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domenica 23 ottobre 2016

Gli sciacalli


Il recente terremoto nel Lazio e nelle Marche, ci ha proposto i soliti, disgustosi episodi di sciacallaggio di cui ci indigniamo a maggior ragione perché perpetrati a spese di popolazioni innocenti che non meritano certo l’oltraggio dell’uomo dopo avere subito l’oltraggio della natura. Non proviamo invece uguale indignazione tutte le volte che lo sciacallaggio viene perpetrato nei confronti di una umanità meno innocente verso la quale non nutriamo alcun senso di pietà e tolleriamo crudeltà gratuite. Esso viene perpetrato molto più spesso di quanto non ce ne rendiamo conto, e non ce ne rendiamo conto perché lo consideriamo la giusta pena per una genere che abbiamo deciso di considerare colpevole e meritevole di qualsiasi infamia. Nei confronti di esso non è dovuto l’obbligo dell’onestà e anche un’azione estrema come lo sciacallaggio è considerata moneta corrente senza che desti scandalo. A questa umanità appartengo io, titolare di una notorietà che non ritengo di meritare ma che mi è stata, mio malgrado, imposta. La macelleria mediatica ha fiutato la preda e individuato nel sottoscritto il personaggio su cui costruire pagine suggestive e infedeli rispetto alla mia reale dimensione. Ricordo un episodio. Fui avvicinato da un cronista giudiziario che va per la maggiore e che mi propose una intervista. Rifiutai la proposta e con mia sorpresa il mio interlocutore non insistette più di tanto, anzi mi diede l’impressione di avere accettato il mio diniego con un sospiro di sollievo. Mi spiegò egli stesso che, dopo essersi procurato l’appuntamento con me, si era documentato sulla mia vicenda giudiziaria e aveva scoperto la modestia delle mie imputazioni rimanendo spiazzato. Mi confessò che non capiva il motivo di tanto clamore attorno alla mia figura a fronte di uno spessore criminale tutto sommato irrilevante. Il buon cronista in verità non capiva di essere rimasto vittima di se stesso o, meglio, del mondo cui egli appartiene. I cacciatori di streghe prima di lui avevano sparato su di me ad alzo zero senza verificare la reale portata delle mie “malefatte”, avevano creato il personaggio senza curarsi di accertarne l’autentica consistenza e lo avevano dato in pasto all’opinione pubblica consegnando all’immaginario collettivo il falso mito di cui lo stesso mio scrupoloso interlocutore era rimasto vittima. Di cosa disponeva infatti egli che valesse la pena di raccontare? Può interessare un mediocre personaggio di seconda fila del panorama mafioso condannato ad appena 7 anni e 8 mesi per mafia senza neanche l’aggravante di esserne un capo, mentre invece nel serraglio dei mammasantissima che affollano il mondo delle grandi storie mafiose fioccano ergastoli o, bene che vada, decine e decine di anni di detenzione? Non un’accusa di omicidio, non un’accusa di traffico di droga, non un’accusa di estorsione, o, meglio, un’accusa di tentata estorsione conclusasi con un’assoluzione piena, non l’accusa di avere intrattenuto rapporti con personaggi di grosso calibro della Santa Chiesa, anche se i mestatori della rete mi attribuiscono un ruolo nella cura della latitanza addirittura di uno dei dioscuri che hanno fatto la storia della mafia in Sicilia. Ma allora perché tanto accanimento? Sicuramente un motivo va fatto risalire alle attenzioni che la Procura di Palermo mi ha riservato. Essa infatti, pur in presenza di una sentenza che mi ha condannato, è vero, per associazione mafiosa ma ha escluso un mio ruolo di vertice, e di due sentenze, una del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto e una del Tribunale per le Misure di Prevenzione di Palermo, che hanno respinto la richiesta di misure di prevenzione a mio carico non ritenendomi pericoloso, si ostina ad agitare lo spauracchio del mafioso stella di prima grandezza nel firmamento mafioso, non perdendo l’occasione per leggere ogni mio comportamento, anche il più innocente, con la lente del sospetto, in base non a prove di una mia reale pericolosità ma ai vaneggiamenti di un teorema che le riesce difficile archiviare. Il povero cronista nelle mie carte giudiziarie non trovò nulla che meritasse l’onore di un servizio in prima pagina, disponeva solo della carta straccia di una mitologia farlocca costruita dalle grandi firme dell’impostura al servizio della Procura. Che cavolo di personaggio ero? Che cosa avrebbe dovuto raccontare il cronista alla gente se io, lusingato dalle sue attenzioni e in cerca di visibilità come i tanti affetti da malattia mediterranea che si annacano, avessi accettato l’intervista? Dell’intervista non se ne fece niente ed io continuo ad assaporare il gusto amaro dello sciacallaggio che imperversa contro di me in certa letteratura d’appendice spacciata per coraggiosa denuncia contro la mafia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e li pago sotto forma di linciaggio o, bene che vada, di rimozione da parte dei benpensanti che boicottano tutto ciò che nasce da me. I frutti della mia vena vengono demonizzati ancor prima di essere gustati e basta andare in rete per leggere le idiozie di uno stuolo di carneadi indignati che protestano contro la mia pretesa di propormi come autore, di cui non conoscono l’opera che però demoliscono ab origine, per il solo fatto che è scritta da un condannato per mafia. Per non parlare poi dei maitres à penser, di quelli cioè che determinano il successo o l’insuccesso secondo una logica ferrea che esclude gli estranei al circuito magico, figuriamoci gli appestati come me. Sollecitati dal mio editore ad una lettura purchessia, anche critica, del mio romanzo, hanno opposto un ostinato silenzio. Ho preso il coraggio a due mani e un paio di essi li ho persino affrontati (non con atteggiamento mafioso, lo giuro) chiedendo il motivo del loro ostracismo nei confronti di un evento alla cui presentazione erano stati invitati, risposta: mi mandi il libro, lo leggerò e le farò sapere. Risultato: anche in questo caso silenzio assoluto. Chi invece ha perduto una buona occasione per stare zitto, è stato un assessore comunale che, distrattosi, mi ha concesso l’utilizzo di una struttura pubblica per la presentazione del mio libro e che, accortosi quando ormai era troppo tardi, che il beneficiario della concessione ero io, ha strepitato protestando di essere stato ingannato. Anche lui ha confessato di non aver letto il mio romanzo e che dunque parlava di ciò che non conosceva, ma questo importava poco al nostro amministratore, non gli importava d’avere permesso con la sua decisione lo svolgimento di un dibattito culturale, anzi se ne rammaricava, quello che gli rodeva era non avere potuto cogliere anche lui l’occasione per issare la sua brava bandiera antimafia di maniera, come i tanti che ne fanno un uso improprio pur di guadagnare uno straccio di visibilità.

lunedì 3 ottobre 2016

Le delusioni d Ilaria Capua

In una lettera indirizzata al Corriere della Sera Ilaria Capua ripercorre il suo calvario di indagata per associazione a delinquere finalizzata a corruzione e traffico di virus. Nientemeno! Una scienziata apprezzata in tutto il mondo trascinata in una storiaccia così squallida! Certo, il censo non può essere motivo di impunità e dunque se c’erano gli estremi la signora Capua andava indagata. Ma c’erano gli estremi ed erano essi tali da sfidare la statura di un simile personaggio? L’indagine è una garanzia per l’indagato innocente perché l’esito lo scagionerà e dissolverà qualsiasi dubbio sulla sua moralità, ma in un Paese come l’Italia dove il sospetto è l’anticamera della verità, un avviso di garanzia si traduce in un atto d’accusa e l’indagato viene esposto all’onta del mascariamento. Questo è quello che è accaduto alla signora Capua risorsa preziosa di una Italia migliore, la cui credibilità avrebbe dovuto far nascere qualche dubbio sulle accuse che le venivano rivolte, e il cui prestigio andava maggiormente tutelato. Nei suoi confronti, vista la sua levatura morale, si sarebbe dovuto adottare una maggiore cautela, evitare di darla in pasto alla solita stampa famelica, e, una volta archiviata l’indagine con il suo totale proscioglimento, si sarebbe dovuto accertare se si era proceduto con avventatezza nel sostenere l’accusa e, in caso positivo, presentare il conto a chi di dovere. Vale per qualsiasi cittadino ma vale in particolare per la signora Capua in considerazione della sua notorietà internazionale e dell’eco che la vicenda ha avuto in tutto il mondo esponendoci ad una figuraccia. Nessuno invece ha pagato o meglio, a pagare sono state la signora Capua e l’Italia. Perché indurre una tale scienziata a lasciare l’Italia e mettere a disposizione di un altro Paese il suo sapere, indurre una parlamentare che avrebbe potuto promuovere in questa veste iniziative a favore della ricerca, a dimettersi, è una sofferenza gratuita per l’incolpevole Capua e un danno incalcolabile per il Paese che essa è chiamata a servire. Che delusione non sentire una sola voce di solidarietà levarsi a favore della signora Capua ad opera di un qualsiasi rappresentante delle istituzioni, non percepire alcun sussulto di indignazione e di rammarico proveniente dalla politica per le conseguenze disastrose di una vicenda che un minimo di decenza avrebbe dovuto scoraggiare, nessuna denuncia contro la disinvoltura di un’accusa che si è rivelata priva di riscontri! I responsabili di questo danno, i soliti a caccia di notorietà a spese del personaggio di turno, andrebbero messi nelle condizioni di non nuocere e invece no, come nel caso Tortora, come nel caso Cucchi, come nei tanti casi di giustizia allegra, nessun responsabile è individuato e punito, e il proposito di Ilaria Capua di aprire un fronte del suo impegno sul versante della giustizia in Italia, ora che ne ha conosciuto le delizie, le fa onore ma è destinato a restare una illusione.