Visualizzazioni totali

domenica 22 luglio 2012

Ritorno in carcere

La sentenza d’appello depositata qualche mese fa con la quale è stata confermata la condanna a otto anni inflittami in primo grado è stato un rospo difficile da ingoiare. Ho combattuto a lungo con la tentazione di commentarla pubblicamente senza sapermi decidere. Alla fine mi sono detto che non potevo lasciare al mio giudice l’esclusiva della verità sul mio conto e che avevo il diritto di dire la mia. Vengo meno perciò alla decisione presa tempo fa di non scrivere più sul mio blog e torno a utilizzarlo proprio per commentare la suddetta sentenza. Evidentemente non sono quell’uomo d’onore che dicono io sia. E veniamo al dunque. Si è soliti dire che le sentenze non vanno discusse ma rispettate. Posso capire che siano rispettate, ma non per questo necessariamente condivise. Io, per esempio, sto accettando la sentenza che mi condanna e, se la Cassazione ribadirà definitivamente tale condanna, non mi sottrarrò ad essa e tornerò in carcere. Ma pur accettando la verità processuale non esito a dissentire da essa ritenendola profondamente ingiusta. Lo dico con cognizione di causa dopo avere letto le motivazioni della sentenza in cui si può cogliere un campionario delle acrobazie messe in atto pur di giungere ad una verità abborracciata. Se un collaboratore di giustizia mi accusa di essere mafioso reiterando la stessa accusa appresa da un precedente collaboratore senza aggiungere elementi nuovi che diano originalità alla sua dichiarazione, appare chiaro che non può invocarsi la cosiddetta convergenza del molteplice e considerarla prova per condannarmi, come ha fatto il mio giudice. Se un collaboratore di giustizia afferma di detestarmi e promette di farmela pagare confidando la sua avversione e i suoi progetti di rivalsa nei miei confronti ad un suo amico che ne ha dato testimonianza in aula in qualità di teste dell’accusa, se emergono le ragioni del suo rancore attraverso le dichiarazione di due testimoni (stavolta della difesa) che riferiscono di quando l’ho schiaffeggiato, è singolare che il giudice ritenga non attendibili i miei testimoni (e il teste dell’accusa?) senza denunciarli per falsa testimonianza e non nutra alcun dubbio sulla sincerità delle accuse del collaboratore. A maggior ragione se lo stesso collaboratore è stato ritenuto inattendibile da altro giudice e continua ad incassare ulteriori sconfessioni come è accaduto in questi giorni. Se nella intercettazione di un mio colloquio con questo stesso personaggio che si stava apprestando a saltare il fosso e, per convincere gli inquirenti della sua buona volontà, accettava di prestarsi a tendermi una trappola presentandosi all’appuntamento con me imbottito di microspie con l’intento di carpirmi dichiarazioni compromettenti, emerge che io, all’oscuro di tutto, dichiaro di essere estraneo alle logiche mafiose senza che il mio interlocutore contesti le mie affermazioni richiamandomi, che so, alla responsabilità per azioni delittuose commesse assieme, che grido la mia indignazione per essere stato coinvolto incolpevolmente nelle vicende di mio figlio senza suscitare alcuna reazione di stupita protesta nel mio interlocutore, è singolare che il giudice ritenga le mie affermazioni frutto di un’abile messa in scena, attribuendomi doti profetiche e pretendendo che io conoscessi, nel momento in cui stava nascendo, un progetto di collaborazione che sarebbe divenuto operativo e noto solo a distanza di sei mesi dalla data del colloquio. Se un collaboratore di giustizia afferma di avermi incontrato in un locale che è risultato inesistente, se afferma che in questo presunto colloquio mi ha chiesto di accreditarlo presso il comune di Villabate per l’ottenimento di un incarico professionale confidando nel mio potere politico e nella mia conseguente capacità di influenzare le scelte dell’amministrazione comunale dell’epoca, se risulta che la data del colloquio è il 1993, anno in cui io non svolgevo alcuna attività politica (avrei cominciato il mio percorso politico solo nel 1994 con F.I.) e dunque non avevo alcun potere contrattuale per intervenire su un’amministrazione comunale i cui esponenti peraltro sarebbero stati miei avversari politici nella competizione elettorale amministrativa che si sarebbe svolta nel 1994, se il signor collaboratore mi indica come ex sindaco di Villabate mentre è notorio che non ho mai fatto parte neanche di un collegio sindacale di condominio, è singolare che il giudice ritenga attendibile il collaboratore solo perché questi ha affermato di riconoscermi in una foto durante le indagini condotte dai P.M. senza la presenza dei miei difensori che vigilassero sulla correttezza delle procedure, ritenendo questo presunto riconoscimento elemento di colpevolezza anche se non riconducibile ad alcuna azione delittuosa! Se due collaboratori di giustizia dichiarano che hanno tentato di coinvolgermi in una messa a posto, ammettendo che io mi sono rifiutato di aderire alle loro richieste, è singolare che il giudice ritenga insufficiente il mio diniego e valuti con sospetto la mia condotta. Se un collaboratore di giustizia afferma che è logico che sono mafioso perché padre di mio figlio, è singolare che il giudice accetti questo automatismo che introduce il principio della responsabilità oggettiva nel diritto penale. Se un collaboratore, prima mi esclude dall’organigramma della famiglia mafiosa di Villabate e successivamente, a domanda del P.M.(in assenza dei miei difensori), mi include, è singolare che il giudice prenda per buono questo ripensamento sospetto. Se persino la vittima della turbativa d’asta che mi viene contestata, mi scagiona, è inspiegabile che il mio giudice mi condanni. Se la mia attività politica esercitata ricoprendo incarichi di partito conquistati dopo libere elezioni che mi accreditavano quale interlocutore legittimo nella vita politica del mio territorio, è stata prima negata e poi letta come una indebita intromissione dal mio giudice, pur non essendomi stato contestato alcun reato in ordine a detta attività, c’è da chiedersi a quale carta costituzionale il mio giudice si sia ispirato. Se tutti i collaboratori di giustizia che mi accusano, seppur contraddittori, non riscontrati e palesemente ispirati da dichiarazioni apprese da altri, sono dal giudice ritenuti attendibili e i testi della difesa, pur non palesando incertezze e confusioni, sono dallo stesso giudice considerati dogmaticamente inattendibili nella presunzione che essi mi vogliano a vario titolo favorire senza tuttavia essere perseguiti per favoreggiamento, lasciatemi dire che c’è del marcio nel pianeta giustizia, che c’è il calcolo di piegare la verità a teoremi precostituiti e perseguire, per dirla con Trasimaco, l’interesse del più forte, l’interesse cioè di una magistratura onnipotente che conduce una battaglia ideologica senza esclusione di colpi e sospende di fatto i diritti fondamentali pur di realizzare la sua vocazione messianica. Tucidide nel libro V° de La guerra del Peloponneso racconta come i Melii si siano dovuti piegare alle ragioni degli Ateniesi i quali ammantavano con l’appellativo di diritto le loro convenienze. E’ la consacrazione di una deriva che ha sempre attraversato il destino degli uomini e che vede i più deboli soccombere nei confronti dei più forti. In questa lotta impari in cui tutto è sempre uguale a se stesso e i deboli di ogni stagione replicano un copione stantio, è il turno degli imputati di mafia di farsi Melii e di recitare il ruolo dei deboli, quasi che le loro presunte colpe, l’infamia della loro imputazione, giustifichino la cessazione del loro status di cittadini e che lo Stato debba essere ritenuto legittimato a farne carne da macello in un sistema senza garanzie. La certezza del diritto diventa così certezza della pena tanto più quanto più incerta è la colpa. Purtroppo quando si affrontano tematiche mafiose non si va tanto per il sottile. Si scatena una vera e propria caccia alle streghe e le sentenze mediatiche finiscono per anticipare e influenzare quelle dei tribunali. In questo clima può accadere che maturino sentenze della magistratura in cui si condanna la reputazione piuttosto che il reato, in cui si utilizza come prova la cosiddetta convergenza del molteplice anche quando a convergere è solo l’inganno del dichiarante, in cui il principio del “non poteva non sapere” viene ritenuto elemento sufficiente di colpevolezza, in cui l’amministrazione della giustizia diventa una esercitazione di approssimazione giuridica. In questo modo si infliggono alla giustizia ferite mortali come è accaduto nel caso dei sette condannati all’ergastolo per la strage di via D’Amelio che hanno scontato 15 anni di carcere non dovuto, nel caso Tortora, nei tanti casi meno noti o non venuti alla luce, in cui con la pratica dei depistaggi e delle mistificazioni vite umane sono state sacrificate e la certezza del diritto è stata messa in forse. Bisogna allora avere il coraggio di denunciare l’ipocrisia della sacralità di alcune sentenze quando, al di là dell’onesto errore umano, in esse si annida disonestà intellettuale. Bisogna avere il coraggio di denunciare la disinvoltura di certa normativa ammiccante che talvolta fa del magistrato il giudice di se stesso sottraendolo ad un controllo terzo che scoraggi tentazioni autoritarie. In nome dell’autonomia del magistrato si è prodotto un monstrum, la irresponsabilità del medesimo a scapito del cittadino esposto al rischio dell’arbitrio, ed è venuta a mancare la coscienza morale di una novella Antigone che rivendichi il primato dei valori etici contro l’autoreferenzialità di una corporazione arroccata in un fortilizio consortile. Non ignoriamo l’esistenza di norme quali l’art.104 d. lgs 6.9.2011 nr.159 sulle attribuzioni del PG della Cassazione e l’art.6 del d. lgs. 20.2.2006 nr. 106, a garanzia del cittadino, ma non possiamo neanche ignorare che l’applicazione di esse è affidata agli stessi magistrati al cui corpo appartengono i controllati e che cane non mangia cane. Non tutti hanno la possibilità, come il sen. Mancino, di rivolgersi ascoltato e riscontrato al consigliere giuridico del Presidente della Repubblica ottenendo che questi intervenga sul Procuratore Nazionale Antimafia seppure con richieste lecite. Al comune cittadino non è concessa pari attenzione, al comune cittadino è concesso, come nel mio caso, dopo 15 anni di processo, 6 anni di carcere preventivo senza che si sia giunti ancora ad una sentenza definitiva, nonostante l’insussistenza dei motivi di condanna e la mia ragguardevole età, di programmare il ritorno in carcere se il mio giudice a Berlino non saprà trovare tra le pieghe del diritto l’equità che impedisca il compimento di una ulteriore ingiustizia.