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venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale

Buon Natale. Buon Natale soprattutto a chi soffre e sono i più numerosi. Quest’anno in particolare Buon Natale a chi è costretto a vivere il resto della propria vita in carcere, agli ergastolani, crudele augurio di un progetto di vita nuova a chi è condannato a dire addio alla vita.
Mente chi afferma di essere abbastanza forte da affrontare senza cedimenti la mostruosità dell’ergastolo, una tragedia che travolge parecchie vite, la propria e quella di chi è esposto alla sofferenza dell’amore, i padri, le madri, i figli, le sorelle, i fratelli, a vario titolo coinvolti nell’ergastolo e destinati ad un futuro tragico e immenso.
Il credente il quale afferma che bisogna sapere accettare questo castigo, il laico che esibisce forza d’animo affermando che essa è un baluardo alla cui nobiltà non bisogna mai rinunciare, mentono.
L’uomo è lontano dalla santità e indulge piuttosto al rancore, verso se stesso, verso lo Stato, verso Dio per qualcosa che è difficile da capire e da accettare, quel male e quel dolore sui quali ci interroghiamo ma la cui dimensione autentica percepiamo solo allorché ci imbattiamo in essi e comprendiamo in ritardo con che cosa ci stiamo confrontando.
I fantasmi dell’ergastolo affollano la mente e spingono verso una realtà consunta fatta di rimorsi e attraversata da tentazioni perverse, in cui la scelta è obbligata alla resa, in cui ogni giorno, ogni istante sono vissuti all’insegna del fallimento. Esso è analizzato, sezionato, indagato fino al parossismo e al passo successivo, la follia. La solitudine deflagra in tutto il suo fragore ed è lontana dalla feconda fuga dal mondo di un Montaigne.
Buon Natale dunque agli ergastolani nella misura in cui sapranno rigenerare la loro vita e farsi santi.

giovedì 23 dicembre 2010

Della carcerazione preventiva

In un botta e risposta a Otto e Mezzo del 20 dicembre Di Pietro si è sentito accusare da Porro, vice direttore del Giornale, di non essere coerente col suo passato di pm artefice, all’epoca di tangentopoli, di quella stessa carcerazione preventiva che adesso boccia nella versione proposta da Gasparri contro la violenza nelle manifestazioni degli studenti. Di Pietro ha risposto che anche uno studente al primo anno di giurisprudenza sa che la carcerazione preventiva ampiamente impiegata all’epoca di tangentopoli era uno strumento della magistratura contro chi aveva commesso un reato, mentre la carcerazione preventiva proposta da Gasparri è uno strumento che verrebbe utilizzato dal potere esecutivo contro chi ancora il reato deve commettere. Orbene la carcerazione preventiva è già difficile da accettare, (e infatti da più parte se ne auspica una modifica) persino quando ricorrono i requisiti di legge che la rendono necessaria, figurarsi se può essere condivisa allorché viene invocata, come fa Gasparri, contro degli innocenti che ancora non si sono macchiati di alcun reato. Ma è anche vero che la carcerazione preventiva di cui ha abusato Di Pietro all’epoca di tangentopoli aveva come destinatario non, come egli sostiene, chi aveva commesso un reato bensì chi era accusato di avere commesso un reato ed era quindi presumibilmente innocente. C’è una bella differenza che dovrebbe cogliere non dico uno studente al primo anno di giurisprudenza ma almeno un laureato in giurisprudenza che ha esercitato la funzione di magistrato, seppure semi analfabeta. Tranne che non sia in malafede!

venerdì 17 dicembre 2010

La riforma contestata

Intervenuto alla trasmissione “In mezz’ora” di Lucia Annunziata, Gianfranco Fini, commentando il progetto annunciato da Berlusconi di porre mano alla riforma della giustizia come primo atto dopo l’ottenimento della fiducia, si è domandato sarcasticamente se questa riforma sia una emergenza così impellente o se essa non nasca solo dalla preoccupazione di Berlusconi di sottrarsi ai processi. In verità in un successivo passaggio, senza tante fumisterie retoriche, l’on. Fini ha detto chiaramente che l’on. Berlusconi non vuole schiodarsi dalla poltrona di primo ministro per non affrontare i processi che incombono su di lui.
Ora, pur non facendo sconti al Presidente del Consiglio sulle sue reali finalità, è giusto liquidare il progetto di riformare il sistema giudiziario con una battuta sarcastica negandole il titolo di impellenza e relegandola al ruolo di stampella berlusconiana? La giustizia in Italia ha o non ha una sua problematicità che travalica le mire del premier e che è ingiusto sottovalutare aspettando che ad affrontare il nodo giustizia sia un governo gradito all’on. Fini? Non è invece giusto soppesare in tutta obiettività se la riforma è effettivamente necessaria e urgente e se le proposte di riforma sono congrue nonostante il governo che le propone? L’odio di Fini nei confronti di Berlusconi e una sua antica vocazione forcaiola che gli fa vivere con sospetto qualsiasi modifica all’attuale assetto della giustizia come un favore alla delinquenza, non basta ad eludere un problema reale e un progetto per affrontarlo. Né bastano le ragioni di un largo fronte schierato sulla intoccabilità delle prerogative della magistratura di cui si teme la perdita d’autonomia. A dispetto di tutto e in particolare del sarcasmo di Fini, il sempre annunciato e mai realizzato progetto di riforma della giustizia è urgente. Vediamo perché.

La giustizia penale in Italia è amministrata con il criterio così detto accusatorio che attribuisce alla pubblica accusa il compito di dimostrare la colpevolezza dell’imputato. Nella realtà l’onere della prova transita dalla pubblica accusa all’imputato costretto a dimostrare di essere innocente di fronte ad accuse spesso non provate. Nelle more del dibattimento l’imputato è costretto a patire una carcerazione così detta preventiva che anticipa una espiazione inflitta in anticipo rispetto ad una sentenza che potrebbe essere di assoluzione. Non c’è niente di simile in nessun altro Paese al mondo! Non solo ma, essendo i detenuti in attesa di giudizio il 40% della popolazione carceraria, si determina quell’affollamento che è una delle patologie del nostro sistema giudiziario.

I processi hanno tempi biblici sia nel penale che nel civile. I risultati sono nell’un caso di incertezza della status dell’imputato per lunghi anni con conseguenze devastanti per la sua immagine e la sua vita e nell’altro caso di precarietà nella dialettica giuridica delle controversie con evidente danno a persone e imprese e di diffidenza degli investitori stranieri che si tengono lontani da un mercato che non assicura certezza del diritto.

I giudici giudicanti e requirenti appartengono allo stesso ordine. Questo comporta l’inusualità tutta italiana, che non ha riscontro in nessun altro Paese, di un magistrato che decide sulle ragioni di un collega contro quelle di un estraneo all’ordine quale è l’avvocato difensore. Può avvenire inoltre che un magistrato proveniente dall’incarico di requirente passi a quello di giudicante e si trovi a valutare circostanze sulle quali egli stesso ha indagato e comunque porta con se la cultura del pregiudizio accusatorio al quale è stato educato. In queste condizioni si ha ragione di pensare che la gestione del dibattimento non assicuri parità di peso ad accusa e difesa con evidente penalizzazione del risultato processuale.

L’obbligatorietà dell’azione penale in effetti produce una discrezionalità nella scelta delle iniziative da intraprendere da parte del PM che sommerso da notizie di reato è obbligato a decidere a quale attribuire la precedenza. Stando così le cose perché intestardirsi con l’ipocrisia di una obbligatorietà che si traduce in un formidabile strumento nelle mani di una delle due parti in causa senza alcun deterrente che ne limiti eventuali intenti persecutori?

La tanto strombazzata funzione redentrice della detenzione prevista dalla Costituzione e dallo stesso ordinamento penitenziario, è in effetti vanificata dalle condizioni carcerarie frustranti che instupidiscono piuttosto che redimere i detenuti. Uomini costretti a vivere venti ore su ventiquattro in cella senza soluzioni che diano alla loro vita un qualsiasi stimolo, finiscono per coltivare una pericolosa sensazione di vuoto e di disperazione il cui esito può essere drammatico. La cadenza ormai sempre più frequente dei suicidi in carcere ne è la prova.

L’ergastolo è quanto di più stupido e crudele possa immaginarsi come pena al colpevole, anche il più abietto. Che senso ha negare ad un uomo il proprio futuro quando invece gli si potrebbe infliggere una lunga pena detentiva che assolverebbe adeguatamente lo scopo della punizione permettendogli un percorso di riflessione e possibile ravvedimento in vista di uno sbocco alla sua scarcerazione? Un uomo senza futuro è un uomo destinato a inaridirsi, che giorno dopo giorno perde i contorni della realtà e si confina in un suo mondo onirico popolato di deliri, è un uomo che fa del nulla la sua realtà e la traduce in insulsaggine, destinato all’abbrutimento o, se ne ha gli strumenti, alla santità. Ha lo Stato il diritto di lobotomizzare un suo cittadino?

Potrei continuare ancora a lungo ma mi fermo qui e chiedo: i problemi della giustizia sono o non sono reali? E la sua riforma è o non è giusta e urgente?

martedì 7 dicembre 2010

La morale che conviene

Sul “caso per caso” pronunciato dal dott. Ingroia a proposito di Ciancimino jr. Pierluigi Battista ha scritto un articolo che fotografa nitidamente l’abitudine tutta italiana di utilizzare una doppia morale a seconda della convenienza. Di volta in volta si invocano le garanzie a tutela degli amici e si reclama la sospensione dei diritti nei confronti dei nemici. Come scrive in maniera esemplare Battista, “il garantismo, limpido e cristallino quando si tratta di tutelare i propri amici, il proprio partito, il proprio clan, è inesistente quando a essere vittima di una ingiustizia e di uno Stato di diritto fragile come è quello italiano è il nemico” e ancora “strepiti e proteste e firme, quando è uno dei nostri, silenzio, indifferenza e tacita complicità se a essere preso a bersaglio della giustizia politica è un avversario”. Tuttavia in questa doppia morale descritta da Battisti c’è una forma di giustizia data dallo strabismo garantista su cui può contare il cittadino difeso o avversato dai partigiani in servizio permanente effettivo, a seconda della consorteria alla quale egli appartiene. Certo il garantismo nobile che prevede la difesa dei diritti fondamentali persino dell’avversario non è di casa in questo circo farisaico e tartufesco ma almeno chi appartiene ad una parrocchia sa di potere contare su una difesa d’ufficio spesso accordata tanto più quanto più il difeso è indifendibile ma è utile alla causa. Convenienza, militanza, cultura del sospetto, presunzione di superiorità morale, fedeltà ai teoremi, doppiogiochismo e facce di bronzo ci forniscono tutti i giorni esempi imbarazzanti di temerarie costruzioni. Se ne potrebbe stilare un elenco che risulterebbe infinito. Altra storia quella dei cittadini non comuni, i paria, i reietti ai quali non è concesso neanche il garantismo di parte. Essi non sono utili a nessuno, anzi lo sono nella misura in cui forniscono spunto per sussulti orgasmici di massa, materia per la costruzione di rendite di posizione, pulpiti su cui assidersi pontificando di morale, mattatoi in cui si può in tutta tranquillità scannare il diritto e la verità. Di uno di questi impresentabili parla Battisti chiamando in causa Paolo Signorelli, fascista che non ha trovato nessun difensore di parte perché non aveva santi nei paradisi che contano. Cito Battista: “ Non credo di condividere nemmeno una virgola delle cose che Signorelli ha scritto e detto nella sua vita. Ciò non dovrebbe impedire di riconoscere che Signorelli è stato vittima di una mostruosa ingiustizia, patendo dieci anni di galera per poi vedere riconosciuta la sua totale innocenza con una assoluzione piena e inequivocabile. Dieci anni di galera da innocente: e solo perché un teorema giudiziario aveva indicato Signorelli come la mente ideologica dello stragismo nero. Una vergogna politica, morale, giudiziaria………….che non è stata mai denunciata.” Battista si limita ad un caso di mala giustizia politica perché la sua sensibilità lo proietta verso questo tipo di orizzonte, io, per l’esperienza che ho vissuto, ho conosciuto un altro tipo di mala giustizia altrettanto se non più drammatica in cui il posto d’onore spetta agli imputati di mafia. Nel carcere di Opera ho conosciuto un detenuto condannato all’ergastolo per l’eccidio di via D’Amelio in una stagione in cui la deriva forcaiola doveva consegnare all’opinione pubblica dei colpevoli purchessia, scagionato da uno degli ultimi pentiti di mafia e ancora, dopo 15 anni di detenzione da innocente, in galera senza che lo Stato provveda alla revisione del processo. C’è niente che possa giustificare tanta infamia e c’è chi difenda quest’uomo? O il suo marchio mafioso lo rende indifendibile e lo assoggetta a quella che Battisti definisce una “ velocità plurima “ che marcia velocemente o lentamente a seconda dei casi? Denunciare questo episodio è legittimo o debbo aspettarmi un’altra carrettata di contumelie?

mercoledì 1 dicembre 2010

La crisi dello Stato


Credo sia giunto il momento di chiedersi se l’Italia ha ancora titolo per chiamarsi Nazione.
Se vale il concetto di Nazione inteso nel senso rousseauiano di corpo al quale vengono affidati i diritti dei singoli per ricavarne una sovranità nazionale la cui obbedienza “ ci forza ad essere liberi “, l’Italia non è più una Nazione. Il desolante panorama che abbiamo di fronte parla di oppressione anziché di libertà, perché non hanno funzionato le salvaguardie pensate da Constant contro il rischio di un indirizzo autoritario della volontà generale e perché è mancata la classe dirigente.
La libertà e l’autonomia individuali sono state invase e sacrificate e la così detta religione civile è diventata un simulacro che si nutre di una sacralità vuota e procede per miti in una parvenza di democrazia imbalsamata nelle sue liturgie. E mentre i soliti sacerdoti si baloccano con i refrains di una stagione giunta al capolinea invocando l’intoccabilità della costituzione, la divisione dei Poteri e il rispetto dei relativi ruoli , l’inviolabilità della volontà popolare, la sovranità del Parlamento, la solennità delle garanzie costituzionali, le” magnifiche sorti e progressive “ della nostra democrazia, nel cui funzionamento tutte le parti politiche giurano di impegnarsi, mentre imperversano parole vuote, i nostri pensionati vengono consegnati ad una vita di stenti, i giovani sono lasciati alla mercé della loro disperazione, la nostra cultura e le nostre opere d’arte sono abbandonate allo sfascio, le imprese a se stesse e le nostre città al degrado, la nostra immagine nel mondo è sporcata dalle organizzazioni criminali ma anche da certi nostri impresentabili governanti, il Paese è ostaggio della piazza, i Poteri si accapigliano fra loro.
Si cominciano ad avvertire i sinistri scricchiolii della catastrofe mentre la nostra classe dirigente produce politici litigiosi che hanno a cuore interessi particolari, che riescono ad esprimere le loro elevate virtù al massimo issandosi sui tetti a caccia di visibilità, che fanno volare il debito pubblico al doppio dello standard europeo indicato quale soglia a garanzia della messa in sicurezza, che sperperano, corrompono e si fanno corrompere per fini miserabili, che sfasciano il tessuto sociale e produttivo e distruggono la vita e le garanzie dei cittadini facendo della giustizia il tempio dell’ingiustizia. In questo clima proliferano gli imbonitori e i tribuni servi delle opposte ideologie che confondono l’opinione pubblica e soffiano sul fuoco di faide insanabili. In questa che è una vera e propria rimozione del concetto di bene comune, matura e si consuma il dramma degli orfani del sistema, di chi non ha la protezione della consorteria d’appartenenza, dei paria senza visibilità che hanno perduto la speranza del futuro e si dibattono nella loro impotenza, ma si consuma anche la deriva di un Paese ormai allo sbando senza che i protagonisti di esso provino vergogna e abbiano l’intelligenza di capire che gli interessi particolari finiranno per travolgere deboli e forti indifferentemente e che è necessario un comune impegno che metta il Paese al riparo dal default che prima o poi, ma piuttosto prima che poi, busserà alla nostra porta.
Un paese così fatto può ancora chiamarsi Nazione? E la sua classe dirigente che procura lutti e sofferenze, che si è appropriata dei nostri diritti impedendoci di essere liberi, che non ha la credibilità morale e la forza per esercitare la sovranità nazionale, si discosta molto dai mali che pretende di guarire?