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domenica 27 marzo 2016

Guerra di religione


Quando sento parlare di guerra di religione tra cristiani e musulmani e di santuari jihadisti a Molenbeek e nelle banlieues parigine, penso a Mazara del Vallo dove i tunisini si sono inseriti operosamente e pacificamente convivendo con gli autoctoni senza che la loro cultura e la loro religione  diventassero vessillo di un proclama di guerra, come invece avviene in altre parti d’Europa. Ciò è potuto accadere perché a Mazara la comunità tunisina, pur non rinunciando alla propria lingua, ai propri costumi, alla propria religione, non ha fatto di questa identità uno strumento di lotta contro le regole della società che la ospita, e non si è relegata in una sorta di autoemarginazione rancorosa. Quelle regole i tunisini di Mazara le hanno accettate e con i mazaresi convivono in un rapporto di fruttuosa collaborazione. Entrambi si riconoscono figli dello stesso contesto che vivono in assoluta armonia. Gli Imam a Mazara non temono la contaminazione ad opera dei costumi occidentali, sanno che il loro gregge è destinato ad essere influenzato dalla cultura occidentale ma sanno anche che il loro credo religioso non corre alcun pericolo. Nel resto d’Europa l’integrazione è fallita e i figli di seconda generazione dell’ondata migratoria, nati europei, non si riconoscono nella cultura europea. Confinati nelle loro enclaves, non sono usciti mai dal perimetro del loro assolutismo culturale e vivono idealmente nei Paesi d’origine che non hanno mai conosciuto e di cui ignorano la lingua ma che portano nel cuore come la stigma di una identità orgogliosa in conflitto con i costumi occidentali, coltivando con rancore la loro emarginazione. Alla mercé del loro travaglio identitario,  prede della rabbia per la loro condizione, rispondono solo con la violenza al loro disagio e scivolano nella radicalizzazione promossa da chi ha interesse a manipolarli. Diventano così carne da macello in mano all’Isis che combatte lucidamente e cinicamente una guerra politica facendo dello stendardo religioso la bandiera che gli europei islamici issano sulle macerie delle loro vite fallite, vittime della loro incapacità di accettare il loro status di europei e dell’Europa che non ha saputo guidarli all’appuntamento con la loro nuova identità culturale, vittime infine  dell’Islam estremista che li ha trasformati in schegge impazzite. L’Isis dalle sue roccaforti di Raqqa, Mosul, Sirte, ringrazia la miopia dell’Occidente che con le sue incursioni in Iraq e in Libia e con le alleanze che ha scelto di intrecciare nel Medio Oriente in difesa di interessi inconfessabili, si è lasciato risucchiare nel pieno di una guerra che infuria non in nome di una identità religiosa rispetto ad un’altra ma in nome di un potere politico che ha a cuore concretissimi interessi, e ha offerto l’alibi per la proclamazione della guerra santa. Gli utili idioti nelle vesti dei kamikaze mandati al macello dall’Isis e gli altrettanti utili idioti nelle vesti dei governanti occidentali, sono due facce diverse della stessa medaglia che gli inermi cittadini europei stanno pagando a caro prezzo.

mercoledì 16 marzo 2016

Carmelo Musumeci, del 41-bis e dell’ergastolo ostativo


Sul Corriere della Sera di martedì, Pietro Ichino, a commento dei libri di Elvio Fassone “Fine pena: ora” e di Carmelo Musumeci, coautore assieme ad Andrea Pugiotto del libro “Gli ergastolani senza scampo”,  affronta il problema dell’ergastolo ostativo e della detenzione in regime di 41-bis, denunciando la contraddizione tra pene così dure e il recupero del reo. Finalmente una penna prestigiosa affronta due problemi che costituiscono un vulnus della nostra democrazia e che, con l’eccezione dei radicali, vengono ignorati dai nostri intellettuali o, quando affrontati, liquidati con l’alibi della sicurezza. Sono problemi di cui anche io in passato mi sono occupato tentando di sensibilizzare con alcuni post sul mio blog l’opinione pubblica ad un approccio più equanime nei confronti di essi. Risultato: mi sono guadagnato insulti e l’accusa di combattere una battaglia sospetta, visto che ho un figlio all’ergastolo in regime di 41-bis e io stesso sono un condannato per mafia. Ma non mi tiro indietro, so che cosa si nasconde dietro la parvenza di una crudeltà necessaria che spesso si traduce in una crudeltà gratuita. Nel mio romanzo, “La vita di un uomo”, che ha visto la luce recentemente, descrivo il mondo di dolore in carcere con la sua epica scellerata e le sue storie drammatiche fatte di abusi e di violenze, di abbrutimento maturato anche grazie alla inadeguatezza dello Stato. Dopo decenni di detenzione senza speranza cadenzati dallo spettro del “fine pena mai”, dopo un regime inumano quale è quello del 41-bis che trancia i rapporti con il resto dell’umanità, il detenuto convive solo col rumore dei propri passi, perde il senso della realtà vera e si rifugia nella realtà fittizia dei propri fantasmi, naviga in un mondo che costruisce a seconda dei mezzi di cui dispone, è un vegetale con la mente svuotata che arranca senza più alcun tratto della sua originaria identità e spesso giunge all’appuntamento col suo pensiero onirico latente, il suicidio. Altro che recupero. Sono dunque grato al professore Ichino per avere egli colto la necessità di ripensare in una chiave più garantista due problemi così drammatici, ma debbo dissentire da lui quando afferma che la detenzione in regime di 41-bis  non ha una funzione punitiva bensì risponde ad esigenze di sicurezza. Certo non si può fare a meno di ricordare da che cosa nasce l’esigenza del 41-bis, ed è giusto rilevare che le lastre di vetro che impediscono a moglie e figli di accarezzare il detenuto, non debbono far dimenticare le lastre di marmo che separano le vittime di mafia dai loro cari. Però, c’è un però. A parte la considerazione che nessuna esigenza di sicurezza può giustificare tanta disumanità e che lo Stato non può smentire se stesso tradendo il proprio ruolo di baluardo dei diritti fondamentali e di garante del rispetto della Costituzione, bisogna avere l’onestà di ammettere che spesso sull’attualità di questa esigenza si bara creando un allarme ingiustificato e con esso il pretesto per infliggere una detenzione punitiva. Nessuno può sostenere in buona fede che un detenuto, dopo decenni di carcere, dopo l’interruzione per tutti questi anni di qualsiasi contatto col mondo esterno, sia ancora lo stesso uomo di prima e costituisca ancora un pericolo per la società, specie considerando le condizioni ambientali mutate rispetto ai decenni precedenti che rendono improbabile il contatto del detenuto con una realtà ormai a lui estranea e inattuali le possibilità di reiterazione del reato. E allora bisogna avere l’onestà di riconoscere che l’ergastolo ostativo e il 41-bis applicato senza tener conto delle mutate esigenze, contraddicono il dettato costituzionale ed hanno una funzione punitiva, anzi vendicativa.

venerdì 4 marzo 2016

Il caso Panebianco

Una certa Italia conformista e ipocrita che nega l’evidenza e sembra non avvertire il senso del ridicolo, ama gingillarsi col pacifismo ad oltranza a dispetto dei pericoli che incombono ai nostri confini. I latini, che qualcosa avevano capito di come va la vita, solevano ammonire: “Si vis pacem, para bellum” e non potevano immaginare che i loro discendenti ribaltassero un concetto così lapalissiano pretendendo di combattere contro le avanguardie dell’Isis alle porte di Lampedusa a suon di slogan buonisti. I sacerdoti dell’imbecillità autolesionistica che gridano allo scandalo, riescono ad essere combattivi solo quando c’è da aggredire un inerme cattedratico, il professore Panebianco, per avere egli espresso il suo punto di vista sulla demenziale tendenza tutta italiana a rimuovere il concetto di guerra dal nostro scenario mentale e linguistico, quando tutti sappiamo che la guerra è una maledetta costante sempre in agguato data la natura hobbesiana dell’uomo, ed è combattuta in ogni angolo della terra continuamente. Preparare la guerra, parlarne come di una eventualità sciagurata da scongiurare con ogni mezzo ma che a volte è inevitabile, non significa essere guerrafondai ma attenti alla propria sicurezza. E poi il modo. Possiamo anche dissentire e, in preda a un masochismo tafazziano, combattere utopiche battaglie di retroguardia facendoci ridere appresso da chi non dimentica le nostre passate ambiguità, ma il diritto a dire la nostra non ci autorizza a tacciare di assassino chi non la pensa come noi. Il punto è che, come giustamente sostiene Ernesto Galli della Loggia, in Italia manca la capacità di dibattere civilmente e costruttivamente. Abituati alle risse dei talk show in cui il buon senso è quasi sempre latitante, in cui è legittimato il trionfo delle ovvietà e viene demonizzato chi osa dissentire dal politicamente corretto, non riusciamo non solo a venir fuori dalla omologazione del nostro modo di pensare ma neanche a rispettare l’estetica dei nostri comportamenti, come accade quando pretendiamo di imporre le verità preconfezionate dal pensiero dominante, di pontificare che tutto il buono è dalla nostra parte e tutto il male dall’altra parte, di individuare le categorie del male convenzionalmente stabilite e ignorare i propri scheletri nell’armadio, ricorrendo alla violenza non solo fisica ma morale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti ed hanno trovato degna espressione nelle contestazioni all’università di Bologna.