una contesa che riguarda la civiltà del diritto ancor prima della sopravvivenza di vite umane. Ad essi ricordo che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 39/46 del 1987 ha approvato una Convenzione contro la tortura e ha obbligato gli stati contraenti ad adottare una serie di provvedimenti in sintonia con la convenzione approvata. La legislazione italiana non si è ancora adeguata a quest’obbligo e, se si fa riferimento all’art. 27 della Costituzione sulla umanizzazione della pena, non c’è dubbio che il 41 bis è un regime di tortura e che la sua applicazione è un vulnus del nostro sistema giudiziario. D’altronde siamo destinatari di parecchie censure in merito da parte della Comunità europea. La giustizia in uno stato liberale altro non è che una valutazione morale esercitata in un ordinamento legale, grazie alla quale lo Stato può giustificare il ricorso alla violenza, attraverso la condanna e la carcerazione, in risposta alla violenza del cittadino. Ma lo Stato che affida ad una valutazione morale la ragione della sua violenza, non può prescindere da un analogo imperativo morale che imponga il rispetto della condizione umana alla quale è costretto a fare violenza.
E’ questo un appello alle coscienze libere, agli Ostellino, ai Veronesi, ai Pannella, Della Vedova, Manconi, Pisapia. Ferrajoli, Panza, Polito, Battista, Scalfari e ad altri uomini di buona volontà perché si rivolgano alla associazione Liberarsi a Grassina (Fi) ( assliberarsi@tiscali.it ) che da tempo si batte in difesa dei diritti dei detenuti e assieme ad essa si intestino una battaglia per l’abolizione del 41 bis, una battaglia che so difficile perché combattuta contro avversari che godono di seguito, di potere di veto e coagulano umori giacobini coltivati a lungo e capillarmente diffusi in una opinione pubblica spaventata e incitata al linciaggio, ma che ha il fascino delle lotte degne perché riguarda l’uomo della cui centralità cominciò a parlare un certo Socrate attirandosi l’accusa di empietà, perché riguarda la sua dignità che è quella di tutti noi.
Avevo previsto di rivolgere questo appello al cardinale Martini, così vicino alle sofferenze dei carcerati, ma sono arrivato tardi. Sono comunque certo che da lassù ci darà una mano.