Visualizzazioni totali

sabato 26 luglio 2014

Un grido liberatorio



Nell’articolo apparso sul Corriere della Sera di giovedì 3 Luglio, a commento della scomunica ai mafiosi pronunciata da Papa Francesco, Corrado Stajano definisce l’anatema un evento dal sapore evangelico, un grido liberatorio contro un ambiguità secolare.
Stajano prende le mosse dalla descrizione della ferocia delle mafie e della ‘ndrangheta in particolare, per fare una dettagliata cronaca dei misfatti più crudeli della criminalità organizzata e bacchettare la passata tiepidezza della Chiesa Cattolica, la sua incapacità di giungere prima di Francesco alla scomunica.
Naturalmente Stajano, da abile giornalista quale è, sa toccare le corde giuste, chi può non essere d’accordo con lui nella condanna di un mondo sciagurato che ha causato tanti mali? Ma parlare di gesto evangelico per definire una scomunica, mi sembra troppo.
Io sono fermo al Vangelo che predica misericordia, e a Stajano, intollerante fino al punto di esultare per un gesto di intransigenza religiosa ed allinearsi con una etica manichea che vede il male tutto da una parte, chiedo se ha mai scoperchiato i tombini da cui fuoriescono i miasmi di un universo scellerato di cui tutti siamo responsabili. Intransigente contro il male che attenta al bene della società, si è mai chiesto se non ci sia anche un male che la società infligge a sua volta e che gli schizzinosi sacerdoti del perbenismo di facciata si guardano bene dal denunciare?
Cosa sa Stajano dei detenuti costretti a sopportare inumane condizioni di vita in carcere, dell’ipocrisia di una normativa che proclama la retorica del recupero e pratica l’emarginazione, delle angherie di uno Stato che invece di dispensare giustizia, consuma vendette. Della promiscuità che condanna a vivere come in delle stie una umanità privata della dignità e dell’amor proprio, del dolore altrui che dilaga e invade, come una malattia infettiva, anime già provate dal proprio dolore? E sa qualcosa Stajano dell’inferno del 41bis che seppellisce creature di Dio e le condanna alla pena più crudele, quella di essere private dell’affetto dei propri cari, lì, a pochi passi, che quasi li puoi toccare e ne sei impedito da un vetro divisorio per mesi, per anni? Per mesi, per anni, non senti la loro carne, il loro odore, il loro alito, il loro cuore che batte, e hai la sensazione sempre più disperante che la loro carne, il loro cuore, i loro tratti si dissolvano in ectoplasmi sempre più distanti, estranei, astratti.
Che ne sa Stajano di quello che passa per il cuore di un ergastolano, delle sue terribili notti da affrontare quando i demoni si avventano sulla sua fragile coscienza e li addentano tentandola al suicidio?
Che ne sa del suo disgusto per la viltà che l’attanaglia e gli impedisce di compiere il gesto estremo, delle interminabili giornate passate ad apparire forte mentre l’inferno arde dentro le sue viscere?
Che ne sa delle vittime innocenti, i familiari dei detenuti costretti da una normativa che prevede la detenzione in carceri distanti dal luogo d’origine e dalle ristrettezze finanziarie, a diradare i colloqui e perpetuare una lontananza che col tempo fa sfiorire gli affetti?
Sicuramente Stajano non sa niente di questo inferno e sennò, ne sono certo, avrebbe levato, fermo e sdegnato, il suo grido di condanna dal sapore, oltre che politico e civile, anche evangelico!