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martedì 23 dicembre 2014

Buon Natale?



Mi aggiravo tra le bancarelle del mercatino rionale, come ogni mercoledì, quando lo vidi. All’inizio stentai a riconoscerlo per quanto era cambiato. Molto più curvo di come me lo ricordavo, mi impressionò proprio per quella postura innaturale che strideva col suo fisico un tempo asciutto e svettante che sembrava inerpicarsi verso l’alto, quasi a sfidare il cielo, e che adesso invece fletteva verso il basso come un ramo piegato dal vento. Il passo era sempre quello, il passo deciso, appena più incerto del solito, di un uomo che aveva sempre lottato e sempre vinto, tranne l’ultima sfida. L’ultima lo aveva visto soccombere senza possibilità di rialzarsi. Avevo seguito tanti anni prima la sua vicenda drammatica senza poterlo aiutare, confinato nell’impotenza di fronte a qualcosa di più grande e ineluttabile che presto avrei conosciuto anch’io. Impegnati entrambi  a raccattare quello che restava della nostra vita, ci eravamo perduti di vista ed ora lo rivedevo mentre, muovendosi tra le bancarelle intento ad osservare la merce esposta, si fermava a trattare con aria competente l’acquisto dei prodotti che gli interessavano.  Comprò delle zucchine, dopo averle tastate con cura, pagò e andò oltre sempre girando lo sguardo attorno, alla ricerca di chissà cosa. La drammatica banalità di quella scena mi colpì come un pugno allo stomaco, essa aveva il sapore di un insopportabile oltraggio al passato glorioso di un uomo che aveva gestito aziende e pilotato progetti ambiziosi e che adesso guidava il suo fiuto verso la scelta di ortaggi. Lo osservai più attentamente e notai gli insulti del tempo. Di quello che era stato un bell’uomo, rimanevano i resti devastati dalla sofferenza, i capelli radi, la pelle chiazzata da macchie scure, un leggero tremolio delle mani, e lo sguardo. Lo sguardo era perduto negli occhi acquosi e spenti e vagava senza interesse. Come se sentisse di essere osservato, si girò verso di me e passò oltre senza vedermi. In verità non vedeva niente di ciò che lo circondava, non percepiva il vociare festante della gente eccitata dal Natale imminente, rinchiuso nel recinto dei reietti, alle prese col Malessere che lo addentava alla gola, inseguiva i suoi fantasmi.
Al mio amico e ai reietti come lui che vivono ai margini della società, nella terra di nessuno dove la pietà è stata bandita e sostituita dalla ferinità, va il mio augurio per questo Natale privo di gioia, il mio cuore accompagnerà in ogni istante il calvario della loro festa. Agli altri, a quelli che hanno bandito la pietà, non so cosa dire, tranne che il Natale di quest’anno è privo di gioia anche per loro, vittime della legge del contrappasso che, col suo pesante carico di miserie morali e materiali, ha aggredito il benessere nel quale si erano crogiolati e li ha catapultati nel panico, in un Paese che hanno voluto senza misericordia e che adesso li ripaga condannandoli alla sofferenza, né più e né meno degli infelici che hanno emarginato.

giovedì 11 dicembre 2014

Lo Stato di diritto




Il Leviatano ha fatto il suo tempo. Con buona pace delle buone intenzioni di Hobbes, siamo allo stato di natura: homo homini lupus.  Lo Stato che ha la funzione di garantire che i diritti siano uguali per tutti i cittadini, si è dato alla latitanza rinunziando al suo potere sovrano e venendo  meno all’accordo concluso con i suoi cittadini. L’elenco delle sue inadempienze è lungo quanto sono infinite le sofferenze inflitte agli italiani, e spaziano dalla insensibilità nei confronti degli anziani lasciati a patire sotto la soglia della indigenza, alla incapacità di dotare i giovani di un futuro, dalla voracità del prelievo fiscale, alla inadeguatezza dei servizi, dalla resa ai poteri forti, siano essi le corporazioni autonome che decidono nella assoluta impunità, i lobbisti acquattati nell’ombra, i grand commis che controllano e condizionano la macchina dello Stato, alla boria nei confronti dei cittadini inermi che non hanno santi in paradiso.
Per non parlare della giustizia a corrente alternata. Senza meccanismi di controllo autentici, questa parvenza di Stato non riesce a sottrarsi alla tentazione di ricavarsi delle zone franche e opache nelle quali avviene di tutto senza che nulla trapeli all’esterno. In quelle che potremmo definire le praterie del Far West, ci si fa giustizia in maniera spicciativa obbedendo ad una sorta di razzismo nei confronti di uomini ritenuti inferiori e nella consapevolezza di non dovere rispondere degli abusi commessi. È quello che sta avvenendo in questi giorni nel carcere di Ascoli Piceno contro i detenuti in regime di 41 bis  sui quali, allo stesso modo di quello che accade negli States  agli afroamericani, si ha licenza di sparare (nel nostro caso solo metaforicamente), tanto sono negri. I negri del 41 bis di Ascoli non possono contare neppure sui diritti riconosciuti dal Magistrato di Sorveglianza (si chiama così perche vigila che la detenzione si svolga secondo le regole), perché lo sceriffo con la pistola fumante nelle vesti del direttore si infischia del provvedimento del magistrato e lo disattende. L’autorità amministrativa in una delirante interpretazione del proprio ruolo si sovrappone al potere del magistrato, e, se il detenuto protesta, via con metodi intimidatori, tanto chi vuoi che intervenga in difesa del negro! In una sorta di giustizia sommaria tutti i detenuti del carcere di Ascoli in questi giorni vengono sottoposti ad una serie di punizioni perché  protestano contro la mancata concessione del loro sacrosanto diritto ad effettuare il colloquio con i figli minori senza l’impedimento del vetro divisorio, come previsto dalla legge. Cornuti e mazziati, come dicono a Napoli. Potete immaginare come guarderanno i giovani figli dei detenuti a questo Stato che invece di garantire il “giusto governo” (Bodin), perpetra l’abuso! Perché dovrebbero rispettarlo?
Il Ministro di Grazia e Giustizia che, sia detto per inciso, non ha battuto ciglio contro le affermazioni di Alfano e Grasso secondo cui le infiltrazioni mafiose nel comune di Roma ci sono ma il comune non va sciolto, che dice? Lo sceriffo di Ascoli è mafioso o no? E se si, va sciolto?

martedì 9 dicembre 2014

Loris e dello sciacallaggio



Un innocente è stato ucciso, disgustosamente trucidato in una maniera che evoca precedenti infami, e la sua morte manda in scena il solito grand guignol squallido e cialtrone che non ha rispetto per la sacralità di un dramma senza fine. Bisognerebbe che tutti avessimo il buon gusto di assumere un atteggiamento più sobrio di quello mostrato nella circostanza, di fronte ad una vicenda che ci coinvolge ma non ci da il diritto di dare la stura ai nostri peggiori istinti trasformando la scena della tragedia in una stia in cui starnazziamo vomitando in giro la nostra morbosità. Dovremmo starcene zitti e attoniti in rispettosa attesa dell’evolversi delle indagini invece di assecondare la nostra attitudine al cicaleccio che non si ferma davanti a nulla e trasforma un fatto reale e terribile in un miserabile talk show in cui facciamo a gara, con aria disgustosamente e falsamente compunta, a chi la spara più grossa pur di guadagnare la nostra fetta di visibilità. Quello che è accaduto a Loris può accadere a qualunque nostro nipotino e sfido chiunque ad affermare che accetterebbe senza fare una piega la fiera del pessimo gusto, l’assedio asfissiante e osceno che si sono scatenati attorno alla vicenda. Il dovere di cronaca, la foglia di fico con cui certi giornalisti, pur di guadagnare copie, coprono l’ansia di compiacere la morbosità della gente, in questa vicenda è andato ben oltre i confini del deontologicamente consentito, i limiti etici che, al di là delle regole, la nostra coscienza ci dovrebbe imporre. Si è spenta drammaticamente una vita e pare che non basti, si assiste ad una sorta di caccia al dettaglio pruriginoso in cui non c’è posto per la pietà, in cui la cronaca della vicenda si avventura senza tanti scrupoli nella narrazione di quello che la gente vuol sentirsi dire ed alimenta pruriti insani. La morbosa eccitazione frutto di un voyeurismo malato è cavalcata da un certo giornalismo senza regole contro il quale Piero Ostellino ci ha a suo tempo messo in guardia definendolo bassa  macelleria. Come vediamo, i fatti si incaricano di non smentirlo.

lunedì 24 novembre 2014

I giovani indegni


Questi giovani rampolli della mafia non la vogliono proprio capire e continuano a sfidare con la loro arroganza la Chiesa. Prima la nipote di Messina Danaro che ha preteso di sposarsi addirittura nella Cappella Palatina e adesso il figlio di Graviano che ha rischiato di profanare la Cattedrale provando a cresimarsi sotto queste sacre volte assieme ai suoi compagni di classe come se fosse un normale cristiano. Ce ne vuole di faccia tosta per sporcare con la sua presenza, lui, il figlio di un mafioso che non ha diritto all’innocenza, il clima che alita attorno alle spoglie del beato Padre Puglisi custodite nella basilica. Ma ci ha pensato il Cardinale Romeo a stoppare il colpo di mano, impedendo che si compisse un atto blasfemo che offendeva la memoria del santo prete. Il giovane si cresimerà certo, ma da solo in un clima di semiclandestinità, al riparo da occhi indiscreti, in una anonima parrocchia di serie B dove la Chiesa può fare incetta delle anime dei fedeli senza suscitare scandalo e senza offendere il palato delicato degli schizzinosi  deboli di stomaco. Ciò detto, ci chiediamo chi stoppa la demenza della Chiesa Cattolica che sta facendo una marcia forzata contro i principi di misericordia che l’hanno nutrita per duemila anni, verso una deriva rancorosa e secolare. Quale speranza è offerta a questi giovani che hanno avuto la sorte di nascere in un contesto problematico, se la Chiesa che dovrebbe accoglierli, li respinge e li abbandona alla mercé di valori negativi, senza la possibilità di conoscere un’alternativa al mito sciagurato nel quale sono cresciuti, con nell’animo il rancore per essere stati discriminati? Padre Puglisi con la cui santità amano sciacquarsi indegnamente la bocca i farisei, ha dato testimonianza di che cosa significa includere giovani problematici lottando per contendere alla mafia l’innocenza di quei giovani. Ha pagato con la morte il suo sogno e la Chiesa ha l’ardire di praticare l’esclusione di creature innocenti nel suo nome?
No Eminenza, Padre Puglisi non l’avrebbe approvata.

venerdì 21 novembre 2014

La bella Italia

L’Italia è ormai un Paese che appartiene a quanti riescono ad appropriarsene approfittando del vuoto di potere e realizzando con l’arbitrio il proprio privilegio. Sapendo che non c’è una sovranità certa in difesa dell’interesse generale, ognuno arraffa la fetta di potere di cui è capace e la piega agli interessi che rappresenta. Convinti che non siamo più una nazione, ciascuno si arrangia come può, sapendo di potere  contare ormai solo su se stesso e di non dovere rispondere ad una autorità sovrana ma esclusivamente all’imperativo del proprio “particulare”. È così che si è innescata una corsa alle scorciatoie più o meno lecite, declinate nelle forme più o meno invasive a seconda della elasticità delle coscienze, e si è determinata una disuguaglianza che non nasce dalla diversità dei doni fornitici da madre natura ma dalla spregiudicatezza che ciascuno mette in campo senza tanti scrupoli. Si è accentuata in questo modo la distanza tra le classi sociali che assegna ai furbi e ai potenti le zone franche del privilegio e dell’impunità e confina gli onesti e i deboli nelle retrovie della lotta per la sopravvivenza. In queste contrade l’espediente la fa da padrone , chi non trova lavoro si dedica al lavoro nero o a all’attività illecita, chi non ha casa occupa quella degli altri, chi non ha nulla da offrire alla propria famiglia taccheggia al supermercato. Nelle atmosfere rarefatte del privilegio, al contrario, caste e lobby si dividono le parti più nobili dell’animale lasciando ai paria le frattaglie, tutto nell’indifferenza di uno Stato che non c’è. Il Paese va in pezzi fisicamente come dimostra l’incuria con cui vengono trattati la natura e i nostri beni culturali, e va in pezzi la fiducia nello Stato di quanti ormai non si fanno più illusioni e si abbandonano al fatalismo che li degrada o all’illecito che li degrada ancora di più o li gratifica a seconda dei punti di vista. Non c’è un potere forte che sappia abbattere i costi che alimentano il debito pubblico e l’avidità dei privilegiati a guardia di rendite di posizione che, garantendo lo status quo, frenano la ripresa, che sappia liberare gli spiriti animali di una economia che, unica in Europa, continua recedere, che sappia sconfiggere l’inedia di una classe dirigente incapace di osare perché ripiegata su se stessa e priva di idee e di sogni. Tempi lunghi, lacci e laccioli, nequizie consolidate, energie sciupate, risorse inutilizzate, sono i protagonisti negativi di un Paese senza guida. Per non parlare dello stato di salute della giustizia. Il buon mugnaio tedesco ci aveva illusi che ci fosse un giudice a Berlino ma abbiamo appreso a nostre spese che in Italia nessun giudice difende nessun mugnaio. Le decine di condanne smentite da assoluzioni successive e le altre che, seppur  scritte nella evidenza del reato, non possono essere emesse grazie a complicità corporative o a processi andati fuori tempo massimo, testimoniano di una giustizia schizofrenica che consente impunità allo stesso modo in cui incoraggia impianti accusatori costruiti sul vuoto probatorio dall’intransigenza di taluni magistrati che hanno sostituito il libero convincimento con il libero arbitrio. Succede se nessuno paga e si fa strada la convinzione dell’onnipotenza con l’alibi dell’indipendenza, unita alla insipienza di un sistema giudiziario allo sbando, debole con i forti e forte con i deboli. E a proposito di deboli, un capitolo a parte è quello che riguarda la giustizia che colpisce i mafiosi. A scanso di equivoci e prevedendo le solite sortite in malafede dei “pasionari” del giustizialismo, dico che la giustizia deve essere severa nei confronti di un fenomeno che va combattuto senza tentennamenti, ma dico altresì che il rispetto delle regole deve valere anche per i mafiosi.  Accuse generiche che si fondano sul pregiudizio e colpiscono  comportamenti ritenuti moralmente discutibili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in azioni illecite, non possono avere patria in un sistema che poggi autenticamente sulla certezza del diritto. Processare la reputazione anziché il reato, significa processare il fumus, e di fumus il diritto muore. Siamo sempre là, tutto può avvenire perché non c’è uno Stato autentico che vigili ed eviti che mafia e antimafia regolino i loro conti come in una sfida personale.  Ho raccolto lo sfogo di un condannato per mafia che, dopo avere scontato la sua pena, attende di essere assegnato alle misure di prevenzione. Affinché le misure vengano adottate, occorre che il magistrato disponga di una relazione delle forze dell’ordine  sulla condotta dell’indagato, sulle sue frequentazioni, sui suoi contatti. I carabinieri incaricati di fare la relazione non hanno riscontrato nulla di illecito nel comportamento di costui, ma non si sono arresi di fronte all’apparenza di quella vita anonima e piatta, e hanno approfondito le indagini, scoprendo che il tizio … non lavorava. I solerti  carabinieri, ai quali, come è noto, non la si fa, hanno subodorato che qualcosa non quadrava, sicuramente c’era sotto qualcosa di illecito, e sennò come faceva questo signore a mantenersi non lavorando? E si sono precipitati a segnalare l’anomalia al magistrato. Peccato che il tizio abbia 75 anni, è pensionato e vive, seppure stentatamente, con la sua pensione e quella di sua moglie. Non solo ma, giusto per aggiungere carne al fuoco, nel fascicolo di questo signore è spuntata come per incanto una condanna che egli non ha mai riportato. Evidentemente la verità è una discriminante che vale in un modo o nell’altro a seconda che riguardi l’un cittadino o l’altro e, come si vede, in questo caso il nostro mafioso si è dovuto accontentare della verità apparecchiata con lo scopo di raggiungere l’obiettivo prefissato. Tanto chi volete che prenda le difese di un mafioso? Certo può accadere di più e di peggio, può accadere che un giovane entri in carcere e ne esca cadavere dopo avere subito una bella ripassata. La colpa viene accertata, i colpevoli no. I familiari strepitano ma sono destinati a farsene una ragione, in definitiva quel giovane se l’è cercata, non poteva che finire così uno che ha condotto una vita dissoluta, secondo la felice uscita di un funzionario dello Stato.
A questo punto la domanda è lecita: c’è qualcuno che sanzioni la disinvoltura dell’apparato investigativo con i suoi discutibili, conseguenti provvedimenti, che paghi per la morte di un ragazzo preso in consegna dallo Stato, che risponda delle speranze tradite di quanti si sono arresi alla rassegnazione e dell’innocenza perduta di quanti si sono ribellati rivolgendosi  al crimine e dedicandosi alla prepotenza di grande e piccolo cabotaggio, che si contrapponga all’arroganza dei potenti che si sono sostituiti allo Stato e scoraggiano ogni riforma, che sappia semplicemente guidare il Paese? Dove è il giudice a Berlino, dove è lo Stato autentico?
A questo Stato può accadere persino il paradosso di farsi bacchettare da un condannato per mafia. È  il segno dei tempi!