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lunedì 23 dicembre 2013

Buon Natale

Augurare Buon Natale di questi tempi non è facile. E non perché siamo attanagliati dalla crisi economica, o almeno, non solo per questo motivo. Vivere il clima natalizio non disponendo dell’essenziale dopo che anni di interpretazione consumistica del Natale ci hanno abituato all’eccesso, non è facile, non potere incartare l’affetto che sentiamo per i nostri cari con i colori vivaci di un pur modesto regalo natalizio, è frustrante, contare gli spiccioli che servono a sopravvivere, maledizione, anche a Natale, è devastante, non avvertire il desiderio di andare in Chiesa perché nel cuore c'è l’inferno, dà un senso di vuoto difficile da colmare. Ma non c’è solo questo, c’è di peggio. C’è che non viviamo solo una qualità di vita miserabile perché siamo poveri di mezzi economici ma perché al crepuscolo economico si somma un crepuscolo ancora più grave, quello delle nostre coscienze, della nostra cultura e della nostra onestà intellettuale che ha bandito il senso della giustizia da questo nostro disgraziato Paese, perché è venuta meno la pietà e l’obbedienza ai valori che rimandano al messaggio cristiano del Natale.
Quanti si riempiono la bocca con la nostra Costituzione, la “più bella del mondo” che trasuda “giustizia e libertà”, e ne decantano lo spirito prescrittivo tacciando di lesa maestà quelli che non la condividono, si guardano bene dal far sentire la loro voce indignata contro lo sfregio alla giustizia e alla libertà di cui si macchia proprio questo Stato che nella Costituzione affonda le sue radici.
Se per finanziare lo sperpero e la spartizione del malloppo tra i privilegiati delle lobby, il debito pubblico a carico di tutti si è involato fino al 134 per cento del Pil, se la forbice si allarga sempre di più tra i pochissimi ricchi e i sempre più numerosi poveri, se le straordinarie risorse che il Padreterno e l’ingegno dei nostri avi ci hanno regalato, la natura e le opere d’arte con l’indotto delle opportunità di lavoro che ne potrebbe derivare, sono allo stremo, se il welfare ha vieppiù garantito rendite di posizione consolidate e ha lasciato la maggior parte dei pensionati alla mercé dell’indigenza, dobbiamo ringraziare questo Stato ingiusto il quale peraltro non si è fermato alla sola ingiustizia sociale. E’ andato oltre aggiungendo alla ingiustizia sociale l’ingiustizia tout-court. Dobbiamo infatti a questo Stato il sovraffollamento delle carceri, le misure di sicurezza inumane figlie della inadeguatezza di un sistema di controlli incapace di coniugare sicurezza e umanità, la celebrazione di processi penali e civili infiniti che tengono la vita degli imputati sotto scacco per decenni e mettono a rischio il futuro delle imprese, l’imperversare di accuse infamanti che sfregiano reputazioni innocenti e di teoremi deliranti che oscurano la ragione e travolgono tutto ciò che non risponde ai canoni dell’ideologicamente corretto, la sterile gestione della lotta alla malavita nota sotto il nome di “cultura della legalità” che vede impegnati i soliti professionisti dell’antimafia nell’esercizio di una retorica roboante e vuota, la corsa all’intransigenza gratuita dei soliti mestatori di disgrazie che serve a lustrare il pedigree di personaggi in cerca d’autore lucrando sulla pelle dei figli di nessuno buoni per tutte le strumentalizzazioni.

Non c’è da stare allegri, vero? Quando penso al Natale penso agli anziani signori che portano stampati nel volto i segni dell’antica dignità e della attuale vergogna mentre rovistano nel bidone dell’immondizia. Ad essi e a tutti quelli che soffrono offro il mio cuore e la speranza di poterli aiutare in qualche modo, agli altri un logoro, stanco augurio di Buon Natale.

domenica 8 dicembre 2013

La morte di Mandela

La morte di Mandela ha scatenato la solita orgia retorica e offerto l’occasione per esercitazioni fuori tema. La figura di Mandela non merita di essere accostata alle miserie di casa nostra e invece la nostra politica priva di ritegno non ci ha fatto mancare il solito teatrino a spese della decenza. Hanno imperversato in tanti saccheggiando un personaggio dal quale dovevano stare alla larga e fra questi si è distinto Berlusconi non parendogli vero di cogliere l’occasione per prodursi in  una perorazione pro domo sua. Egli ha lodato Mandela ma subito dopo ha vestito i panni di Cicerone proclamando: “molti , tra coloro che in queste ore ne tessono le lodi, imparino a praticare quella riconciliazione nella verità e nel rispetto reciproco che è stato il suo più grande merito e la sua più grande vittoria”. L’invocazione è giusta, ma il pulpito non è credibile. Forse che Berlusconi è esente da colpe per questo clima di guerra strisciante e l’invocazione della conciliazione non appare in questo momento come la richiesta di un atteggiamento accomodante nei suoi confronti? 
Bene ha fatto Renzi a rispondergli riportandolo al senso delle proporzioni: “Non scherziamo, Mandela ha sofferto per 27 anni in un Paese in cui le panchine erano separate per persone bianche e di colore. Mandela è stato un premio Nobel per la pace, un pezzo della storia del ‘900: fare paragoni fra il Sudafrica e l’Italia è offensivo, parliamo di cose serie”.
Bravo Renzi, parliamo di cose serie ma proprio per questo, mentre bacchettiamo chi fa paragoni impropri, ricordiamoci che il Sudafrica produce uomini come Mandela e l’Italia uomini come Berlusconi e Renzi. Ricordiamoci soprattutto che in Italia anziché un Mandela che si misurava con un destino di sofferenza all’altezza del suo spessore, ci sono dei comuni disgraziati che si misurano e soccombono, al contrario di quanto è accaduto a Mandela, nelle miserabili sfide che sono costretti a combattere contro la sofferenza, l’ingiustizia, la povertà, le difficoltà e le tragedie più inaudite che si consumano nell’indifferenza e nell’anonimato. I signori che si riempiono la bocca con giaculatorie e duellano sulla proponibilità o meno di paragoni, ci spieghino come può accadere che nella civilissima Italia cittadini ormai allo stremo perdano ogni giorno di più un pezzo della loro dignità e siano costretti in numero sempre maggiore a lottare per la sopravvivenza quotidiana.

E’ vero caro Renzi, fare paragoni fra Sudafrica e Italia è offensivo, ma non perché l’ Italia non sia paragonabile al Sudafrica dell’apartheid, anche da noi esiste una apartheid che separa destra e sinistra, politica e magistratura, oligarchi e cenciosi, esiste un clima da guerra civile, e la necessità di una riconciliazione è imprescindibile per la realizzazione del nostro futuro. Il paragone più che offensivo, è improponibile perché in Italia non esiste un Mandela capace di porre fine a tutto questo, di pacificare gli animi, riportarli al senso della misura e dell’interesse generale e scongiurare un declino inarrestabile. 

venerdì 29 novembre 2013

La decadenza dello stile

La decadenza di Berlusconi si è consumata in un clima che il New York Times ha definito da “melodramma politico”. In effetti, quanto a melodrammi, noi italiani non ci facciamo battere da nessuno.
La vicenda del decadimento di Silvio Berlusconi da senatore poteva avere un epilogo sobrio  e invece non ci siamo fatti mancare la solita pagliacciata.
I meriti sono dell’una e dell’altra parte.
Berlusconi avrebbe potuto uscire di scena ( si intende istituzionale ) in maniera più dignitosa, accettando il principio etico ancora prima che normativo, che un condannato per un reato così grave non è compatibile con una carica pubblica. Anche perché l’esito era già scritto nella sentenza di condanna al di là della pronuncia del Senato. Solo in un Paese come il nostro c’è bisogno del benestare del Parlamento in presenza di una sentenza della magistratura. Se il Senato non avesse votato la decadenza, cosa sarebbe accaduto? Ci saremmo imbarcati in un conflitto fra poteri dello Stato il cui esito sarebbe stato peraltro scontato?
E, allora, perché Berlusconi non si è dimesso prima evitando la mortificazione dell’espulsione, terribile per chiunque e in particolare per un uomo che, bene o male, ha rappresentato l’Italia nelle massime istituzioni e doveva avere rispetto oltre che per sé anche per i propri elettori? Mistero!|
Il Senato non è stato da meno. Lo ha espulso truccando le carte, ricorrendo al voto palese invece del voto segreto da sempre utilizzato quando si vota sulla persona. Ha dato l’impressione che il ricorso al voto palese fosse un espediente per blindare il risultato e sbarazzarsi, senza correre rischi, di un personaggio scomodo. Roba da magliari!
Ma la storia ci insegna che i conti senza l’oste non tornano e certo non torneranno i conti di chi si illude di avere “sbiancato” definitivamente il caimano. L’uomo ha sette vite come i gatti e lo ha dimostrato e, in più, ha ricevuto una grossa mano dai suoi avversari, è stato consegnato alle sue truppe e all’opinione pubblica con le stigmate del martire, e questo avrà delle conseguenze. Vedremo alle prossime elezioni quale sarà il dividendo che incasserà Berlusconi.

Intanto guardiamo al risultato che abbiamo guadagnato nella considerazione del mondo intero che ci osserva come se fossimo degli alieni, leggiamo le corrispondenze della stampa estera e vergogniamoci.

lunedì 25 novembre 2013

Fiducia nello Stato

Ci sono mille motivi per non coltivare più illusioni su questa Italia. Ciascuno ha sicuramente un suo cahier de doléances da sfogliare e magari ci rinuncia vinto dalla rassegnazione.
Ed è proprio un sentimento di rassegnazione quello che ho percepito nelle parole di un mio ex compagno di detenzione col quale mi sono incontrato pochi giorni fa.
Mi ha raccontato di essere stato scarcerato perché riconosciuto innocente dall’accusa di omicidio, dopo avere scontato parecchi anni di detenzione e la gogna mediatica cui il clamore della vicenda e la notorietà del suo nome lo hanno esposto.
Si lamentava della disinvoltura con cui era stata sostenuta l’accusa, del carcere scontato, della cattiveria dell’opinione pubblica pronta a trasformarsi in carnefice, ma soprattutto si lamentava della lunghezza del processo.
Il mio ex compagno ha una sua cultura che ha avuto il tempo di maturare in carcere e mi ha impartito con competenza una lezione di diritto. Mi ha parlato di Beccaria e di come l’illustre giurista sostenesse che una sentenza, perché sia giusta, deve avere il requisito dell’immediatezza, affinché appaia evidente il rapporto di causa ed effetto tra reato e pena. Mi ha parlato di Veronesi e di come questi affermi che, dopo anni, l’uomo non è più lo stesso uomo di prima perché col tempo egli ha modificato il suo cervello e con esso il suo modo di pensare e di sentire, che per questo motivo una sentenza che tarda ad arrivare finisce per colpire un uomo completamente diverso dall’imputato originario ed ormai estraneo al processo.
Lamentava che i limiti previsti dalla legge per arginare la lunghezza del processo non valgono per tutti nella stessa misura. Si rammaricava il mio colto ex compagno, di come il nostro stupefacente Stato riesca a contraddire sé stesso e i principi costituzionali su cui si fonda, di come  la legge non è uguale per tutti e si incammina su binari diversi a seconda del suo destinatario. C’è, per esempio, il binario della prescrizione per gli imputati comuni, che si arresterà nella stazione che l’inefficienza dello Stato gli assegnerà, e c’è un binario al quale l’inefficienza statale non assegnerà mai alcuna stazione dove fermarsi e che si snoderà all’infinito attraverso le vite degli imputati di serie inferiore per i quali il diritto viene sospeso, il binario che nega la prescrizione ai reietti titolari di imputazioni mafiose.
Per questi il tempo non scade mai, di questi lo Stato terrà sotto scacco la vita impunemente e infinitamente, condannandoli non alla pena per le loro colpe ma al purgatorio per la propria insulsaggine. Con tanti saluti per l’art. 3 della Costituzione.
Appariva veramente provato il mio ex compagno e, ringhiando di rabbia, mi ha sibilato di non volere più riconoscere a questo Stato che gli ha fatto un torto irreparabile, a questo Leviatano indecente e illegittimo ( si è espresso proprio così ), il diritto di svolgere per suo conto le funzioni di rappresentanza e di garanzia, di volersi dimettersi da italiano e cercare altrove una nuova patria nella quale rifugiarsi.

L’ho visto allontanarsi curvo sotto il peso di ricordi che non lo abbandoneranno mai eppure ancora capace di sognare, e ho invidiato la sua innocenza, io che ho perduto ormai da tempo la capacità di coltivare illusioni. 

martedì 12 novembre 2013

Vuoti a perdere

E’ di qualche giorno fa la notizia che, dopo parecchi anni, due vicende giudiziarie si sono concluse con l’assoluzione degli imputati. La notizia è stata accompagnata da  interviste, da commenti indignati sul lungo calvario degli imputati, da lettere degli interessati ospitate generosamente sulle più importanti testate, da articoli sulla inciviltà della carcerazione preventiva, dalla descrizione del dramma vissuto e accompagnato da tentazioni estreme.
Come mai tanta enfasi in relazione a notizie, tutto sommato banali, che rientrano nella normale dinamica delle vicende giudiziarie ma che in genere vengono ignorate? Perché in questi due casi tanto clamore? Semplicemente perché questi casi riguardano illustri personaggi, l’ex sindaco di Firenze Domenici e l’ex governatore della Campania Bassolino. Anche l’indignazione ha le sue logiche inesorabili, a chi tanto, a chi niente! Lo dice lo stesso Domenici quando chiude la sua lettera ammettendo che “molti vengono stritolati senza neppure potere far sentire la propria voce”.  
Scusate se sono incontentabile ma non riesco a fare salti di gioia perché finalmente Domenici è stato folgorato sulla via di Damasco e, solo dopo avere vissuto sulla sua pelle l’esperienza di una vicenda giudiziaria dolorosa, ha maturato la sensibilità necessaria a scoprire che “delle inchieste si fa un uso cinico, che il sistema giudiziario italiano funziona male, che per la loro lunghezza i processi si svuotano di contenuto e alterano l’applicazione del principio di giustizia” e denunciare “l’impatto politico-mediatico delle inchieste e il ruolo del Pubblico Ministero”. Bravo Domenici, giusta la sua indignazione, ma le chiedo: perché insorge solo adesso e, soprattutto, si è mai chiesto se il mondo al quale lei appartiene è indenne da colpe per lo sfascio che denuncia?
Bassolino a sua volta è essenziale, lui non ha nulla da denunciare e si limita a raccontarci di come, provato dall’esperienza della sua vicenda, ha accarezzato l’idea del suicidio mentre era in vacanza sulle Dolomiti. Dunque l’on. Bassolino ha rovinato le sue vacanze pensando al suicidio, un vero e proprio dramma! Solo che la sua lacrimevole captatio benevolentiae, caro on. Bassolino, non convince, non la assolve dalle sue responsabilità politiche ed è un insulto all’idea della morte che accompagna autenticamente disgraziati costretti ad aspettare per anni l’esito della loro vicenda, non in comodi resort ma nel chiuso di una cella, con all’orizzonte lo spicchio di cielo consentito dalle gelosie anziché i cieli sterminati delle dolomiti, e che al suicidio molto spesso giungono realmente.
E mentre la piaggeria di una stampa attenta al tornaconto delle tirature, enfatizza miserabili sceneggiate tentando di coinvolgerci nella pietà per la sorte del potente in disgrazia, nessuno che si sporchi le mani, che scenda negli inferi dove si consumano vite umane, che, reprimendo il disgusto che sale alla gola, narri le storie spietate di uomini a perdere e denunci lo schifo che ci assedia. Agli uomini a perdere tocca fare i conti con la spietatezza dei cacciatori di taglie che nei loro confronti teorizzano soluzioni finali e pretendono, oltre al seppellimento del fisico e della coscienza, anche la damnatio memoriae.
La morale è che può accadere che la giustizia abbia un lapsus, dimentichi che essa ha a cuore solo l’interesse del più forte e colpisca inopinatamente anche i potenti, ma a questi ultimi concede la riparazione di una ribalta costernata e contrita, ai figli di nessuno solo la gogna e l’oblio.





   

mercoledì 6 novembre 2013

Don Rigoldi

Don Gino Rigoldi è un personaggio che non si discute. La sua storia parla per lui e ci dice che è un missionario delle carceri, da sempre impegnato a fianco di chi soffre.
Si può discutere invece il contenuto della lettera che ha indirizzato al Corriere della Sera in difesa del ministro Cancellieri. In essa egli afferma di stare dalla parte del ministro perché non ritiene scandaloso che questi si sia interessato a una donna ricca né che i ricchi possano avere amicizie su cui contare. E, quasi a teorizzare il valore assolutorio della competenza, aggiunge che “abbiamo finalmente un ministro concreto e competente, impegnato con grande determinazione a migliorare le incivili condizioni di vita dei detenuti italiani” con iniziative quali la cosiddetta legge svuota carceri, lo studio di pene alternative, di lavori di pubblica utilità, con la proposta delle celle aperte, con visite frequenti dentro le carceri e dialogo con i detenuti. Una sensibilità indiscutibile della quale va dato atto di contro a comportamenti di segno diverso di quanti l’hanno preceduto e che hanno esercitato il loro ruolo in chiave esclusivamente punitiva. Ma questo non vuol dire che la sensibilità del ministro si debba spingere fino a iniziative improprie. Non è scandaloso che “i ricchi  abbiano amicizie”, il fatto è che i ricchi hanno amicizie con i potenti che i poveri non si possono permettere, e anche questo non è scandaloso, ma quando i ricchi attivano le loro amicizie per ottenere ciò che altri non possono ottenere, questo è scandaloso. E il ministro che ha il diritto anche lui di coltivare affetti e amicizie, non ha il diritto di riversare su di essi il peso del potere che gli deriva dalla sua funzione pubblica e di privilegiare l’uno anziché l’altro. Quando Don Gino, a commento della frase del ministro ai familiari di Ligresti: “Contate su di me”, afferma che si tratta di una innocente espressione di umanità che lui stesso ha tante volte pronunciato per rassicurare i parenti dei detenuti, sembra dimenticare che, mentre egli mette in campo gli strumenti del suo cuore che appartengono solo a lui e li offre indifferentemente a tutti, il ministro ha utilizzato nella fattispecie un potere di tutti a favore di un singolo. E seppure non ha interferito nelle decisioni della magistratura, come credo, ma si è limitato ad allertare il DAP sullo stato di salute della signora Ligresti, è ugualmente venuto meno al doveroso distacco che il suo ruolo gli imponeva.
Tutto questo però non toglie nulla ai meriti di una donna che sta facendo tanto e che non merita la gogna che gli è piovuta addosso. Ne avessimo di ministri così preparati e appassionati, e la richiesta di dimissioni avanzata dalla opposizione la dice tutta sull’uso strumentale che si vuol fare di questo incidente anche a costo di danneggiare l’interesse comune privando la cosa pubblica di un suo rappresentante finalmente decente e all’altezza.

Il ministro deve continuare la sua opera meritoria imbrigliando le tentazioni familistiche della sua generosità e facendo di essa un’arma formidabile di tutela erga omnes. Come ha dimostrato di saper fare.

lunedì 4 novembre 2013

Il diritto a buon mercato


Affrontare la vicenda del voto con cui in Senato si deciderà della decadenza del sen. Berlusconi, è un esercizio rischioso perché si incappa puntualmente nell’accusa di essere berlusconiani per il solo fatto di intestarsi una battaglia che richiama al buon senso e al rispetto delle regole. Se c’è di mezzo Berlusconi, anche se le regole non vengono rispettate, non si può protestare se non si vuole correre il rischio di essere considerati manigoldi e suoi complici. Accetto questo rischio e vengo al dunque.
Nella Giunta per il regolamento si è deciso che la votazione per la decadenza di Berlusconi debba avvenire con voto palese. Da sempre al Senato, quando la votazione ha riguardato la persona, si è proceduto a scrutinio segreto perché si vuole garantire la tutela del singolo e la libertà di coscienza dei parlamentari. L’avere cambiato questo principio sancito dal regolamento e dalla prassi perché conviene ad una parte, significa piegare il diritto alle esigenze del caso per caso, in questo caso all’esigenza di far fuori Berlusconi, con tanti saluti per il valore universale della legge. Naturalmente le facce di bronzo autori della bella impresa, si sono precipitate a sproloquiare di trasparenza, di separazione tra vicenda giudiziaria e politica e, per bocca del sen. Zanda, di “votazione che non riguarda la persona ma i requisiti minimi di dignità degli eletti”. Sorvoliamo sulla disinvoltura del sen. Zanda e chiediamoci: ma la trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica è un totem al quale si deve sacrificare il rispetto della legge frutto della volontà popolare espressa attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, e siamo certi che la separazione tra vicende giudiziarie e politica è stata salvata nel momento in cui proprio una vicenda giudiziaria è stata utilizzata nell’interesse di una parte politica e per far ciò non si è esitato a piegare il diritto alla bisogna?
Il cinismo politico va bene ma non fino a questi livelli di spudoratezza che pretendono di trattarci da cerebrolesi.
Anziché di cinismo dovremmo parlare di lungimiranza politica e chiederci a chi giova lo sfascio creato da questa guerra senza esclusione di colpi. Il PD non ignora che c’è una grossa ( forse maggioritaria ) fetta della nostra società che non riesce ad avere una sua rappresentanza credibile. Ha tentato con Berlusconi e abbiamo visto come è finita. Frastornata e delusa essa rischia di finire tra le braccia dei tribuni del tanto peggio tanto meglio. Una democrazia non rappresentata pienamente è una democrazia incompiuta e giocare sporco mettendo in difficoltà i moderati dello schieramento opposto che hanno avuto il coraggio di emanciparsi da una tutela padronale e stanno tentando di intestarsi quella rappresentanza proponendosi in maniera ragionevole e costruttiva, è un danno per tutti. Il PD, se ha il senso del bene comune, non dovrebbe ignorarlo.
E passiamo ad un altro bell’esempio di logica di parte fornitoci dalla signora Cancellieri. La guardasigilli, raggiunta da una telefonata dalla compagna di Salvatore Ligresti, si mostra dispiaciuta per gli arresti di quest’ultimo e delle sue figlie, e fin qui nulla di male. Lei è amica della signora Fragni da sempre ed è legittimo che, in nome dell’amicizia, manifesti la propria solidarietà. Un poco meno legittimo e sicuramente meno opportuno è che il ministro di Grazia e Giustizia a proposito dell’arresto dica che “c’è modo e modo”, che “non è giusto”, che è “la fine del mondo”, si dichiari disponibile ( “qualsiasi cosa io possa fare tu conta su di me” ) e dimostri la sua disponibilità allertando due vicedirettori del Dipartimento penitenziario sullo stato di salute della signora Giulia Ligresti. Imbarazzante se poi apprendiamo che il figlio del ministro è stato dipendente dei Ligresti per un anno, giusto il tempo per maturare una liquidazione di 3,5 milioni di euro.

Ora di casi dolorosi sono piene le vicende giudiziarie del nostro Paese. Si potrebbe stilare un elenco infinito di drammi che si consumano in carcere, di disperati che convivono con il pensiero onirico latente del suicidio e non possono contare sulle premure del vice direttore del DAP allertato dal ministro, di ottantenni rassegnati a morire in carcere perché non riescono ad ottenere misure alternative, di disgraziati che rischiano la vita in preda a patologie che la struttura carceraria non si preoccupa di monitorare come è necessario, di ostaggi della infernale macchina giudiziaria inchiodati a decenni di calvario che giungono alla conclusione della loro vicenda per apprendere che sono innocenti oppure che sono colpevoli ma, nonostante ciò, hanno ugualmente diritto ad essere considerati innocenti perché sono ormai persone completamente diverse rispetto a quelle che hanno intrapreso, quindici anni prima, il loro viaggio kafkiano nel pianeta giustizia e in questi anni hanno coltivato una nuova vita alla quale vengono strappate per essere catapultate, spesso in età canonica, verso un inferno che non le riguarda più, di presunti innocenti che vengono riconosciuti definitivamente innocenti dopo avere pagato con la carcerazione preventiva una pena non dovuta, di paria che vivono una carcerazione ignobile, di familiari che hanno dimenticato il volto dei loro cari perché non hanno i mezzi con cui permettersi il lusso di un colloquio in carceri lontane. Mi fermo qui perché mi disgusta la retorica del pietismo, ma chiedo al signor Ministro: se non si è Mancino e non si può contare sul rapporto privilegiato con il Presidente della Repubblica per ottenere, sia chiaro, nel massimo rispetto della legge un interessamento da parte del suo consigliere, se non si è Ligresti e non si può contare sul rapporto amicale con il ministro di Grazia e Giustizia per ottenere, per carità nel massimo rispetto della legge, un attenzione particolare del Dipartimento Penitenziario, se si è dei signori nessuno, può Ella avere la gentilezza, signor Ministro, di fornire a questi carneadi l’indirizzo del potente al quale rivolgersi per ottenere di volta in volta una attenzione particolare su ciascun episodio di malagiustizia di cui proprio il dicastero da Lei guidato è il maggiore responsabile?   

venerdì 25 ottobre 2013

L’Italia a pezzi


Quando si parla di mafia si è soliti fare riferimento esclusivamente alla tradizionale criminalità organizzata rozza e sanguinaria connotata da stereotipi abusati. Si stenta a percepire che esistono mafie meno sanguinarie ma non per questo meno spietate che si annidano dentro lo Stato, nelle sue propaggini e in santuari insospettabili, le ciniche e raffinate mafie delle camarille e dei grumi di interessi, dei poteri fuori controllo, palesi o occulti, che producono guasti più devastanti di quelli prodotti dalla mafia tradizionale.
E’ all’attività di queste mafie che si deve lo stato di salute dell’Italia che non è esagerato definire comatoso.
Il quadro è presto detto.
Siamo un Paese in cui l’economia è ridotta al lumicino, che non ha più industrie degne di questo nome o meglio che, dopo la falcidia dei marchi d’eccellenza dell’industria italiana ad opera di gruppi stranieri, può contare su pochi capitani coraggiosi rimasti a resistere in una condizione di precarietà che non lascia sperare nulla di buono.
Se i gruppi stranieri vengono a fare shopping in Italia ma si rifiutano di lasciare i loro investimenti nel nostro Paese, se gli ultimi epigoni dell’imprenditoria italiana sono tentati di non resistere più, ci sarà un motivo.
Il motivo è l’inadeguatezza strutturale che la nostra classe dirigente ha determinato per inettitudine o obbedienza a interessi consolidati e disponibilità a prestarsi ad appetiti lobbistici.
Chi volete che venga da fuori a investire in Italia e perché le imprese italiane non dovrebbero essere tentate di trasferirsi altrove, visto che:
-          procedure infinite non garantiscono tempi certi sugli esiti di una pratica o di un contenzioso, una selva burocratica nella quale è difficile districarsi, una pressione fiscale fra le più elevate al mondo, sindacati potenti e irragionevoli, costi di lavoro onerosi, penalizzano l’attività delle imprese;
-          infrastrutture insufficienti e inefficienti, autostrade, porti ( siamo costretti a smantellare la Concordia fuori dall’Italia ), aeroporti, ferrovie, non garantiscono adeguati collegamenti;
-          lo Stato non paga i suoi debiti alle imprese e le costringe a fallire;
-          una finanza allegra e assistita dallo Stato si dedica a speculazioni cervellotiche e taglieggia le aziende.
E dove è la giustizia sociale in un Paese prigioniero di consorterie dedite agli interessi di parte? Anche qui il quadro è fosco:
       -    la boscaglia di leggi è terreno di caccia di una oligarchia che incrosta l’apparato statale, che
            orienta la produzione legislativa ispirando leggi caso per caso e la gestisce a piacimento nel
            suo percorso di attuazione, che di fatto governa più della politica;
-          le imprese statali e parastatali, gli enti pubblici, le banche, sono i luoghi dove imperversano
      a vita, di generazione in generazione, i soliti noti tanto incapaci professionalmente e autori
      di  disastri sui quali costruiscono impunemente le loro carriere, quanto capaci di curare l’in=
      teresse personale in preda a una insaziabile fame di prebende. Non siamo più neanche capaci
      di indignarci di fronte a emolumenti e pensioni d’oro che si cumulano e che hanno si una
      legittimazione legale ma non morale. Come si è potuta legittimare una così smaccata offesa  
      al senso della misura e al buon senso tout court?
 -    la distanza tra i pochissimi che possono tutto e i moltissimi che non possono nulla e pagano
      il fio, si allarga sempre di più;   
 -    lividi burattinai razziano nell’ombra senza controlli e senza pagare pegno.
E dove è la giustizia più in generale in un Paese in cui:
       -    la lunghezza dei processi tiene in sospeso per decenni la vita dei cittadini e la sorte delle
            imprese;
-          strutture carcerarie sovraffollate sfidano le leggi della fisica in spazi dove i corpi umani sono retrocessi al rango di polli in una stia;
-     i suicidi in carcere sono ormai una realtà che si ripete quasi quotidianamente;
      -     il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio grazie all’istituto della carcerazione preventiva
che fa scontare alla metà di essi una detenzione che, grazie all’assoluzione, si rivelerà non
dovuta;
-          i dannati sottoposti ai regimi della carcerazione speciale patiscono delle autentiche forme di
tortura che violano la carta costituzionale oltre che i principi universali del diritto;     
-          uomini e donne che hanno sbagliato ma che potrebbero essere recuperati grazie ad un programma di rieducazione, sono lasciati alla mercé della scuola del malaffare quanto mai attiva in carcere e, quando tornano in libertà, non trovano opportunità di lavoro e tornano a delinquere;
-          la magistratura è ormai un corpo separato ( non nelle carriere ) che, grazie al libero convin=
      cimento quanto mai discrezionale, ubbidisce a logiche proprie e non alla legge ed è protetta,           
come ha scritto qualcuno, “da una invulnerabile e iniqua irresponsabilità”.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti:
-          giovani senza futuro;
-          la genialità dei nostri talenti regalata a Paesi stranieri;
-          pensionati senza serenità e costretti ad accollarsi il mantenimento dei figli senza lavoro;
-          i fieri campioni di una borghesia che fu, retrocessi nel girone dei nuovi poveri;
-          ectoplasmi senza identità e cultura che non sanno cosa significa leggere un libro e si aggirano inebetiti fra le icone di una nuova mitologia priva di contenuti;
-          il nostro patrimonio culturale che cade a pezzi. Musei, biblioteche, reperti archeologici che erano il nostro vanto e rappresentano la buona metà delle testimonianze artistiche del mondo intero, giacciono in preda all’incuria. Quello che era al vertice del turismo internazionale, è diventato un Paese che arranca nelle posizioni di rincalzo;
-          una natalità che si è arrestata e ci propone sempre di più un Paese di vecchi condannandoci al rischio di estinzione;
-          inedia e mancanza di spirito di iniziativa, incapacità di coltivare speranze in un panorama che non offre opportunità.
Siamo ormai un guscio vuoto in cui si mescolano inettitudine, cialtroneria e la presunzione di una elite di maitres à penser che non hanno nulla da insegnarci e parlano solo a sé stessi, ebbri del loro autocompiacimento, avulsi dalla realtà e legati a miti frusti e duri a morire. Siamo un popolo privo di identità che non ha l’orgoglio dell’appartenenza, che ha privato i propri membri della dignità di cittadini e li ha trasformati da sudditi della legge in sudditi dell’arbitrio, che si è piegato sotto il peso della rassegnazione, che non ha obiettivi, mete da raggiungere e miti ai quali rifarsi, non ha il coraggio di osare e vegeta in attesa di non si sa che. Siamo un Paese nel quale il giornalismo dei Terzani e dei Montanelli che azzannava alle caviglie i potenti, ha lasciato il posto ad un giornalismo accomodante che si accuccia prono ai piedi del potente di turno e invece di raccontare la verità la crea secondo convenienza. E’ciò che rimane dell’Italia di un tempo che fu e che i nostri figli non hanno fatto in tempo a conoscere, un Paese dove non abita più il nostro cuore, in cui il patto sociale è stato tradito dal Leviatano che ha rovesciato il tavolo e ha stabilito che l’unico interesse lecito è il suo, in cui una mafia scaltra, paludata, invasiva, subdola, sgusciante e impunita, si è macchiata di un crimine molto più grave di quelli commessi dalla sanguinolenta e stupida mafia tradizionalmente intesa, ha ucciso una nazione.

Qualcuno si chiederà dove è la politica che dovrebbe guidarci. La politica è un oggetto misterioso vuoto di idee e di contenuti, espressione di un popolo che non esiste più, prigioniero di un potere che risiede altrove, è una entità informe sulla quale non vale la pena di spendere una parola.

lunedì 21 ottobre 2013

I delinquenti da salvare

Grazie a Dio c’è ancora qualcuno che si ricorda che esistono diritti fondamentali sui quali non si può transigere e si batte affinché anche a quanti hanno commesso reati sia concessa, senza mettere in discussione la legittimità della carcerazione, la tutela della loro dignità e l’opportunità di redimersi. Lo so che è difficile condividere una simile battaglia perché i detenuti sono percepiti con un senso di diffidenza quasi che il loro errore li abbia resi degli appestati dai quali stare alla larga. A pochi passi da casa nostra si consumano realtà drammatiche che ignoriamo perché non le conosciamo, o perché, pur conoscendole, le viviamo con un senso di disagio e tendiamo a rimuoverle. E allora è opportuno proporre le testimonianze di personaggi che, data la loro statura, non autorizzano alcun retro pensiero.
Ecco alcuni stralci di una lettera inviata al Corriere della Sera dal professor Umberto Veronesi, oncologo di fama mondiale e alta coscienza morale:
“ Caro direttore, il messaggio del Presidente Napolitano sulla situazione umanamente inaccettabile delle nostre carceri e sull’opportunità di adottare provvedimenti di emergenza è in linea con l’evoluzione civile e il progresso culturale del nostro Paese. Il Movimento Scientifico for Peace – che riunisce intorno all’obiettivo di opposizione ad ogni forma di violenza sull’uomo molte donne e uomini di scienza, fra cui 21 Premi Nobel – appoggia la proposta del nostro Presidente, che va molto al di là di un gesto politico. In primo luogo è un atto di tutela della nostra Costituzione, che all’articolo 27 recita: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e all’articolo 13 ribadisce: “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
Ma le nostre carceri traboccano di detenuti costretti a vivere in condizioni disumane e molti di loro sono in attesa di giudizio, quindi soltanto presunti colpevoli. ……..E’ legittimo togliere ad un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità……..Crediamo in una giustizia non vendicativa ma rieducativa……..La vendetta, che si accompagna al desiderio di violenza e di sopraffazione, appartiene alla legge del taglione……..Esiste per tutti gli esseri umani, in possesso di cellule staminali proprie, la possibilità di cambiare, di ravvedersi…..,  la persona che abbiamo messo un giorno in prigione potrebbe non essere più la stessa, cinque o dieci anni dopo, se la sua mente è stata educata. Ma come prendersi cura di una persona in una situazione di sovraffollamento e degrado?.........Il sistema scandinavo che considera il carcere una misura estrema, intesa, appunto, come scuola di recupero, che non ha nulla di punitivo e tantomeno vendicativo” adotta “per la maggior parte dei reati altre misure, arresti domiciliari,sanzioni, servizi sociali. Il risultato è un tasso di criminalità e soprattutto di recidiva molto basso”.
Mi pare che non ci sia molto da aggiungere se non che anche sul tema del sovraffollamento nelle carceri noi italiani non siamo capaci di porci con animo sereno e su di esso riversiamo una certa gaglioffaggine che ci fa essere crudeli persino nei confronti della sofferenza. Allenati a preoccuparci di ciò che conviene a noi, in nome dell’ interesse di parte e di una forma di crudeltà gratuita, abbiamo educato il nostro animo ad una intransigenza che strumentalizza tutto, anche il dolore.
Dopo il messaggio del Capo dello Stato, abbiamo assistito alla fiera dell’ovvio dei soliti politici attenti a cavalcare, per motivi di bottega, gli umori dell’opinione pubblica disorientata da un problema che non conosce veramente, piuttosto che a spiegare che cosa è giusto fare in nome della nostra civiltà giuridica e della nostra coscienza civile come ci ammonisce il Professor Veronesi.
Al signor Renzi che ha definito l’amnistia e l’indulto un autogol e a quanti sono insorti contro queste misure di clemenza, raccomando la lettura della lettera del professor Veronesi.

mercoledì 16 ottobre 2013

Addio alla pietà atto secondo

Torno a parlare di pietà dopo aver letto le proteste di quanti lamentano il dilagare della retorica dell’autoflagellazione nei commenti alla tragedia di Lampedusa. Poiché anche io mi sono autoflagellato, voglio chiarire che cosa intendo quando affermo di avvertire un senso di colpa. Mi sento colpevole non perché mi attribuisco responsabilità per le tragedie che si consumano quotidianamente nel canale di Sicilia, ho troppo il senso della misura per pretendere di aspirare a colpe di cui non sono all’altezza. So bene che le responsabilità sono altrove. Esse risiedono nella collusione con i mercanti di carne umana degli stati canaglia che aprono le maglie dei controlli e lasciano che dalle loro coste si riversino in mare disperati destinati, per la maggior parte, a morte certa, risiedono nella incapacità degli stati europei di trovare un terreno di intesa e opporsi coesi agli stati canaglia o scoraggiare le rotte degli scafisti con sbarramenti ai confini delle acque territoriali dei Paesi del nord Africa e soccorrere se necessario. Eppure, nonostante non abbia precise responsabilità, mi sento ugualmente colpevole. Mi sento colpevole perché sono cittadino di questa Europa senza anima, perché avverto il disagio della mia condizione di privilegiato, perché i miei neuroni specchio mi inducono alla solidarietà nei confronti di miei simili sfortunati e la mia inadeguatezza non riesce a tradurre in atti concreti la mia solidarietà, perché non sono accanto ai lampedusani a soccorrere i naufraghi. Vi assicuro che la mia non è una forma di buonismo peloso, è che mi sento veramente così e non ci posso fare niente. Mi sento persino colpevole perché percepisco che la mia pietà prima o poi si scolorirà nella lontananza dei ricordi.
E già la pietà, questo alibi con cui puliamo la nostra coscienza, finisce puntualmente per anestetizzarsi a contatto con le brutalità della vita e trasformarsi in indifferenza come ci ammoniscono gli esempi che ricorrono frequentemente nel cosiddetto consorzio civile.
Un grigio parlamentare pentastellato, miracolato dalla sorte e proiettato dall’anonimato alla sua alta funzione da quel demiurgo mediatico che è la rete, ha dimostrato tutto il suo valore dando addosso al Cavaliere ormai in ginocchio con un linguaggio spregevole in tono con il personaggio che è, un parvenu al quale non pare vero di potere infierire sul potente in disgrazia.
Per non parlare delle penne intinte nel curaro dei manettari di professione che hanno costruito per vent’anni le loro carriere sulle gesta del Cavaliere e non si rassegnano al suo declino e alla conseguente assenza di altre frecce al loro arco. Sono a corto di argomenti e, in preda al panico,  pestano forsennatamente nel mortaio quella poca acqua che è rimasta del mare magnum in cui hanno guazzato. Nessun rispetto, nessuna pietà.
Il signor Renzi è un altro esempio di pietà smarrita. In occasione della presentazione del suo programma politico ha esordito dicendosi contrario alla proposta contenuta nel messaggio alle Camere del Capo dello Stato di sfoltire l’affollamento nelle carcere licenziando provvedimenti di amnistia e indulto. Il nostro sostiene che questi provvedimenti sono un autogol, si dichiara solidale con i detenuti tanto è che si arrischia a viaggiare a bordo di una bicicletta costruita in carcere, ma lascia intendere che un conto è concedere l’onore delle proprie terga ad una bicicletta costruita dai detenuti, un altro conto è concedere loro condizioni di vita umane con provvedimenti di clemenza. Il coraggio va bene ma fino a un certo punto. Ora dovrebbe essere chiaro al signor Renzi che l’amnistia e l’indulto non sono un regalo ai detenuti, sono semmai la testimonianza del fallimento della nostra classe dirigente che ha confezionato condizioni di vita inumane in carcere e non è in grado di offrire a uomini che hanno sbagliato ma che ancora hanno la dignità di cittadini, altre soluzioni che non siano l’amnistia e l’indulto ad un problema così grave. 
L’ amnistia e l’indulto non risolvono definitivamente il problema ma le condizioni dei nostri detenuti non ci consentono, specie in seguito alle procedure di infrazione inflitteci dall’Europa, di essere troppo schizzinosi. Lo scalpitante enfant prodige del PD che ha parlato di provvedimenti diseducativi, dovrebbe spiegarci perché è difficile “far capire ai ragazzi il valore della legalità se ogni sette anni facciamo uscire la gente dal carcere” ed è invece facile lasciare marcire la gente in carcere in condizioni inumane senza porsi il problema della legalità. Forse che la certezza della pena deve essere intesa come inflizione di torture? Dovremmo essere più cauti con le professioni di intransigenza quando non ce le possiamo permettere.

E’ una questione di onestà intellettuale oltre che di pietà.  

venerdì 4 ottobre 2013

Una nuova speranza

Devo riconoscere di avere preso un abbaglio. In passato non sono stato tenero nei confronti di Angelino Alfano ma oggi debbo ricredermi. Naturalmente non cambia il mio giudizio negativo sul suo giustizialismo ma cambia la mia prospettiva sulla sua statura di uomo politico: bisogna dirlo, ha saputo prendere la decisione giusta al momento giusto smarcandosi dalla miopia di Berlusconi.
Preso dal panico per la sua sorte personale, Berlusconi non ha avuto la lucidità per giocarsi la partita avendo come bussola una visione alta del suo ruolo, non ha saputo uscire di scena a testa alta. Doveva capire che giocare allo sfascio non giovava alla sua vicenda personale e all’interesse comune e che anzi era un modo per danneggiare irreparabilmente il suo partito oltre che la sua già compromessa immagine.
Quando, a proposito di Alfano, si parla di parricidio, si ignora che è stato invece Berlusconi, come Crono, a mangiare i suoi figli. Alfano ha avuto il merito di capire l’irrazionalità della decisione di Berlusconi e di essersi saputo opporre ad essa. Ma c’è di più, ha condotto la sua battaglia con fermezza ma anche con sobrietà,  senza cadere nella tentazione dell’acrimonia nei confronti dei suoi avversari dentro il partito, senza mordere la mano di chi in passato lo ha sdoganato dal suo destino di peone anonimo e lo ha proiettato verso un ruolo così ambito anche se lo ha definito privo del necessario “quid”, senza toni trionfalistici anche quando appariva chiaro che aveva trionfato, vivendo la contrapposizione con Berlusconi con l’aria dolente di chi stava soffrendo per una contesa che riteneva necessaria ma che lo lacerava. Ha accettato la vittoria quasi con riluttanza e ha fatto capire che, pur tenendo distinti l’ambito politico dall’ambito personale, sarà a fianco di Berlusconi nella sua battaglia personale. Un esempio di stile e di eleganza che gli fa onore.
Inoltre si sta muovendo con avvedutezza dimostrando di sapere gestire la vittoria dopo averla conseguita, non prendendo decisioni affrettate ed evitando spaccature definitive e insanabili. Insomma si sta muovendo con il piglio di un autentico leader. C’è da scommettere che riuscirà a ricomporre la frattura fra le due anime del PDL, tenendo a bada innanzitutto gli estremismi dei suoi seguaci, e che riuscirà a prendere in mano l’intero partito, auspice Berlusconi nella veste di padre nobile che mostrerà la sua generosità concedendo il viatico al suo delfino pur sempre partorito dal suo intuito. L’uomo è capace di questi colpi di scena.

Nel campo avverso del PD appare chiaro che l’ennesima capriola di Berlusconi non è stata gradita. Anche lì ci sono anime diverse e contrapposte. C’è chi ha accolto la decisione di Berlusconi di concedere la fiducia all’esecutivo con la stizza di chi teme di non essersi sbarazzato del tutto di Berlusconi. Con questi bisognerà fare i conti quando vorranno appendere il nemico a testa in giù, ma c’è anche chi ha saputo leggere nel modo giusto la mossa di Berlusconi prendendo le distanze dalle sirene del suo voto di fiducia e parlando di maggioranza politica piuttosto che numerica ma mettendo in chiaro che non promuoverà né leggi ad personam né leggi contra personam. Sulla ragionevolezza di quest’anima del PD si potrà contare per evitare rese dei conti che non hanno ragione d’essere, per concedere l’onore delle armi ad un avversario sconfitto e magnanimità ad un uomo che sta vivendo un dramma personale, per non ostacolare la bella novità di un politico, Alfano, che si sta adoperando per la creazione di una nuova destra e per far nascere una democrazia normale in cui ci si confronta civilmente nell’interesse del Paese.
Addio alla pietà

Stamattina trecento esseri umani hanno bussato alla mia coscienza di europeo cristiano ed erede dei lumi e mi hanno chiesto notizie a proposito dei diritti umani. Ho avvertito la sgradevole sensazione di avere coltivato un mito senza misericordia e di essere retrocesso nel limbo degli impotenti costretti a prendere atto della propria inadeguatezza.
Trecento morti alle porte di casa nostra sono una sconfitta per ciascuno di noi ma sono soprattutto una sconfitta per la civilissima Europa orgogliosa delle sue conquiste nelle dorate contrade della sua opulenza, chiusa nei recinti del suo egoismo, che bacchetta con farisaica prosopopea l’Italia per le sue infrazioni ai canoni del bon ton europeo, ma lascia questa stessa Italia sola alle prese con l’orda di infelici che assediano i confini a sud della Sicilia dimenticando che sono confini europei.
Non salgo sul pulpito starnazzando con aria scandalizzata, perché sono il primo a chiedermi che cosa ho fatto per questi miei simili più sfortunati e a riconoscere la mia incapacità. L’unica capacità che ho è quella di percepire un senso di colpa e di chiedere conto a chi ha il dovere e gli strumenti per prevenire una simile tragedia, del perché  non lo ha fatto. Centinaia di disperati alla mercé di pochi scafisti incompetenti e senza scrupoli sono una realtà ricorrente e nota a tutti, come è possibile che nessuno abbia in qualche modo posto rimedio a questa insensatezza ed evitato tragedie annunciate?

So che i migranti che riescono ad approdare sulle nostre coste, finiscono per confluire e fermarsi per la maggior parte nei Paesi del nord Europa dove trovano una sistemazione più dignitosa rispetto a quella offerta dall’Italia, ma questo riguarda l’eccellenza organizzativa e il welfare di quei Paesi, non il loro cuore che con pilatesca indifferenza resta sordo alle tragedie che si consumano alla periferia d’Europa. Con queste tragedie si misura la sensibilità e la generosità della nostra gente che incrocia il proprio destino con quello di sconosciuti e conosce una sofferenza che non gli appartiene ma che fa sua, impegnandosi a fianco di uomini e donne sventurati nella battaglia per contendere la vita alla morte e piangendo calde lacrime quando deve arrendersi alla morte. 

martedì 1 ottobre 2013

La casta

Partecipano agli stessi rituali e si muovono nei loro recinti dorati. E’ la casta dei noti e meno noti che si aggirano con passi felpati nelle ovattate stanze del potere e guardano al resto dell’umanità con compatimento. Occupano le cadreghe che contano e se le scambiano a turno in attesa di cederle agli eredi, parcheggiano le loro natiche nei circoli esclusivi, organizzano convegni in cui l’unico pass è il quarto di nobiltà piuttosto che la competenza e cinguettano con la erre blesa simbolo di una sciccheria cui li obbliga il rango. Hanno sostituito Marx con Keynes e, all’insegna del loro nuovo mito, hanno pompato la spesa pubblica con l’alibi della redistribuzione e ne hanno fatto la greppia con cui hanno soddisfatto i loro appetiti e scardinato il sistema.
Mentre continua ad aumentare il numero dei nuovi poveri che rovistano nei contenitori dell’immondizia, mentre i pensionati non arrivano più neanche alla terza settimana del mese e i “giovani” attempati bivaccano in casa dei genitori meditando sulla precarietà del loro futuro, mentre le aziende falliscono a causa del mancato incasso dei crediti vantati nei confronti dello Stato reso insolvente dall’allegro saccheggio del denaro pubblico, i nostri veleggiano in mari tranquilli a bordo di barche lussuose, fottendosi della moralità ma in compenso ostentando moralismo. Con la stessa improntitudine con cui mescolano la supponenza culturale dei pochi con la tendenza modaiola dei molti cortigiani incolti, con cui vestono casacche dimesse giocando a fare i progressisti al riparo del loro mondo dorato e pretendono di far calare dall’alto quel che hanno stabilito essere utile all’interesse del popolo bue, i sacerdoti dell’ortodossia politica e sociale vivono una concretissima vita di privilegi, esibiscono con nonchalance i feticci effimeri dell’apparire, spendono  per l’acquisto del ninnolo di tendenza la somma che serve a un cassintegrato per vivere un mese, sacrificano sull’altare della loro presunzione il destino di tutti con decisioni che si traducono puntualmente in disastri.
Le cerimonie con cui  i boiardi del sistema istituzionale e intellettuale lucidano il pedigree dei nocchieri che hanno mandato la nave a incagliarsi, sono altrettante manifestazioni di una sfrontatezza esibita senza alcun pudore.  
In questo clima si sta consumando il dramma/farsa di una crisi istituzionale che appare senza ritorno, con al centro un velleitario e sprovveduto Berlusconi che si è chiamato fuori dalla casta pretendendo di sostituirsi ad essa e di combatterne i poteri e che ha finito per cacciarsi in un cul de sac.  In preda ad un evidente stato confusionale è transitato dalla tagliola della casta a quella dei cattivi consiglieri ed è riuscito nell’impresa di fornire un assist provvidenziale a quanti, in concorso con lui, hanno sfasciato l’Italia ma, grazie al suo passo falso, possono assumere l’aria innocente di chi è capitato nei paraggi per caso proponendosi nelle vesti dei soli che hanno a cuore il bene del Paese e si stanno adoperando per porre rimedio ai guasti fatti da Berlusconi.

Un bel capolavoro, non c’è che dire!

mercoledì 25 settembre 2013

Don Mazzi

Don Mazzi è noto per essere il fondatore di Exodus comunità benemerita che nasce come centro di recupero dei tossicodipendenti e che, col tempo, ha allargato la sua missione al recupero dei peccatori in genere. Un programma ambizioso quanto è ambizioso il suo apostolo che non perde occasione per esternare, spesso sovrapponendosi al suo progetto. Basta seguire i talk show per vederlo impegnato in appassionati dibattiti.  La sua ultima esternazione riguarda Berlusconi al quale il nostro ha rivolto l’invito di espiare la condanna ai servizi sociali nella sua comunità. Di questo noto peccatore il debordante prete dice di volersi occupare in prima persona ma, prima di occuparsene, ci fa sapere cosa ne pensa: “ Berlusconi almeno nell’ultima parte della sua vita può finalmente smontare il suo idolo e trovare il modo di fare cose utili “ e ancora: “ Deve liberarsi di tutte quelle donnacce che ha avuto intorno fino ad ora. Deve smettere di fare il personaggio idolatrato e così anche noi smetteremo di maledirlo “ e ancora, sempre su Berlusconi: “ Nessuno ha dentro una bestia che non può essere abbattuta “. Sul rapporto di Berlusconi con la Pascale poi il nostro Savonarola è ancora più tranciante: “ Si vede che quello di Berlusconi con la Pascale è tutto tranne che amore “ e a proposito della Pascale:  “ Vada a lavorare a Napoli in pizzeria“.
Non sono tipo da scandalizzarsi facilmente, ma debbo ammettere con un po’ di sconcerto che non mi aspettavo il dispiegamento di tanta saccenteria né che un prete confessasse in tutta tranquillità di avere maledetto un suo simile. Sono fermo al Vangelo che  parla di un Cristo che non giudica e perdona, mi risuona nella mente la frase: “ Chi sono io per giudicare? “, mi sto appena riconciliando con la Chiesa grazie a un Papa che predilige la pastorale alla dottrina e ci fornisce ogni giorno esempi di umiltà, ed ecco che un prete sale sul pulpito, ci impartisce lezioni di morale come un qualsiasi bacchettone e mette in crisi un cammino faticosamente percorso.

I preti come Don Mazzi che sono animati dalla voglia di esibire il loro ego e inciampano nella loro foga moralistica dimenticando il verbo evangelico, dovrebbero dismettere la loro tonaca. Gli saremmo grati lo stesso per le opere di beneficenza che compiono e gli perdoneremmo il peccato della vanità nel quale spesso i comuni mortali incorrono. A un laico si può, ad un prete no, a un prete non si possono perdonare le debolezze dei laici, da un prete ci aspettiamo sobrietà e specie da quelli di frontiera, come Don Mazzi, ci aspettiamo che tengano a bada l’autocompiacimento e la tentazione di maramaldeggiare con pruriti moralistici. Salvare vite umane non autorizza a ritenersi unti dal Signore, il demiurgo è solo nella mente di Platone.

martedì 17 settembre 2013

Italiani brava gente

La rissa tra destra e sinistra ci dà la misura del livello d’eccellenza raggiunto dalla nostra politica. Un esempio ci viene fornito da Renzi il quale, con una battuta da bar dello sport, ha dichiarato che, in caso di elezioni anticipate, “asfalterà” il PDL. Non c’è che dire, una bella dimostrazione di stile da parte di chi aspira a guidare il Paese!
Viene da chiedersi in che modo riuscirà a funzionare la democrazia rappresentativa in un Paese che non ha più rappresentanti in grado di rappresentare alcunché al di fuori della loro improntitudine.
Come si è arrivati a questo punto? Senza farla troppo lunga, si può senza dubbio dire che tutto nasce dalla mancanza di una identità del popolo italiano, incapace di munirsi durante la sua storia di un profilo che ne determinasse in via più o meno definitiva i connotati. Siamo un popolo senza Patria se per Patria si intende comunanza di ideali che contemperi le diversità, siamo apolidi e privi di un sogno comune.
Quando siamo nati come nazione, potevamo scegliere tra illuminismo ideologico e illuminismo pragmatico, tra la dottrina che avrebbe prodotto i dispotismi del Novecento e quella che stava producendo le grandi democrazie liberali.
La sinistra italiana ha imboccato la prima via e ha issato una bandiera che la storia si è incaricata di sbrindellare ma che non ha impedito agli sconfitti di assumere una identità orgogliosa e continuare a esibirla sostituendo il loro sogno fallito con la rivendicazione di una pretesa superiorità morale e culturale. Il vecchio Partito Comunista Italiano, quando ha pattuito con la Democrazia Cristiana la spartizione del patrimonio della Repubblica, si è accaparrato i santuari della cultura e ha posto le basi per orientare la coscienza della gente e determinare che cosa è politicamente corretto. Da quel momento è stata una corsa alla manipolazione in cui sono state impiegate le leve sfornate nelle fucine dei centri culturali appaltati dalla sinistra, i giornali, i maitres à penser, alcuni magistrati, tutti protesi a normalizzare le coscienze e a costruire le “verità”.
Dall’altra parte non c’è stata altrettanta vivacità e lungimiranza. Dopo gli approcci autenticamente liberali di Cavour e il decennio giolittiano, la destra italiana è stata travolta dagli eventi e dalla sua insipienza. Il corpaccione senza anima e senza identità della nostra borghesia ha, tutto sommato, accettato il fascismo e, nel dopoguerra, tenuta insieme unicamente dal collante dell’anticomunismo, si è fatta rappresentare dalla Democrazia Cristiana che tutto aveva tranne una vocazione liberale. Si è riaffacciata sulla scena nel 1994 per esprimere Berlusconi e in questa scelta ha palesato la sua anima mercantile, incapace di volare nei cieli di ideali universali. Priva di una identità culturale legata a tradizioni che altrove, in Europa e nel mondo, hanno partorito solide democrazie, attenta al proprio particulare, ha espresso quello che si meritava, quel Berlusconi che non ha realizzato le riforme epocali promesse, che ha barattato le garanzie di tutti con leggi e ad personam, che, in tema di giustizia, ha emanato leggi liberticide cavalcando una intransigenza che serviva a lustrare la sua reputazione compromessa, fottendosi dei diritti fondamentali ai quali ci richiamano le censure dell’Europa, e dimenticando i proclami liberali con cui si riempie la bocca. Alla fine la legge del contrappasso gli ha presentato il conto e l’on. Alfano dovrebbe avere i l buon gusto di non affliggerci con i suoi starnazzamenti sul diritto sfregiato, lui che da ministro di Grazia e Giustizia ha contribuito a sfregiarlo. Robespierre ha trovato qualcuno più giustizialista di lui.
Ma destra e sinistra hanno perduto entrambi la partita. Padrona del campo è rimasta solo la casta dei magistrati. Come giustamente osserva Angelo Panebianco, “il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica…..e quando diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione”. La coazione che è pur sempre una violenza, va usata quando è assolutamente necessaria e su ciò bisogna vigilare.
E invece una politica tremebonda e in preda ad una sorta di cupio dissolvi, anziché vigilare, si è persino privata dell’immunità e ha consegnato sé stessa e il Paese nelle mani di un Potere senza controllo che può decidere a suo piacimento di “regolare i rapporti sociali” e di determinare la sorte di vite umane e di imprese.





giovedì 5 settembre 2013

I pruriti moralistici

I pruriti moralistici sono le ipocrisie con cui ci produciamo in fughe in avanti agitando la presunzione di una etica superiore.
Un esempio di ipocrisia istituzionale è quello fornitoci dalla nostra Costituzione che all’art. 3  recita così: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Prima dei nostri padri costituenti ci avevano pensato Hobbes e Hegel a teorizzare lo stato etico e non si sentiva certo il bisogno che la nostra Costituzione, grazie allo zelo di alcuni suoi redattori campioni di una ideologia dura a morire, fornisse ai cultori del diritto teleologico l’alibi per imperversare con la pretesa di redimere il mondo e sciogliere il nodo uguaglianza o libertà a favore della prima.
I pruriti moralistici hanno inoltre generato una casta moralmente superiore che esercita il razzismo etico, divide gli uomini in buoni e cattivi e stabilisce la primazia dei principi che devono regolare il mondo. Grazie all’equivoco dei buoni propositi uomini da cui dipendono le nostre sorti ci hanno catapultato nel buio di un tunnel di cui non vediamo l’uscita. Dilettanti della ragione che barano con i buoni sentimenti ci hanno mandato allo sbaraglio perché non hanno saputo adottare l’arte del possibile ed essere, quando era il momento, giustamente cattivi.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. In nome delle buone intenzioni i nostri governanti hanno sperimentato un qualunquismo egalitario e ci hanno apparecchiato la forbice allargata a dismisura di una diseguaglianza sempre più accentuata, spalmando, in questo caso in misura veramente uguale, la cosiddetta decrescita felice Sullo scenario internazionale i pruriti moralistici hanno prodotto guai ancora maggiori. Incerti tra Antigone e Macchiavelli, i potenti della terra alla fine hanno fatto la scelta peggiore. Rincorrendo pietismi nei confronti di un terzo mondo vessato dai tiranni, si sono prodotti in una strategia confusionale che ha sostituito il male col peggio, hanno pasticciato sul vero senso della politica e, infischiandosi della ragion di Stato e degli interessi superiori, ci hanno regalato l’Iraq, la Libia, l’Egitto e per ultima la Siria, una via senza uscita nella quale Obama si è cacciato sproloquiando di linea rossa e di principi morali.
Non voglio certo tessere l’elogio del cinismo e chiudere gli occhi davanti all’orrore di innocenti massacrati da Assad con le armi chimiche né ignorare gli ideali di libertà che anche nel mondo arabo hanno dato segni di vita. Pur avvertendo il terribile valore simbolico delle morti procurate dall’impiego di gas chimici, non dobbiamo scandalizzarci per esse più di quanto non ci scandalizziamo per quelle più numerose procurate dalle armi tradizionali, e dobbiamo essere più cauti nelle scelte proprio per il rispetto dovuto a quegli ideali. Gli aneliti di libertà rivendicati dai giovani della primavera araba sono costretti a misurarsi con la realtà di un conflitto tra fazioni che con la libertà non hanno nulla da spartire, e una presa di posizione a favore dell’una o dell’altra parte non è sempre la scelta a favore di un mondo migliore.
Gli USA che hanno una loro responsabilità agli occhi del mondo, debbono riflettere di più prima di abbandonarsi alla sindrome dello sceriffo che spesso praticano in maniera dilettantesca a spese di tutti.

I pruriti  moralistici sono un lusso che ciascuno di noi si può permettere nel chiuso del proprio orticello ma che non ha il diritto di far pagare all’intera collettività.

domenica 25 agosto 2013

Il garantismo peloso

Al meeting di Rimini Alfano, con riferimento alla condanna di Berlusconi, ha evocato il sacrificio di Gesù e invocato l’esigenza di un giusto processo. A parte l’arditezza del confronto, indispone il doppiopesismo di un garantismo di convenienza che il nostro invoca in difesa dell’amico e che invece, da ministro di grazia e giustizia, ha calpestato inasprendo il 41bis e non facendo nulla per disinnescare la vergogna delle decine di migliaia di detenuti in attesa di un primo giudizio che scontano il carcere preventivo, alcuni appunto in regime di 41bis.
Capisco che le cause non sono tutte uguali e che le cause di Berlusconi sono più uguali delle altre, ma per carità un po’ di senso della misura.
Nessuno nega che nel pianeta giustizia ci siano delle ombre e che nei confronti del Cavaliere si sia esagerato, ma c’era bisogno che si arrivasse alla condanna definitiva di Berlusconi per scoprire le anomalie del sistema e scandalizzarsene solo perché un bisonte di razza è stato sacrificato, quando in precedenza tanti vitellini anonimi sono stati abbattuti nelle varie macellerie della giustizia italiana senza che da nessuno e tanto meno da Alfano si levasse un cenno di protesta?
E a proposito di giusto processo, Alfano si è accorto solo adesso che i processi in Italia non sono giusti, che gli elementi vengono valutati secondo il libero, che più libero non si può, convincimento del giudice e le sentenze vengono emesse al di là di ogni ragionevole certezza?
Andiamo On. Alfano, non cada dalle nuvole e ci risparmi le sue acrobazie, si attivi pure nell’opera di soccorso a favore di Berlusconi ma lo faccia senza scomodare Gesù. E soprattutto senza provocazioni sulla sofferenza di tanti poveri cristi che stanno scontando, al contrario di Berlusconi, un conto più o meno meritato, rassegnati alla ineluttabilità di una giustizia che il mai abbastanza citato Trasimaco definì il diritto del più forte! Ebbene, il diritto del più forte nel ventennale conflitto tra Berlusconi e la magistratura, è risultato essere quello dei magistrati. Il Cavaliere non ha saputo combattere una battaglia degna che si librasse al di sopra del suo interesse, si è lasciato risucchiare in una guerra personale in cui si è consumato il regolamento di conti in sospeso tra contendenti che si detestavano piuttosto che cercata una onesta soluzione per la giustizia e il cui esito è stato vissuto come una sorta di soluzione finale nei confronti del nemico sconfitto. Questa guerra Berlusconi l’ha perduta, ne prenda atto e non si ostini a reclamare un occhio di riguardo per il suo “particulare” mentre il “particulare” dei comuni mortali marcisce in fondo a una cella. Per una volta voli alto e non consideri suo interesse l’ottenimento di un salvacondotto purchessia  ma il suo amor proprio. Vada incontro alla sua sconfitta con dignità, senza pretendere improbabili concessioni.

Dopo di che eserciti in tutta tranquillità il suo diritto di dire ciò che pensa e di continuare a guidare il partito che ha creato senza curarsi di ridicoli sdoganamenti della sua agibilità politica e, se ne è capace, la politica cominci a farla sul serio.

venerdì 16 agosto 2013

Ferragosto

Il ferragosto è l’apogeo della sofferenza per alcuni nostri concittadini.
Il giorno emblematico delle nostre vacanze ha un significato simbolico particolare per la psiche devastata di chi, proprio in quel giorno, è costretto alla cattività e vi è costretto nelle condizioni peggiori. Stiamo parlando dei cittadini indegni, di coloro ai quali non vengono riconosciuti i diritti riservati agli umani, stiamo parlano di larve che non hanno fatto in tempo a tramutarsi in uomini e nei confronti dei quali si può impunemente esercitare la tortura, stiamo parlando dei detenuti. Le stie piuttosto che le celle sono la loro casa.
Mi ricordo di quando all’Ucciardone eravamo costretti a convivere in quattro laddove ce ne potevano stare due e ci ingegnavamo di ovviare al problema di come amministrare lo spazio stabilendo dei turni durante i quali due restavano confinati nelle brandine per permettere agli altri due di muoversi nello spazio liberatosi. Il guaio era che le crisi di claustrofobia, il caldo che dava alla testa e la furbizia inducevano qualcuno a provarci e a barare sui tempi del confinamento in branda, con il rischio che ci scappasse l’incidente.
Mi ricordo di quando la sera ostruivamo il chiusino e allagavamo il pavimento d’acqua. Si andava a dormire con l’illusione di godere di un poco di frescura ma non facevamo i conti con la distrazione di chi si dimenticava e, scendendo per andare in gabinetto, si impantanava nell’acqua e planava col culo per terra mandando il nostro sonno a farsi benedire.
Mi ricordo di quando, alla ricerca di refrigerio, stendevamo i materassi sul pavimento e a notti alterne ci acconciavamo a dormire per terra. Il guaio anche in questo caso era che spesso i conti non tornavano e nascevano discussioni sui turni non rispettati. Per non parlare poi del solito distratto che, scendendo dalla sua branda, passeggiava sul corpo del compagno disteso per terra. La notte echeggiava di proteste che qualche volta degeneravano.
Delizie dell’Ucciardone e del nostro sistema carcerario.
In carcere o, meglio, nelle nostre carceri è sempre in agguato il rischio che le larve invece di tramutarsi in uomini si tramutino in bestie animate dagli impulsi peggiori, dall’istinto di sopravvivenza, dalla voglia di predare una sia pur minima condizione di vivibilità ad ogni costo, ed invece assistiamo al miracolo di larve che si tramutano in uomini veri capaci, proprio nelle circostanze peggiori, di slanci di generosità e di solidarietà.
I nostri uomini migliori, quelli che pontificano sui vizi dei nostri uomini peggiori e che hanno creato le condizioni di vita in carcere dei nostri detenuti, nel giorno di ferragosto hanno taciuto, probabilmente perché impegnati a celebrare il rito della festività. L’unico che non è andato in vacanza è Patrizio Gonnella presidente di Antigone che nel giorno di ferragosto ha levato la propria voce contro le condizioni di vita dei nostri detenuti e ha denunciato la sfrontatezza dei nostri politici i quali, nonostante i richiami dell’Europa, continuano a disertare il buon senso e a far mancare una legge che preveda il reato di tortura.

Queste facce di bronzo che si riempiono la bocca con la Costituzione più bella del mondo e la eludono bellamente non avvertendo il senso della vergogna che infliggono ad esseri umani, lasciano che le cose restino come sono per potere continuare a soddisfare la loro malsana voglia di giustizialismo e fare strame dei diritti fondamentali dell’uomo. 

venerdì 9 agosto 2013

L’irresponsabilità dei magistrati

Sono pessimista e diffido della natura umana, quindi mi faccio qualche problema se debbo mettere la mia vita nelle mani di sconosciuti. Affidare ad uomini che per la loro stessa natura sono fallibili il compito di amministrare la giustizia è perciò un azzardo che va scongiurato adottando le necessarie cautele. Osservando l’attività della magistratura in Italia, viene da chiedersi se le garanzie a salvaguardia dei diritti del cittadino funzionino. Purtroppo la risposta è che no, le garanzie non funzionano a dovere. A fronte di un potere granitico e incondizionato della magistratura esiste una debolezza del cittadino alle prese con patologie che non consentono di fronteggiare le insidie portate ai nostri diritti. Non c’è dubbio che esistono giudici che sentono forte il richiamo della loro coscienza, e questa è la nostra migliore garanzia, ma non c’è dubbio anche che, laddove questo rigore manca, i nostri diritti sono a rischio. Scorrendo le cronache giudiziarie possiamo stilare un elenco di problemi che affliggono il pianeta giustizia.
E’ un problema e desta sospetto lo zelo di una magistratura che alla vicenda giudiziaria di un particolare imputato imprime una inconsueta accelerazione ed esaurisce i tre gradi di giudizio in meno di dodici mesi quando invece nei confronti di imputati meno particolari di anni e non di mesi ne impiega cinque, sei, sette, quindici che sono anche essi un problema. I tempi della nostra giustizia sono un attentato alla nostra economia per quanto riguarda i processi civili e una autentica vergogna, la sospensione per tanti anni della vita dell’imputato, una ulteriore condanna ancora più grave che si aggiunge a quella eventualmente inflitta dal giudice, per quanto riguarda i processi penali. Lascio immaginare quale è il danno arrecato a chi, dopo tanti anni, risulterà innocente.
E’ un problema l’abuso della carcerazione preventiva che rischia di far scontare in anticipo una pena non dovuta.
E’ un problema se magistrati licenziati dalla politica tornano a indossare l’ermellino e giudicano quelli che sono stati i loro avversari politici.
E’ un problema se un alto magistrato, dopo avere espresso, prima e fuori dal processo, un giudizio corrosivo sulla condotta di un imputato, accetta di pronunciarsi su di lui senza avvertire lo scrupolo di astenersi. Ed è un problema ancora più serio se lo stesso giudice poi, zompando in vernacolo tra Tizio, Caio e Sempronio, deposita nelle mani di un giornalista le motivazioni della sentenza che ha concorso ad emettere, anticipando le conclusioni cui deve ancora giungere il giudice relatore che sta lavorando alla estensione del dispositivo della sentenza stessa.
E’ un problema ed è allarmante scoprire che magistrati i quali decidono di impegnarsi nella politica attiva, nutrono un livore viscerale nei confronti di avversari sui quali indagavano da magistrati. Si può immaginare con quale serenità abbiano esercitato la loro funzione.
E’ un problema lo strabismo con cui alcune formazioni politiche sono state graziate e altre spazzate via da magistrati che di lì a poco sarebbero scesi nell’arena politica a fianco dei partiti graziati.
E’ un problema se il PM esercita l’obbligatorietà dell’azione penale scegliendo in maniera discrezionale l’ordine di priorità e d’urgenza con cui trattare una notizia di reato.
E’ un problema se il giudice terzo, appartenente allo stesso Ordine del Pubblico Ministero, accoglie, secondo un metro di cui non si cura di dar conto, i testi dell’accusa e rigetta quelli della difesa e, se li accetta, contesta  la veridicità e la buona fede delle loro dichiarazioni senza tuttavia chiederne il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Ed è un problema ancora maggiore se la Cassazione conferma una così palese violazione dei diritti dell’imputato.
E’ un problema il complesso di colpa della classe politica che, in preda ad una specie di cupio dissolvi, ha infierito su sé stessa condannandosi alla decadenza della immunità parlamentare prevista dalla Costituzione in materia di procedimenti penali e consegnandosi nelle mani dei magistrati con buona pace dell’autonomia dei poteri dello Stato e dell’equilibrio tra la magistratura e gli altri poteri.
I magistrati vanno tutelati, ma chi tutela tutti noi dal giudizio di uomini che possono essere animati come tutti da passioni, interessi di parte, convinzioni declinate in maniera più o meno strumentale, pregiudizi, non arginati da garanzie efficaci? L’ipocrisia del CSM, organo consortile di autocontrollo della magistratura, è una foglia di fico con cui si vuole nascondere l’anomalia di un sistema che sbilancia un potere a scapito di altri e determina una asimmetria che è un vulnus nell’amministrazione della giustizia e un rischio  per la stessa democrazia. Troppo potere senza i necessari ammortizzatori!
In USA i Procuratori sono di elezione popolare, altrove la pubblica accusa dipende dall’esecutivo ( e d’altronde perché no visto che la pubblica accusa è esercitata per conto dello Stato ), per quanto riguarda i giudici terzi non saprei, ma si potrebbe per esempio provare a rendere il libero convincimento un po’ meno libero di scadere nell’arbitrio e più vincolato a prove certe.

Comunque sia, non c’è dubbio che bisogna trovare un rimedio allo strapotere della magistratura, ferma restando la salvaguardia della sua autonomia.

sabato 3 agosto 2013

Le iene

La conferma in Cassazione della sentenza di condanna per frode fiscale a carico di Berlusconi non si presta a contestazioni. E’ l’ultima pronuncia con cui è stata accertata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell’imputato. E’ la verità processuale ultima nei confronti della quale non resta che la rassegnazione. Certo se ne può dissentire affermando che la verità processuale è pur sempre la verità degli uomini ma non ci si può sottrarre alle conseguenze di essa. Uno dei caratteri della legge è la coazione che ci obbliga ad espiare la pena e dunque stupisce l’affermazione pleonastica di chi raccomanda che la sentenza venga applicata. C i mancherebbe!
Naturalmente, vista la caratura dell’imputato, si sono scatenate le prevedibili esagerazioni in un senso e nell’altro. C’è chi parla di giustizia politica e di accanimento, di guerra ventennale  tra potere giudiziario e politico che si è conclusa con la vittoria della magistratura e c’è chi ha salutato la sentenza come una specie di lavacro che ha finalmente purificato lo scenario restituendo il profumo di lavanda alla nostra politica inquinata dal virus berlusconiano. Adesso finalmente la politica, liberata dal cancro, può dispiegarsi verso le sue magnifiche sorti e progressive.
Nessuno che abbia avvertito il senso della misura.
Non certo chi si è improvvisato sceriffo e ha proclamato che vigilerà sull’applicazione della sentenza, come se ci fosse un vuoto di potere e si sentisse il bisogno dello zelo interessato di chi pretende di riempire questo vuoto mostrando i muscoli per compiacere la piazza.
Non certo chi esibisce il volto livido di soddisfazione e sollecita la cacciata di Berlusconi  dal Parlamento. I signori giustizialisti in servizio permanente effettivo riescono a tenere a freno la bava alla bocca e aspettare che la legge faccia il suo corso? La legge, se non sbaglio, ha dimostrato di non fare sconti a Berlusconi.
Non certo il popolo viola e la variegata galassia dei cromatismi più improbabili che festeggiano nelle piazze a champagne.
Non certo i soliti talebani della rete, dove Berlusconi è stato paragonato ad Al Capone.
Una vera orgia del kitschy in cui si è data la stura ai peggiori istinti.
Si può affermare che Berlusconi è un delinquente perché condannato in via definitiva ma la condanna non può servire da alibi per fughe da responsabilità che investono tutta la classe politica. Sfido chiunque a dimostrare che il Cavaliere ( ancora per poco ) è il male assoluto e che gli altri sono dei verginelli di primo pelo.  Egli è un personaggio che ha rappresentato e rappresenta una parte considerevole di un popolo che ha creduto in lui e che non merita di essere trattato alla stregua di una accozzaglia di sprovveduti sub-dotati, in questo Paese ha svolto un suo ruolo ( e lasciamo stare se bene o male ) e ha avuto una sua dimensione istituzionale e imprenditoriale che non possono essere liquidati con lo sprezzo della rimozione, con lui bisognerà ancora fare i conti, e quanti lo demonizzano barando con le responsabilità sono in malafede e non rendono un buon servizio al Paese. Se passa la vulgata che i cattivi sono solo da una parte, i buoni continueranno a fare sfracelli.
Berlusconi andrà in carcere ( gli arresti domiciliari non cambiano la sostanza con buona pace di Stille ), si farà più male di  un comune cittadino nel pagare il suo conto con la giustizia perché cadrà da un ramo più alto, soprattutto è un uomo provato come tutti coloro che incappano nei rigori della legge e vivono il dramma del tintinnio delle manette ( seppure in questo caso virtuali ). 

Ce n’è abbastanza per pretendere un po’ di misura e chiedere che ad uomini vittime di questo dramma venga riservata la sobrietà del rispetto, non la sinistra risata delle iene. Il rispetto che reclama Napolitano non può essere limitato ai soli vincitori.

lunedì 29 luglio 2013

Evasione per necessità

Non sono tra quelli che, come Padoa Schioppa, fanno il panegirico  delle tasse. Quando parliamo di tasse dobbiamo andarci piano con le mozioni d’affetto perché parliamo pur sempre di una imposta che evoca con la sua stessa radice il concetto di imposizione di un balzello accettato obtorto collo e non certo con gioia.
Detto questo però riconosco il valore civico di una risorsa che permette di finanziare il patto tra cittadini. L’economia di uno Stato non può funzionare se non c’è il contributo di tutti i cittadini nella misura in cui ciascuno può. Chi si sottrae a quest’obbligo produce un danno all’economia della società e costringe gli altri cittadini ad un sacrificio maggiore ed ingiusto. Diciamolo pure, l’evasore non è niente altro che un delinquente il quale ruba ai suoi simili. Però non bisogna mai dimenticare che quando parliamo di contribuenti, parliamo di cittadini che devono avere i mezzi per contribuire e quando parliamo di Stato, parliamo di una entità oculata che, come un buon padre di famiglia,  ha il dovere di utilizzare con giudizio i tributi dei cittadini. Al dovere civico della contribuzione deve corrispondere il senso di responsabilità dello Stato. Questa riflessione è propedeutica ad una valutazione della recente dichiarazione di Fassina a proposito degli evasori per necessità, lontana dai parossismi che l’hanno accompagnata.
Se lo Stato è uno Stato scialacquone che sperpera il denaro dei contribuenti, li vessa con una tassazione predatoria e mette il cittadino nella condizione di dovere scegliere tra l’opzione di salvare la propria azienda negando una contribuzione al di sopra delle sue possibilità o quella di rifiutarsi di evadere condannando al collasso la propria azienda, sfido quanti danno fiato al giacobinismo ipocrita nei confronti di Fassina, a dire in coscienza per quale scelta opterebbero. Il salvataggio di una azienda ha un valore sociale esattamente uguale alla funzione sociale dei soldi pubblici, anzi un maggior valore se lo sperpero dei soldi pubblici vanifica la funzione sociale di essi.
Frederic Bastiat, pensatore liberale senza molte illusioni, interrogato sul significato di Stato, se ne uscì con un paradosso: “Lo Stato è la grande illusione attraverso la quale tutti sperano di vivere alle spalle degli altri!”. Se lo Stato incoraggia questa corsa all’espediente concedendo laute prebende ai fortunati possessori di privilegi e illusioni agli sfortunati rimasti fuori dalle corporazioni, finisce per rendersi responsabile di un vero e proprio raggiro, la tassa assume l’aspetto odioso di una estorsione e rischia di perdere  il diritto alla sua inviolabilità.

Padoa Schioppa va bene, ma la liturgia del lavacro tributario fino al sacrificio estremo, quella no.      

sabato 20 luglio 2013

Renzi

C’è stato un momento in cui avrei votato Renzi. Sono un vecchio liberale ma l’assenza di rappresentanza nella mia parte ideale mi aveva indotto ad essere tentato da questo giovanotto che diceva pane al pane e vino al vino ed elaborava concetti con i quali non si poteva non essere d’accordo. Niente di nuovo, per carità, ma sentir dire, seppure con un linguaggio ruspante o forse proprio per questo, che tante cose andavano cambiate e constatare che questi cambiamenti coincidevano con quello che il buon senso, e non il buon senso di destra o di sinistra ma il buon senso tout court, da tempo reclamava, consolava e spingeva ad una apertura di credito. Finalmente, ci dicevamo con alcuni amici, un politico che si fa comprendere e sembra sincero, soprattutto sembra sinceramente preoccupato dell’interesse comune.
Grazie a Bersani non ho avuto la possibilità di votare Renzi e sennò adesso sarei qui a mordermi le mani. Perché il Renzi delle ultime edizioni si è rivelato datato e ricorda tanto i vecchi arnesi della politica che non rimpiangiamo. Verboso e debordante, presenzialista fino alla nausea, corrivo anziché saggio, inflazionato e frusto, non passa giorno che non dica la sua anche quando non è il caso, anzi proprio perché non è il caso, rottama, per dirla con lui, il buon senso di cui aveva fatto mostra in passato e, assieme ad esso, i buoni propositi. E chi non è d’accordo mi spieghi perché il nostro scalpitante fiorentino che tanto aveva predicato di bene comune, adesso predica di sfascio, spingendo per una crisi di governo nel momento in cui una crisi di governo non ce la possiamo permettere se non a scapito dell’interesse comune e a vantaggio dell’interesse di Renzi. Diciamolo, Renzi è diventato prevedibile, non stupisce più, non intriga più, non fa più sognare.

Una maggiore sobrietà avrebbe dovuto suggerire al nostro di far valere invece dell’ impazienza di un Pierino petulante, la saggezza di un Cincinnato che presta l’orecchio alle notizie inquietanti che giungono da Roma e attende paziente di essere chiamato per correre a salvare le sorti della Patria.

mercoledì 17 luglio 2013

Il caso kazako

Non credo che Alfano meriti di essere crocifisso più di tanto per il pasticcio kazako. Come dice D’Alema, egli non può essere colpevole di non sapere. “Se non glielo dicono, non sa, e questo non è una colpa”. Intendiamoci, egli non sapeva del rimpatrio forzato dei familiari di Ablyazov, ma sapeva che l’ambasciatore del Kazakistan l’aveva cercato tanto da averlo indirizzato al suo capo di gabinetto Procaccini ed essere stato da questi informato dell’avvenuto colloquio e che l’ambasciatore era stato dirottato al prefetto Valeri. Non c’è motivo di ritenere che Procaccini menta e male ha fatto Alfano a negare in Parlamento la circostanza. Così come male ha fatto a incaricare Procaccini di ricevere l’ambasciatore. In quanto tale, il diplomatico andava invitato a rivolgersi al ministero degli esteri e Procaccini, informato dall’ambasciatore che era interessato alla cattura di un latitante kazako colpevole di reati comuni, avrebbe dovuto invitarlo a seguire le normali procedure, a rivolgersi alle autorità competenti. Gli ha invece riservato una corsia preferenziale affidandolo alle cure di Valeri, capo della segreteria del Dipartimento di pubblica sicurezza, e lanciando un messaggio inequivocabile. Da questo momento infatti i kazaki si sono potuti permettere un vero e proprio pressing nei confronti dei funzionari di polizia italiani che a loro volta hanno dimostrato una inusuale accondiscendenza nei confronti di richieste a dir poco anomale, sicuramente sulla base dell’accreditamento che i kazaki avevano avuto dalla presentazione di Procaccini. Insomma una storia di ordinaria raccomandazione che ha avuto conseguenze gravi di cui però non può essere ritenuto responsabile il ministro e tanto meno Procaccini. Quest’ultimo era fermo all’informazione avuta da Valeri e passata ad Alfano, che era stata effettuata una operazione di polizia che si era conclusa senza l’arresto del latitante, ma non che fosse stata avviata una procedura di rimpatrio. Di questa iniziativa sia Alfano che Procaccini non erano al corrente.
Tutto parte dalla raccomandazione, è vero, ma quello che è seguito ricade esclusivamente nella responsabilità delle forze di polizia. Doveva insospettire che un ambasciatore si scomodasse per un delinquente comune, doveva destare allarme la inconsueta attenzione riservata ai familiari di quello che veniva indicato come un delinquente comune, al punto da mettere a disposizione per l’espatrio un jet privato. Tutto questo avrebbe dovuto indurre ad una maggiore attenzione, ad approfondire le indagini sulla reale identità di madre e figlia destinati al rimpatrio, soprattutto ad informare il ministro. E invece niente, anzi i funzionari di polizia hanno dimostrato uno zelo particolare adottando la decisione del rimpatrio in tempi record e procedendo, secondo quanto afferma l’avvocato della signora Shalabayeva, ad una irruzione brutale nella villa di Casal Palocco.
La morale della favola è che siamo alle solite, siamo all’assenza della politica quando la politica serve come in questo caso in cui sono a rischio diritti umani, e lascia un vuoto che i burocrati si affrettano a riempire assumendo decisioni che non sono di loro competenza. Pochi giorni fa ho scritto dei gran commis, della casta autoreferenziale che ritiene di non dover dar conto del suo operato alla politica, di una consorteria che, in difesa di interessi consolidati e unita da legami comuni, decide in piena autonomia e senza controlli su materie nelle quali è la sola a raccapezzarsi. I fatti purtroppo si incaricano di confermare che nel fare come nel disfare questi signori fanno il bello e il cattivo tempo e costituiscono un vulnus per la democrazia nella misura in cui si sostituiscono alle decisione della politica e alla volontà popolare da essa rappresentata, avocando a sé un ruolo usurpato.

Alfano non ha colpa nello specifico ma, in quanto rappresentante del mondo politico, è responsabile della latitanza della politica e della deriva autoritaria della burocrazia.