Intervenuto alla trasmissione “In mezz’ora” di Lucia Annunziata, Gianfranco Fini, commentando il progetto annunciato da Berlusconi di porre mano alla riforma della giustizia come primo atto dopo l’ottenimento della fiducia, si è domandato sarcasticamente se questa riforma sia una emergenza così impellente o se essa non nasca solo dalla preoccupazione di Berlusconi di sottrarsi ai processi. In verità in un successivo passaggio, senza tante fumisterie retoriche, l’on. Fini ha detto chiaramente che l’on. Berlusconi non vuole schiodarsi dalla poltrona di primo ministro per non affrontare i processi che incombono su di lui.
Ora, pur non facendo sconti al Presidente del Consiglio sulle sue reali finalità, è giusto liquidare il progetto di riformare il sistema giudiziario con una battuta sarcastica negandole il titolo di impellenza e relegandola al ruolo di stampella berlusconiana? La giustizia in Italia ha o non ha una sua problematicità che travalica le mire del premier e che è ingiusto sottovalutare aspettando che ad affrontare il nodo giustizia sia un governo gradito all’on. Fini? Non è invece giusto soppesare in tutta obiettività se la riforma è effettivamente necessaria e urgente e se le proposte di riforma sono congrue nonostante il governo che le propone? L’odio di Fini nei confronti di Berlusconi e una sua antica vocazione forcaiola che gli fa vivere con sospetto qualsiasi modifica all’attuale assetto della giustizia come un favore alla delinquenza, non basta ad eludere un problema reale e un progetto per affrontarlo. Né bastano le ragioni di un largo fronte schierato sulla intoccabilità delle prerogative della magistratura di cui si teme la perdita d’autonomia. A dispetto di tutto e in particolare del sarcasmo di Fini, il sempre annunciato e mai realizzato progetto di riforma della giustizia è urgente. Vediamo perché.
La giustizia penale in Italia è amministrata con il criterio così detto accusatorio che attribuisce alla pubblica accusa il compito di dimostrare la colpevolezza dell’imputato. Nella realtà l’onere della prova transita dalla pubblica accusa all’imputato costretto a dimostrare di essere innocente di fronte ad accuse spesso non provate. Nelle more del dibattimento l’imputato è costretto a patire una carcerazione così detta preventiva che anticipa una espiazione inflitta in anticipo rispetto ad una sentenza che potrebbe essere di assoluzione. Non c’è niente di simile in nessun altro Paese al mondo! Non solo ma, essendo i detenuti in attesa di giudizio il 40% della popolazione carceraria, si determina quell’affollamento che è una delle patologie del nostro sistema giudiziario.
I processi hanno tempi biblici sia nel penale che nel civile. I risultati sono nell’un caso di incertezza della status dell’imputato per lunghi anni con conseguenze devastanti per la sua immagine e la sua vita e nell’altro caso di precarietà nella dialettica giuridica delle controversie con evidente danno a persone e imprese e di diffidenza degli investitori stranieri che si tengono lontani da un mercato che non assicura certezza del diritto.
I giudici giudicanti e requirenti appartengono allo stesso ordine. Questo comporta l’inusualità tutta italiana, che non ha riscontro in nessun altro Paese, di un magistrato che decide sulle ragioni di un collega contro quelle di un estraneo all’ordine quale è l’avvocato difensore. Può avvenire inoltre che un magistrato proveniente dall’incarico di requirente passi a quello di giudicante e si trovi a valutare circostanze sulle quali egli stesso ha indagato e comunque porta con se la cultura del pregiudizio accusatorio al quale è stato educato. In queste condizioni si ha ragione di pensare che la gestione del dibattimento non assicuri parità di peso ad accusa e difesa con evidente penalizzazione del risultato processuale.
L’obbligatorietà dell’azione penale in effetti produce una discrezionalità nella scelta delle iniziative da intraprendere da parte del PM che sommerso da notizie di reato è obbligato a decidere a quale attribuire la precedenza. Stando così le cose perché intestardirsi con l’ipocrisia di una obbligatorietà che si traduce in un formidabile strumento nelle mani di una delle due parti in causa senza alcun deterrente che ne limiti eventuali intenti persecutori?
La tanto strombazzata funzione redentrice della detenzione prevista dalla Costituzione e dallo stesso ordinamento penitenziario, è in effetti vanificata dalle condizioni carcerarie frustranti che instupidiscono piuttosto che redimere i detenuti. Uomini costretti a vivere venti ore su ventiquattro in cella senza soluzioni che diano alla loro vita un qualsiasi stimolo, finiscono per coltivare una pericolosa sensazione di vuoto e di disperazione il cui esito può essere drammatico. La cadenza ormai sempre più frequente dei suicidi in carcere ne è la prova.
L’ergastolo è quanto di più stupido e crudele possa immaginarsi come pena al colpevole, anche il più abietto. Che senso ha negare ad un uomo il proprio futuro quando invece gli si potrebbe infliggere una lunga pena detentiva che assolverebbe adeguatamente lo scopo della punizione permettendogli un percorso di riflessione e possibile ravvedimento in vista di uno sbocco alla sua scarcerazione? Un uomo senza futuro è un uomo destinato a inaridirsi, che giorno dopo giorno perde i contorni della realtà e si confina in un suo mondo onirico popolato di deliri, è un uomo che fa del nulla la sua realtà e la traduce in insulsaggine, destinato all’abbrutimento o, se ne ha gli strumenti, alla santità. Ha lo Stato il diritto di lobotomizzare un suo cittadino?
Potrei continuare ancora a lungo ma mi fermo qui e chiedo: i problemi della giustizia sono o non sono reali? E la sua riforma è o non è giusta e urgente?
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