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venerdì 28 agosto 2015

La bella Italia

Non passa giorno senza che ci giunga notizia di qualche ruberia consumata dai nostri pubblici amministratori. Il problema è serio ma abbiamo la tendenza a sottovalutarlo perché noi italiani siamo afflitti da un lassismo morale che ci fa guardare con simpatia ai potenti corrotti considerati furbi anziché disonesti, e ci fa rammaricare di non essere al loro posto. In genere dunque non ci scandalizziamo più di tanto e lasciamo correre, a meno che non siamo presi per mano e portati in piazza a fare ammuina dai manipolatori di professione che decidono su che cosa è opportuno sdegnarsi. Le pubbliche ruberie, la corruzione, i grandi affari illeciti coinvolgono uomini tanto potenti e convengono ad una così larga fetta della società da risultare impunibili, anche se la conseguenza è lo sfascio dello Stato. Se ci scappa l’incidente e qualche stupido si fa beccare con le mani nella marmellata, se proprio non si può insabbiare, scatta la corsa a minimizzare e a non infierire troppo. Gli arresti domiciliari, gli arresti negati quando si tratta di parlamentari, e male che vada, quando proprio non si può evitare, qualche annetto di reclusione in carcere, sono il massimo che questi galantuomini rischiano. Ci può stare, specie se si è fatto in tempo ad accumulare il malloppo e a metterlo al sicuro, l’importante è non farsi sfiorare da sospetti di collusione mafiosa, perché in questo caso scattano decenni di carcere, sequestri di patrimoni più o meno leciti, allarmi che tornano utili ai disegni di chi ha interesse ad alimentare il clima d’emergenza e contrabbandare pericoli farlocchi per distrarre l’attenzione dalla mafia in pantofole, la sola veramente vincente. Il gioco è facile, perché in quel mondo di principi sacri quale è quello dei mammasantissima è d’uso soffrire in silenzio, issare la bandiera del valore al merito conquistato grazie al cursus honorum di una lunga detenzione e, con la vocazione all’autolesionismo, fungere da utili idioti. Non si vuole certo sottovalutare la portata e l’attualità del problema mafioso e tantomeno elevare i mafiosi a rango di vittime, ma c’è il timore che, ubriachi di antimafiosità, sottovalutiamo la portata e l’attualità del malcostume e del malaffare che sempre più pervadono la nostra società, che sono altrettanto se non più pericolosi del fenomeno mafioso, e per giunta pretendono di manipolarci. Mentre infatti i tragici protagonisti di quella che fu una sciagurata epica mafiosa, trasformatisi in patetici figuranti, vengono utilizzati per lustrare blasoni e coprire maneggi, i boss dei piani alti della politica, seduti in prima fila alla greppia della cosa pubblica, banchettano vestendo i panni dell’intransigenza morale. Ne è testimonianza la sequela di proteste sdegnate e ipocrite che siamo costretti a sorbirci dopo che i Casamonica hanno allestito lo spettacolo kitsch dei funerali del loro capo, folcloristici e di cattivo gusto quanto si vuole, ma che non hanno avuto certo la pretesa di attentare all’autorità dello Stato come vogliono farci credere. E, se è vero, ma non è vero, che degli zingari che non sanno neanche che cosa è lo Stato, volevano sfidare lo Stato, dove erano quelli che avrebbero dovuto impedirlo? E’ vero invece che l’insulto allo Stato prima che gli zingari, lo portano gli uomini delle istituzioni, impegnati a fare i loro interessi invece del bene comune. Eccoli lì i nostri bravi politici e certi giornalisti che reggono loro il gioco, tutti fintamente scandalizzati e indignati, con l’aureola delle vergini violate, pronti a cogliere l’occasione per sfoderare le gramaglie di circostanza, tutti caduti dal pero del loro lindore insozzato! Al riparo della loro faccia di bronzo, questi malandrini dai polsini inamidati hanno buon gioco a mettere in ginocchio l’economia e saccheggiare le casse dello Stato. Razziano a piene mani, evadono il fisco, rubano, corrompono, si fanno corrompere, ora agitando la bandiera del loro impegno contro le mafie usato come specchietto per le allodole, ora non agitando un bel niente, sicuri della loro impunità, con l’arroganza tipica dei veri mafiosi. Il Mezzogiorno che si stacca sempre più dall’Europa e si avvicina al Maghreb, Roma allo sfascio, Fiumicino nel caos, Pompei e le opere d’arte uniche al mondo ostaggio di quattro imbecilli aizzati dal sindacato, la miseria che incombe sempre più inarrestabile e ingrossa le fila dei sempre più numerosi nuovi poveri, specie al sud dove (rapporto annuale sullo stato del Mezzogiorno) ” la crisi ciclica rischia di trasformarsi in un sottosviluppo perenne, il PIL pro capite si è ridotto nel 2014 al 57% del valore nazionale, il numero degli occupati è sceso a 5,8 milioni, il più basso dal 1977, le famiglie meridionali consumano mediamente il 67% di quello che consumano le famiglie del Centro-Nord”, sono i frutti avvelenati che stiamo raccogliendo. Siamo ormai un Paese spaccato a metà, con un Sud da quarto mondo, grazie a questa classe dirigente incompetente, avida, corrotta e miope, autentica mafia insinuata nei gangli vitali dello Stato e composta da veri professionisti delle peggiori nefandezze (e per favore Buccini ci risparmi il suo sarcasmo a proposito dell’equazione mafia=politica bollata come un ritornello populista), che affonda i suoi denti aguzzi nelle nostre carni e non ha neppure l’accortezza di rimpolpare il tessuto da azzannare alla prossima occasione, specchio fedele della nostra società cosiddetta civile, bravissima, specie quella meridionale, a piagnucolare sulla propria malasorte ma incapace di essere all’altezza del proprio riscatto. Di quale riscatto può essere infatti capace una società nella quale imperversano la mancanza di senso civico, l’inettitudine imprenditoriale, le rivendicazioni di assistenzialismo, la retorica antimafiosa che invece di combattere la mafia conclude affari e costruisce carriere, le zone grigie dei cittadini compiacenti che ammiccano con complicità silente e sono il brodo di coltura della mafia, l’ambizione di misurarci in imprese manifatturiere che non sono nelle nostre corde di contro alla sottovalutazione delle potenzialità turistiche sulla quali, grazie ai patrimoni artistici e naturali unici al mondo di cui disponiamo, potremmo costruire il nostro futuro, la mancanza di un progetto di valorizzazione e di recupero delle nostre opere d’arte che, oltre a restituirci il godimento del bello, aiuterebbe a risolvere il problema dei tanti giovani sfornati dalle Accademie di Belle Arti e catafottuti nel girone delle balzachiane illusioni perdute, la furbizia che ci fa ritenere i soli scaltri in circolazione quando invece siamo solo dei cialtroni che sperperano la loro credibilità, la presunzione di provenire da lombi superiori ed avere diritto in Sicilia allo Statuto Speciale, un mostro speciale all’insegna del quale è stato organizzato il festival del privilegio, e via elencando? E mentre ci balocchiamo col nulla, la mafia tradizionale dei dilettanti allo sbaraglio, o quello che rimane di essa, ringrazia. Se nutriva qualche speranza di rialzare la testa, lo Stato gliene sta offrendo l’occasione spingendo ad ingrossare le sue fila un esercito di disperati allo sbando e dalla coscienza fragile che non sa più dove sbattere la testa. Un bel risultato, non c’è che dire!

lunedì 24 agosto 2015

Monsignor Galantino

Monsignor Galantino con la sua reprimenda contro i politici insensibili all’accoglienza, non poteva rappresentare meglio la piroclastica Chiesa di Francesco. Con una franchezza di linguaggio inusuale per un prete, monsignore ci ha impartito una lezione su cosa si deve intendere per accoglienza ai migranti, rivendicata non come frutto della misericordia che un essere umano prova nei confronti di un suo simile, ma come pretesa di un obbligo che trasforma “la religione della carità in ideologia dei diritti” (Marcello Pera, Corriere del 12 agosto). Con tutto il rispetto per monsignore, credo si possa dire che chiunque approdi nelle nostre coste non può pretendere altro che carità, non diritti che non si è guadagnato. Io cristiano non esiterò a condividere le mie risorse con chi è più sfortunato di me e il laico che, pur non obbedendo all’imperativo cristiano, avverte gli stimoli della propria coscienza alla solidarietà, anch’egli non si sottrarrà al dovere morale di soccorrere chi ha bisogno, ma anche se apriamo, come stiamo facendo noi italiani, una splendida pagina di solidarietà nei confronti dei migranti, non per questo dobbiamo abbandonarci a ubriacature ideologiche scambiando il nostro dovere della misericordia con i diritti degli altri. E’ facile proclamare una generosità sconfinata quando non si è chiamati a fare i conti con le necessità reali. I liberali ci hanno insegnato che la cosiddetta libertà positiva, seppure è libertà di volere, ha nel suo esercizio un vincolo che rispetta le libertà altrui, e che i diritti spettano ai cittadini che hanno sottoscritto un patto sociale impegnandosi ad osservare in contropartita dei doveri. Questo impegno nasce da una scelta comune che ha a che vedere con un comune sentire. I migranti che approdano nel nostro suolo sono portatori di una cultura che deve ancora misurarsi con i nostri costumi e la nostra storia e deve guadagnarsi i galloni della cittadinanza attraverso un percorso di avvicinamento alla cultura di chi li ospita. La politica può aiutare i migranti in questo percorso di avvicinamento offrendo soluzioni che diano loro dignità e li aiutino ad integrarsi e, sul fronte interno, educando il popolo alla tolleranza. C’è chi non si sente vincolato agli obblighi della solidarietà, chi è spaventato, chi teme la concorrenza alla propria indigenza, chi ha paura che i propri costumi e il proprio credo religioso vengano travolti, e non merita per questo motivo di essere demonizzato ma di essere aiutato a capire. Come si vede il problema non è semplice e la sfida è di quelle che fanno tremare le vene ai polsi, ma la si può vincere se politica e religione riescono a parlarsi. Certo il dialogo non è incoraggiato dall’intransigenza di monsignor Galantino che straparla di piazzisti da quattro soldi, di harem e relativismo morale, e pretende una misericordia senza limiti da chi i limiti ce li ha ed è costretto a misurarsi con le dure repliche della realtà mentre tenta di affrontare e risolvere le problematiche prodotte proprio dalla avventata generosità alla Galantino. Stupisce che la Chiesa, nonostante sia stata ammaestrata durante il suo millenario percorso dalle lezioni della storia, si sia arenata in una visione semplicistica di un problema così complesso. Ma è la Chiesa di Francesco, la Chiesa che si tuffa nella generosità di una morale visionaria che non vuole sentire le ragioni della ragione, l’unica capace di produrre una carità durevole, e della politica che è l’arte del possibile, che si muove entro i confini imposti all’azione umana, ma che rimane pur sempre la più alta forma di carità (Paolo VI).