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lunedì 30 novembre 2015

La fede laica

Nei commenti alla strage di Parigi ci scopriamo attenti censori di noi stessi avvolgendo in pudiche circonlocuzioni parole impronunciabili quali odio e guerra e accostandoci ai vizi dell’Islam con cautela per non suscitare l’accusa di islamofobia. Rimuoviamo la parola guerra perché abbiamo archiviato da tempo l’idea di essa quale eventualità probabile ed anche perché per fare la guerra bisogna essere in due e l’Occidente non è disposto a rischiare i suoi figli sul campo. E ci abbandoniamo a reazioni indignate se qualcuno inveisce contro i terroristi chiamandoli islamici, protestando che islamico non è sinonimo di terrorismo e che la causa del terrorismo non è dovuta solo all’Islam ma anche, o forse soprattutto, a noi occidentali. Soffriamo al contempo di un complesso di colpa e di protagonismo, una sorta di razzismo a rovescio che nega agli altri la capacità di peccare e attribuisce a noi una centralità da cui discendono i mali del mondo, quasi che fossimo i soli capaci di libero arbitrio. Per bocca dei soliti intellettualoidi affetti dalla sindrome di Tafazzi, sussurriamo che, se l’Isis ci fa la guerra, è perché ce la meritiamo, per gli errori che abbiamo collezionato nello scacchiere mediorientale e per avere ghettizzato i magrebini nelle periferie degradate delle città europee creando focolai di malcontento destinati prima o poi ad esplodere, per esserci anche noi macchiati in passato di efferatezze analoghe a quelle che rimproveriamo ai nostri nemici. In effetti l’Occidente si è distinto nel recente passato per la sua stoltezza, e le babele in Iraq, in Libia, in Siria, il serbatoio di rancore delle banlieu parigine sono lì a testimoniarlo, e c’è un passato di colonialismo che non ci fa onore. Ma, a differenza del mondo al quale si rifà l’Isis, noi europei abbiamo saputo insorgere contro i nostri errori rivelando una coscienza che manca altrove. E’ la stessa coscienza che ci ingiunge di affrontare con misericordia la migrazione massiccia proveniente proprio dal mondo islamico, di cui è esempio il welfare illuminato che accoglie i mussulmani nelle periferie belghe, dove, ciononostante, è ugualmente fiorito il verminaio del terrorismo europeo. E allora? Allora, senza tante acrobazie verbali e senza farneticare sulle solite sciocchezze del politicamente corretto, dobbiamo avere l’onestà di ammettere che il mondo islamico ha nel suo bagaglio culturale la natura violenta della sua religione, una natura che lo rende intollerante nei confronti del mondo occidentale, una presunzione di superiorità morale che gli fa disprezzare i costumi di questo mondo. E’ una identità comune a tutto l’Islam senza distinzioni tra moderato e non, di cui sono prova le singolari abitudini invalse in Iran e in Afganistan tradizionalmente fondamentalisti, ma anche in Arabia Saudita e negli Emirati considerati moderati, tutti ugualmente intransigenti, nei confronti delle donne alle quali è negata la stessa dignità dell’uomo, nei confronti della libera circolazione delle idee al punto che persino la musica occidentale e le discoteche sono state abolite, nei confronti delle adultere sottoposte alla lapidazione, e con una coinvolgimento nella carneficina in corso di quelli di loro che finanziano l’Isis. Questa identità i giovani mussulmani delle nostre città se la portano appresso anche se sono diventati cittadini europei già da diverse generazioni e, ispirati da essa, detestano la terra che li ha accolti ma che non hanno mai accettato come la loro patria. Ci considerano cattivi in quanto europei, per l’identità di valori che rappresentiamo, e in quanto tali meritevoli della guerra che ci portano, e parliamo di guerra a ragion veduta perché, al di là delle connotazioni ideologiche e religiose dell’Isis, ci troviamo a dovere fare i conti con una vera e propria guerra con tutti gli interessi concreti tipici di un conflitto tra potenze. E’però una guerra asimmetrica che noi ci rifiutiamo di mettere a fuoco nella sua vera natura e combattere con efficacia, avvitandoci nelle nostre contraddizioni. Mentiamo su ciò che effettivamente sentiamo, censuriamo le nostre emozioni e le nostre parole e scadiamo in un buonismo mieloso. Siamo assediati da esternazioni demenziali che puzzano di falsità lontano un miglio come: “Non vi farò il dono di odiarvi”, “Non cederemo alla stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete”, “Non rinunceremo alle nostre abitudini” etc., mentre invece viviamo nel terrore, rischiamo di rinunciare alle nostre abitudini e sentiamo di detestare con tutte le nostre forze chi attenta alla nostra civiltà, alla cultura e ai diritti che ci siamo conquistati dai greci in poi. L’ostilità che sentiamo non deve farci vergognare di noi perché essa è uno strumento di difesa, perché è naturale detestare chi ci vuole ridurre in schiavitù, obbedendo al nostro spirito di sopravvivenza. Non è il caso di lasciarsi coinvolgere in una guerra santa tra opposte confessioni, ma è il caso di combattere senza falsi buonismi la crociata in difesa della nostra fede laica, della legge degli uomini contro la legge di un Dio frutto della follia. E allora, non rinunciamo alle nostre abitudini, continuiamo a vivere come sappiamo, raschiamo dal fondo della nostra paura il coraggio necessario ad affrontare una guerra di frontiera e, per carità, non porgiamo l’altra guancia, ma soprattutto evitiamo di ingannare noi stessi.  

sabato 21 novembre 2015

“Panorama d’Italia”


Ho assistito alla lectio magistralis tenuta da Vittorio Sgarbi al Teatro Politeama nell’ambito dell’iniziativa “Panorama d’Italia”, promossa dal settimanale diretto da Giorgio Mulé. L’atmosfera creata dall’estroso professore è stata, manco a dirlo, la solita atmosfera frizzante e l’arte è sembrata assumere connotazioni che non siamo soliti pensare. Si aveva la sensazione di scoprire un mondo nuovo e che questo mondo fosse naturale e accessibile, che vivere d’arte fosse ovvio come bere un bicchier d’acqua. Il parterre oltretutto favoriva questa sensazione. La cornice si fregiava di nomi che nel panorama culturale e giornalistico italiano hanno detto la loro, niente di eccezionale, beninteso, ma quel tanto che con la sua normalità incoraggia le ambizioni dei comuni mortali e gli fa dire che anche loro ce la possono fare, che anche per loro è facile , se solo lo vogliono. Quei personaggi erano lì, a portata di mano, mescolati alla gente comune senza le barriere che solitamente rendono impervio il rapporto con un mondo che appare lontano, con loro potevi parlare liberamente, esprimere i tuoi pensieri, condividere i tuoi sogni di gloria, assaporare l’ottimismo che quella normalità  trasmetteva. Ne avvicinai uno e gli confidai la mia ansia di visibilità, il mio desiderio di far sapere al mondo che un autore che viene dalle retrovie dell’esistenza sta concependo la sua creatura e vuole offrirle spazio, lamentai la frustrazione dei peones della cultura  che tentano l’assalto al fortino delle occasioni mancate, gli sussurrai la mia richiesta d’aiuto. Mi guardò come non mi vedesse, sorrise di un sorriso amaro, il volto segnato dal disincanto di chi conosce il mondo e non si fa illusioni, mi raccontò dello sforzo immane nel tenere a bada l’assedio dei cinquanta libri sfornati ogni giorno da narratori della domenica tra cui magari si annida quello giusto e dei sensi di colpa per non avere il tempo di leggerli tutti e mancare l’occasione della scoperta che ti fa battere il cuore, mi mise in guardia contro il rischio di far scorrere la vita  sui binari di consuetudini fruste in cui non c’è più spazio per l’emozione e  mi esortò a continuare a scrivere se scrivere era quello che mi faceva sentire appagato, scrivere per me più che per gli altri e scoprire nuove sensazioni. Mi diede appuntamento al giorno dopo per parlare del mio romanzo. Non so se lo incontrerò, forse, chissà, domani il nostro eroe sarà altrove a distribuire speranza ad altri romanzieri in cerca di gloria, ma a me è bastato e sono tornato a casa col cuore gonfio di gratitudine e tanta voglia di continuare a mettere su carta quello che sento, di scrivere un post che parla di questa voglia e dedicarlo a lui, al mio disincantato eroe che ha ridato impulso alla mia vena.

martedì 17 novembre 2015

La mattanza di Parigi

Piangiamo la mattanza di Parigi ma piangiamola con la schiena dritta e senza lacrime di circostanza pronte a tramutarsi fra qualche giorno in dichiarazioni di compiacente piaggeria nei confronti dei carnefici. Obama proclama che la Francia vincerà, Renzi che sapremo reagire, affermiamo solennemente di sentirci tutti francesi, ma le belle parole e i proclami non ci assolvono se prima piangiamo i morti di Charlie Hebdo e poi diciamo che se la sono voluta e in America alcuni intellettuali protestano per l’assegnazione di un premio alla testata con la motivazione che essa ha offeso la sensibilità dei mussulmani, se il regista Van Gogh è boicottato nei festival internazionali e alcuni musei si rifiutano di esporre innocenti immagini del Profeta, se escludiamo dalla visita artistica di una scolaresca il Cristo di Chagall, se l’intellighenzia europea e mondiale scende in campo firmando appelli contro la libertà di satira nei confronti di un certo islamismo intollerante e becero, se mostriamo una miserabile sudditanza da McEwan magistralmente definita “tribalismo intellettuale soffocante”, se rinneghiamo la nostra cultura. E’ nell’ottica di questa sudditanza la tendenza a rimuovere le responsabilità dell’islamismo tacciando di islamofobia chi osa affermare il contrario e a mettere i puntini sulle i di una distinzione tra Islam fanatico e moderato. E’ una distinzione sacrosanta ma che non può ignorare la matrice identitaria ideale e religiosa che accomuna i due schieramenti. In questo Islam che ha dimenticato il suo antico splendore, non soffia il vento dei lumi e anche in quello moderato le donne sono tenute in condizione di inferiorità, i gay sono impiccati e le adultere lapidate, le confessioni religiose diverse da quella islamica sono perseguitate, la cultura è bandita. E’ in nome di questi sani principi che l’Isis conduce la sua lotta contro gli “infedeli” senza che i moderati si arrischino a muovere un dito perché non possono rinnegare la matrice comune, ed è ignorando questa realtà che certi intellettuali occidentali in malafede confezionano autentici falsi d’autore. Detto questo, vediamo di capire quali sono le responsabilità dell’Occidente. All’indomani della strage di Parigi si può dire che il popolo francese è vittima non solo dell’Isis ma anche dei governanti occidentali affetti da una inguaribile inadeguatezza di fronte alle sfide della storia. La pretesa di correggere i mali del mondo e di correre in difesa delle vittime dei soprusi bonificando aree dall’equilibrio delicato con l’eliminazione dei Gheddafi, dei Saddam e degli Assad e non calcolando il prezzo da pagare, è stato un lusso che non ci potevamo permettere alla luce delle conseguenze. Il dilettantismo che ha guidato le scelte di Bush Jr e quelle successive di Obama ha sortito l’effetto di stravolgere quell’ equilibrio che seppur precario e inviso ai più, garantiva almeno un minimo di stabilità. Valeva la pena di sloggiare Geddafi, visti i risultati? Ed era il caso di impelagarsi in quel ginepraio della guerra civile in Siria senza essere sicuri di venirne a capo. Gli USA, in nome dei diritti negati al popolo siriano o forse in nome del petrolio, hanno sostenuto i nemici di Assad concorrendo a destabilizzare il tiranno siriano e a collassare ancora di più la Siria, hanno lasciato che la crisi si aggravasse, che entrasse in scena un protagonista come l’Isis, con la conseguenza che i diritti dei siriani continuano ad essere violati come e più di prima e la Siria è diventato un teatro in cui si recitano drammi come l’esodo di un popolo, la distruzione di siti archeologici patrimoni dell’umanità, la guerra di tutti contro tutti, la conquista di una vasta area dove l’Isis ha potuto istallarsi in forma di Stato diventando in maniera ancora più visibile punto di riferimento del terrorismo e base per l’intensificazione dei suoi attacchi all’Occidente, l’incarognimento di una guerra nella quale i giusti non hanno patria e gli aerei dei buoni bombardano alla cieca facendo vittime innocenti. L’elenco delle disfatte di Obama e delle conseguenze che derivano a tutti noi, dalla dissoluzione della Libia al disfacimento del medio oriente, alla crisi ucraina dove il nostro si è andato a cacciare sfidando l’orso russo con una politica aggressiva che ha svegliato la sua sindrome d’accerchiamento e gli ha offerto l’alibi, che, sia chiaro, non lo assolve, per annettersi la Crimea, ci dice in che mani siamo e come dobbiamo temere il peggio. In un mondo diviso a metà in cui si confrontano due civiltà una delle quali è minacciata da una crisi d’identità vicina alla follia, Putin non va respinto ma recuperato alla causa della civiltà occidentale, perché, pur essendo vero che tutto ci separa da lui, è pure vero che ci accomuna la lotta all’identico nemico. Parigi, città che amiamo, vive una tragedia immane, vittima di una strategia che non c’è e orfana dell’Europa, la bella addormentata che sonnecchia sfogliando la margherita e interrogandosi su che cosa farà da grande. Il peggiore torto che rischiamo di farle, è dimenticare.

venerdì 13 novembre 2015

Fera ridens

Si dice di me che sono un mafioso e lo si dice a buon diritto perché ho subito una condanna definitiva per mafia che non condivido ma che ho accettato saldando il mio conto con lo Stato. Questa considerazione ovvia può suscitare reazioni infastidite, qualcuno potrebbe chiedersi: ma insomma dove vuole andare a parare questo tizio con la solfa della sua vicenda giudiziaria, pretende forse dalla società un’assoluzione che non ha avuto dal giudice, vuole convincerci che è una persona per bene, o non è piuttosto affetto da manie di protagonismo? Nulla di tutto questo, ve lo assicuro, anzi non desidero altro che dimenticare e far dimenticare una vicenda che mi ha fatto soffrire. Purtroppo altri non dimenticano e con un accanimento inspiegabile si ostinano a ripescare e sbattermi in faccia una sentenza emessa nel 2014 in relazione ad accuse contestatemi nel 1998. Non ho altre pendenze con la giustizia, non c’è altro che mi sia stato contestato dopo la mia condanna, è stato riconosciuto persino da un magistrato che non sono un elemento ( proprio così, elemento ) socialmente pericoloso, sono un uomo finalmente libero ( non del tutto in verità visto che non posso uscire dai confini dello Stato ) ma sembra che la mia riconquistata libertà impensierisca qualcuno. Questo qualcuno strilla stupito che io circoli indisturbato per le contrade palermitane, mi assale rinfacciandomi la mia mafiosità, ringhia pretendendo di conoscere da me cosa pensi della mafia e delle sue attività illecite, aspettandosi probabilmente che io prenda posizione a favore del traffico di droga e delle attività estorsive in virtù della mia connotazione mafiosa, e se oso deluderlo dissociandomi dalla mafia, insorge indignato rinfacciandomi la faccia tosta con cui nego l’evidenza: sono mafioso e debbo dichiararmi tale con annessi e connessi. Mi domando cosa può volere da me questa iena traboccante di cattiveria gratuita, cosa mi vuole far pagare. Forse non sopporta l’idea che esisto e resisto sulle barricate di una lotta impari contro coloro che ritengono di poter fare impunemente strame della mia vita, di poterla violare facendo irruzioni di stampo mafioso persino nei momenti più belli di essa o mi riservano una indifferenza omertosa che uccide, come fanno i tanti giornalisti che hanno sguazzato per anni nelle mie vicende giudiziarie e ora ignorano una stagione diversa della mia esistenza disertando all’unanimità, tranne un paio di eccezioni, la presentazione del mio romanzo e non avvertendo l’imperativo professionale di offrire al lettore una doverosa informazione sul nuovo corso del “mafioso” Mandalà? Forse non tollera che io scriva, e mi dicono che lo faccia anche bene, rivelando allo stupito gregge abbeveratosi per anni alla fontana delle verità omologate, un’altra verità sul bieco “mafioso”, che non sospettava? Forse lo disturba l’impertinenza di una penna fuori dal coro che dipinge nuovi scenari e denuncia i piani di chi su questi scenari frusti e abusati ha costruito carriere altrimenti impensabili e si sente scippato del giocattolo? O forse, molto più cinicamente, ripescare e rilanciare la figura di un noto “mafioso” in disarmo serve a promuovere ambizioni a buon mercato? Tanto, si sa, con la carne dei mafiosi si può tranquillamente banchettare. Qualcuno dei miei estimatori ha scritto che debbo essere rinchiuso in un gulag e che mi si deve impedire di pensare e scrivere. Niente di nuovo come si vede. Se parliamo di macelleria, l’attrazione è fatale e il boato sale alle stelle, se parliamo di riscatto, un silenzio assordante cala sulla scena e la delusione prende l’animo dei malmostosi prevaricatori della vita altrui. E’ mafia questa? Lo è, ve lo garantisce uno che, a detta di una sentenza definitiva, di mafia si intende.

martedì 10 novembre 2015

Iena ridens

Le iene a caccia di cadaveri hanno creduto di individuare nel sottoscritto la carcassa da addentare. Al signor Golia evidentemente non basta il fatto che io abbia concluso la mia vicenda giudiziaria pagando a torto un conto che a mio giudizio non mi spettava, che abbia dichiarato a chiare lettere proprio a lui che condivido la decisione degli imprenditori di Bagheria di denunciare gli estorsori, tutto ciò non basta, egli ha le sue certezze e non sopporta l’idea che io sia un uomo libero. Se ne rammarica al punto da lanciare l’allarme su come è rischioso che io me ne vada in giro indisturbato con grave pericolo per la collettività. Dipendesse da lui, butterebbe la chiave. Egli è piombato nella libreria Macaione dove si stava celebrando la presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”, insalutato ospite, incurante del benché minimo riguardo nei confronti dei padroni di casa che ha bellamente ignorato e, invece di essere incuriosito dalla singolarità di un condannato per mafia che scrive un libro e di fornire al lettore la chiave di lettura di una simile conversione, invece di rendere omaggio ad un evento che fino al momento della sua incursione aveva odorato di pulito, invece di avere rispetto per il luogo e per un uomo che considera mafioso senza se e senza ma, ma al quale avrebbe dovuto concedere il beneficio del dubbio andando a verificare un percorso letterario che narra una storia diversa dall’abusata e scontata verità giudiziaria, da iena ghignante ha sentito solo l’odore del sangue e mi ha “mascariato” accostandomi a personaggi che con me non hanno niente da spartire, le cui vicende non si sono mai intrecciate con le mie e coinvolgendomi in un servizio su un disgustoso episodio estorsivo con cui non ho nessun legame. Dove è il nesso e quale è lo scopo di tanta cattiveria? Che è avvenuto di nuovo perché sul malinconico reduce di una vicenda giudiziaria risalente al 1998 e conclusasi da tempo, ormai dedito solo a vivere il crepuscolo della propria vita coltivando l’innocuo hobby della scrittura, si abbattesse la tegola di un servizio televisivo così severo? Ai signori delle Iene risulta forse qualche nuovo motivo che non conosco e che rende la mia persona nuovamente attuale al punto da giustificare tanto interesse? Perché il signor Golia è entrato a gamba tesa e in maniera palesemente gratuita nella mia vita attribuendomi una pericolosità che lo stesso magistrato di sorveglianza ha negato in una recente sentenza che mi ha assolto dalle misure di vigilanza? Forse gli riesce intollerabile l’idea che un condannato per mafia osi pensare ed esprimere ciò che pensa in un romanzo che ha visto la luce proprio in questi giorni e che offre uno spaccato ben diverso rispetto al personaggio pensato dall’immaginario collettivo? Certo c’è una singolare coincidenza. Se avesse un minimo di onestà il signor Golia dovrebbe fare pubblica ammenda, frequentare un corso accelerato di buon giornalismo ed evitare di andare in giro a sporcare esistenze e reputazioni che stanno tentando faticosamente di riaffacciarsi alla vita.

domenica 8 novembre 2015

La presentazione del mio romanzo

Venerdì 6 novembre presso la libreria Macaione-Spazio Cultura si è svolta la presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”. Si è sempre in imbarazzo quando si deve giudicare qualcosa che ti riguarda ma il giudizio non teme imbarazzo quando, come in questo caso, l’evento è riuscito a mantenere un profilo sobrio e ha saputo creare atmosfere magiche. Il dibattito ha disinnescato il rischio di scadere nella narrazione del solito ciarpame sulle vicende giudiziarie dell’autore e si è librato su per i sentieri dell’arte colorando l’evento con pennellate che si sforzavano di cogliere il valore dell’opera. Dopo anni in cui sono stato asfissiato dai miasmi di una storia infame che mi ha relegato nel recinto dei reietti, ho respirato boccate d’aria pulita e mi sono sentito libero in un contesto in cui non si era costretti a recitare le verità omologate delle invelenite tricoteuses assise ai piedi delle disavventure altrui ma si doveva dibattere sulla capacità di una fatica letteraria di descrivere sentimenti ed emozioni e catturare l’interesse del lettore. Il parterre di uomini liberi da pregiudizi che mostravano di interessarsi solo all’opera e non mi guardavano con sospetto, è stato il risarcimento più grande e mi ha fatto sentire finalmente riscattato. Purtroppo l’incursione delle Iene ha provato a rovinare la festa senza riuscirci, naufragando nella pattumiera di uno pseudo giornalismo d’assalto che tenta di sporcare la verità.