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giovedì 31 dicembre 2009

La mistica della carne

La mistica della carne




Mi sono avvicinato con curiosità alla lettura del libro di Fabrice Hadjadj, "La mistica della carne", sperando di trovarvi quel che cercavo. E l'ho trovato! E' un libro in cui l'autore, filosofo arabo convertito al cattolicesimo, restituisce alla carne una dignità da sempre negata dal dualismo tra corpo e spirito e dalla fede cattolica secondo cui il piacere del corpo e l'amore carnale sono da considerare un peccato incompatibile con la fede in Dio e la spiritualità dell'anima.

Ebbene Hadjadj sostiene che non c'è incompatibilità tra spiritualità e sessualità e che tra Dio, Cristo e la carne c'è alleanza. Naturalmente Hadjadj parla di corpi che hanno un'anima e di sesso ricco di una propria sensibilità, di una propria coscienza, oseremmo dire, di un proprio progetto e di un fondamento anche teologico: l'incarnazione di Gesù Cristo, la resurrezione dei corpi, il sesso progettato da Dio per la procreazione degli eletti. E d'altronde Hadjadj è in buona compagnia. Prima di lui Fromm ha teorizzato l'amore come sentimento attivo, conquista e anelito verso l'alto, la più alta espressione di potenza e un filosofo francese contemporaneo, Jean Luc Marion, nel suo libro " Il fenomeno erotico " sostiene che l'amore, anzi l'amore erotico, è la base della conoscenza, sostituendo "cogito ergo sum" con "amo ergo sum": "l'uomo si rivela a sè stesso attraverso la modalità originaria e radicale dell'erotico", l'amore è inteso come carne che testimonia di essere accettata e "l'essere è oggetto di desiderio dell'altro" come prova che esiste.
Ho sempre pensato che la cesura tra res cogitans e res extensa operata da Cartesio il quale parla di due sostanze parallele destinate a non incontrarsi, sia artificiosa e che non ha senso tenere separati pensiero e materia.
Lo stesso Aristotele parla di sinolo di forma e di materia in cui la materia ha una sua funzione e una sua dignità, e Benedetto XVI, nella enciclica "Deus caritas est", parla di amore di possesso e amore oblativo, di eros e agape e li coniuga facendoli confluire e fondere in una sintesi appagante.
Con un pò di coraggio il cattolicesimo si potrebbe spingere a rivedere la sua morale sessuale, "questo topo morto che avvelena i pozzi" (Hadjadj), anche perchè i peccati della carne sono assai meno gravi dei peccati dello spirito, ed è riduttivo attribuire ai precetti cristiani il ruolo di mastino della morale sessuale che intende il sesso come disordine, dipendenza e riduzione dell'altro a puro oggetto anzichè espressione gioiosa e delicata di amore e di desiderio.
Immaginiamo il rapporto sessuale tra due amanti in cui l'uomo desidera l'amata e appaga il suo desiderio possedendola ma in cui a poco a poco sente che il desiderio di possedere si trasforma in desiderio di donare. Vede la sua generosità trasfigurare il volto dell'amata il cui sguardo estasiato e rapito diventa il sigillo di un percorso che si conclude nell'unità trovata, nel sinolo di forma e materia, nelle atmosfere rarefatte di mondi a lungo cercati.

martedì 29 dicembre 2009

Lettera a Gesù

L'indignazione con cui da più parti è stata accolta la lettera a Gesù di Di Pietro, stupisce ancora di più della improntitudine della lettera stessa. Perché indignarsi?
Ci indignamo forse perché gli uccelli cinguettano, perché la notte succede al giorno e la morte alla vita, perché gli alberi danno frutti, il sole sorge e la luna si staglia bianca nel cielo?
Sono categorie scontate che abbiamo imparato ad accettare senza alcuna discussione.
Di Pietro e il suo modo d'essere appartengono a queste categorie e dunque non ha senso scandalizzarsi leggendo le ovvietà contenute in una lettera che ricalca un copione stantio con il quale avremmo dovuto imparare da tempo a convivere.
Di Pietro ci ha abituati alla consacrazione della sua natura assoluta e pura e, se ci muoviamo a compassione per Tartaglia invocandone il ricovero in manicomio, dobbiamo essere capaci di nutrire altrettanta commiserazione per il delirante bardo del giustistialismo nostrano disperatamente impegnato a dare un contenuto morale alla sua politica stracciona.

martedì 22 dicembre 2009

Buon Natale

Ho vissuto parte della mia vita tra le mura di un carcere e non posso dire che di essa senta la mancanza.
E' un'esperienza drammatica che segna e fa vivere una condizione innaturale:
la mancanza di libertà.
Non c'è niente di peggio!
Tuttavia non avuto alcun dubbio, uscendo dal carcere, che si stava affacciando alla libertà un uomo nuovo, diverso e, per certi versi, migliore rispetto all'uomo che vi era entrato.
Non ho dubbi che, se scrivo come scrivo, se sento come sento, se amo come amo, se ho imparato a conoscermi, a esplorare la mia intimità e a viverla facendo di ogni momento una frazione di eternità, a goderne succhiandola avidamente con la sensazione di una proiezione verso orizzonti infiniti in cui tutto è ancora da vivere, debbo ciò alla mia detenzione.
La mia vita oggi è divisa tra la parte di me che ho lasciato in carcere e quella che vivo fuori dal carcere, ma a Natale le due parti si uniscono e vivono per intero con i miei compagni, con la loro nostalgia struggente, con il loro disperato desiderio degli affetti lontani.
Che Dio li assista!

mercoledì 16 dicembre 2009

Maîtres à penser

La vicenda dell’aggressione a Berlusconi è il conto salato presentato alla cultura liberale del nostro Paese. Ci compiacciamo che, in una democrazia compiuta, le minoranze siano tutelate ma, ahinoi, piangiamo le conseguenze della nostra tolleranza. Certe minoranze infide, annidate nel corpo della democrazia, tentano di corroderla con il tarlo della faziosità e della arroganza, rivendicando una loro superiorità morale e intellettuale. Questi improbabili filosofi che, rifacendosi a Platone, pretendano di ispirare la cosa pubblica con i loro talenti, sono i novelli maîtres
à penser che avvelenano la nostra democrazia, i cattivi maestri di masse incolte istigate all’odio e alla violenza.
Ha ragione Umberto Ambrosoli quando sostiene che, rispetto agli anni ’70, oggi non si possono invocare i fermenti sociali quali detonatori della violenza, c’è solo il frutto dei semi dell’odio sparsi da chi non tollera di essere minoranza ininfluente. E’ la sindrome da delirio di chi ritiene di essere ingiustamente emarginato e vive la propria sorte con la rabbia del torto subito, una sorta di stupore per essere stato leso nella propria maestà.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti e Di Pietro è il volto livido di una minoranza autoreferenziale, astiosa e supponente.

mercoledì 9 dicembre 2009

Antonio...

Coltivo la corrispondenza con alcuni detenuti che sono stati miei compagni fino a pochi mesi fa. Sono lettere intrise di nostalgia nel ricordo di un rapporto che la mia conquistata libertà ha interrotto. Evochiamo passeggiate e dialoghi interminabili nei cortili delle carceri ripromettendoci solennemente di riprenderli in un futuro più o meno prossimo.
In tanti mi scrivono della sofferenza che patiscono senza darmene una motivazione che pure è intrinseca alla detenzione, altri lamentano che i rapporti con la direzione non obbediscono a quel minimo di buon senso che è ingrediente insostituibile nella gestione di una polveriera quale è il carcere. E’ difficile accettare la logica di regolamenti che non danno certezza di nulla e che vengono interpretati in maniera diversa in ciascun carcere in base all’insindacabile convincimento di ciascun direttore piuttosto che secondo una obiettiva lettura delle regole ed ecco che l’incidente in agguato dietro l’angolo di ogni giornata del detenuto rischia di materializzarsi alla prima occasione.
Ho ricevuto una lettera di Antonio detenuto a Voghera il quale, non avendo la possibilità di navigare in rete e di partecipare ai dibattiti che si svolgono in essa, mi chiede ospitalità nel mio blog. Pubblico volentieri la sua lettera e lo stesso farò con tutti i detenuti che me lo chiederanno.

Scrive Antonio:
“Ho letto le fotocopie dei file pubblicati nel tuo blog con i tuoi scritti e gli insulti che ti rivolgono i turpiloquianti i quali vorrebbero zittirti in nome di una loro pretesa superiorità morale e di una logica che certamente non si ispira ai principi di tolleranza. Vorrebbero carcerare il tuo pensiero come hanno carcerato per anni il tuo corpo non capacitandosi della tua condizione di uomo libero.
Osho Rajmeesh scrive ne “La grande sfida” : “La società sta andando a rotoli a causa del concetto di democrazia, poiché in una democrazia la norma è dettata dal denominatore comune più basso: è questo a decidere chi governerà ed è purtroppo l’elemento più ignorante e privo di intelligenza. Sono le masse a dare forma alla società.”
Oggi, con l’accesso da parte di tutti, tranne che da parte dei detenuti in carcere, alla tecnologia, le masse hanno la possibilità di scaricare le proprie frustrazioni contro tutto e tutti, magari proprio contro chi vorrebbe con tutta l’anima tentare di costruire un mondo migliore persino per i turpiloquianti ignoranti e beceri. Certo è che non saranno i dissensi irragionevoli di chi ha una visione della vita limitata al proprio ombelico a scoraggiarci, ti pare? Per cui scrivano tutti qualunque cosa vogliono, dichiarino pure, come ha fatto CIA, la loro speranza che il tuo blog sia presto chiuso, noi andremo avanti raccontando le storie di questo spicchio di mondo dove la sorte ci ha voluto relegare. Qui siamo e da qui leviamo il nostro grido al cielo e a chi vorrà ascoltarci.”

Risponde Nino Mandalà:
Antonio prende lo spunto da una banale vicenda di intolleranza in rete per accendere una antica diatriba su libertà o democrazia.
E’ vero che la volontà generale di Rousseau ha celebrato la nascita del dispotismo democratico in cui “le masse ignoranti e prive di intelligenza “ pretendono di “dare forma alla società”, ma non c’è motivo di sposare il pessimismo di Rajmeesh perché, grazie al cielo e alle conquiste del pensiero liberale, il dispotismo democratico si è evoluto nella moderna democrazia costituzionale che prevede la separazione dei poteri e la difesa delle minoranze. Semmai il pericolo si annida nella pretesa di alcuni rappresentanti dei poteri istituzionali di intendere la loro funzione come una missione legibus soluta che rischia di instaurare una nuova forma di dispotismo, quello cioè di uno Stato etico affidato al governo degli uomini d’oro di platoniana memoria.
Non mi preoccuperei più di tanto degli anonimi che invadono le reti “scaricando le loro frustrazioni” e li liquiderei con la lapidaria risposta data a questi galantuomini da Marina Salvadori nel suo blog: <>.

martedì 17 novembre 2009

Peppe

L’aspetto ieratico, la candida barba, uno sguardo fiero e dolce insieme, fanno di Peppe un personaggio inconsueto tra la popolazione carceraria. Lo notai mentre, incedendo indifferente a quanto gli accadeva intorno, il labbro increspato da un sorriso appena accennato e ironico, entrava nella sua cella o, meglio, vi si barricava tirandosi alle spalle il blindo e chiudendo fuori il mondo esterno. Non lo vidi per giorni perché Peppe rifuggiva dalle consuetudini carcerarie e non scendeva a passeggiare. Incuriosito, chiesi notizie e appresi che Giuseppe Perini detto Peppe e inteso l’Intellettuale incuteva rispetto e al contempo diffidenza per la sua intelligenza che tutti ammiravano e per la sua guascona sfida alle Istituzioni che altrettanti valutavano con perplessità. Peppe, condannato a una pena di ventotto anni per traffico di droga e concorso esterno in associazione mafiosa, si definiva anarchico e prigioniero di Stato. Aveva scritto parecchi libri editi a sue spese e destinati ad un ristretto pubblico di parenti e amici, disponeva di un sito grazie al quale corrispondeva con un buon numero di persone, era socio di Antigone, collaborava con giornali di nicchia ignoti ai più, argomentava con la strampalata logica cara agli anarchici, sostenendo battaglie generose quanto improbabili, era fuori dal mondo ma aveva realizzato la sua utopia e la viveva incurante di una detenzione che disprezzava. Era l’unico detenuto con cui l’amministrazione carceraria evitava di scontrarsi perché egli si sottraeva alle categorie e ai rituali cui gli altri obbediscono e che sono il comune denominatore di una scellerata e innaturale complicità fra carcere e detenuto.
Egli dunque alloggiava in cella singola, custodiva una vera e propria biblioteca personale, riceveva chili di posta ogni giorno con dentro libri che ad altri venivano negati, era esente dalle consuete angherie che secondini dalla luna storta o una normativa demenziale infliggono ai comuni detenuti, viveva in solitudine la sua fiera diversità senza per questo assumere atteggiamenti spocchiosi nei confronti dei compagni ai quali anzi dedicava il suo tempo quando era necessario.
Con me fu un colpo di fulmine. Mi guardò dall’alto della sua stazza e mi concesse la sua familiarità, anzi fece di più, si abbandonò a valutazioni lusinghiere sul mio conto e mi informò che aveva rispetto sia per la mia età che per la mia storia. Aveva letto di me e delle mie vicende giudiziarie e, piccandosi di percepire l’intima essenza del suo prossimo al primo approccio, proclamò di riconoscermi fin dalle prime battute e mi accolse nella ristretta cerchia delle persone che stimava e che si limitavano a due: io e lui!
In effetti ci accumunava la passione per la lettura e la scrittura ma soprattutto per quello che avevamo tratto dalle letture, l’ingenua, commovente convinzione che il mondo andasse affrontato senza tanti riguardi che non fossero quelli per la nostra ingenua, commovente convinzione ma anche senza tante illusioni. Scoprimmo di essere entrambi Ariete e questo spiegava tutto!
Prendemmo l’abitudine di passeggiare assieme tra lo stupore di chi non si capacitava di vedere Peppe mescolarsi agli altri, ma in verità riuscivamo a isolarci anche in mezzo alla gente. E fu così che conobbi veramente Peppe, uomo di grandi passioni come tutti i trapanesi di un certo tipo, dal passato avventuroso e pieno e con la capacità di giocarsi ogni cosa con sciagurata noncuranza.
Lo sguardo rapito e lontano, un sorriso malinconico di traverso al suo volto solenne, parlava a sè stesso più che a me di un mondo perduto, di giorni che non verranno, di proclami che erano un grido di impotenza, di un destino senza speranza. Lo osservavo ammaliato e intenerito e invidiavo il suo lirismo ingenuo, la voglia di progettare nonostante tutto, di prendere il mondo per il bavero e sfidarlo dimentico delle sconfitte subite, mentre il desiderio di sognare tornava a fare capolino nel mio cuore dopo anni senza più illusioni.

martedì 10 novembre 2009

A proposito del Crocifisso

La sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo contro la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche poggia sul malinteso di “assimilare il Crocifisso con la religione confondendo quest’ultima con la Chiesa intesa come istituzione secolare” (Ostellino).
È’ strano che la Corte, nata per tutelare i diritti individuali, non colga il senso di appartenenza del Crocifisso alla coscienza individuale e, anziché proteggerlo, lo combatta. Potremmo liquidare l’argomento sventolando sotto il naso dei giudici di Strasburgo i risultati di un sondaggio che “evidenzia come la grande maggioranza (84%) degli italiani sia favorevole al mantenimento della presenza della Croce nelle scuole” (Mannheimer), ma non vogliamo essere così spicciativi e vogliamo argomentare con considerazioni che attengono al significato del Crocifisso. Esso è indubbiamente il simbolo della sofferenza e dell’amore e parliamo di sofferenza umana non divina che sarebbe una contraddizione in termini. Evoca dunque un episodio storico di grandezza umana piuttosto che una rivendicazione religiosa e già per questo appartiene a tutti gli uomini. Ci ricorda una testimonianza eroica alla quale la fragilità umana ha fatto riferimento durante i secoli sforzandosi, senza riuscirci, di farsene interprete e alla quale ha il diritto di continuare a ispirarsi. Il cristiano ha scelto di imboccare la via della Croce non perché gli è stato imposto dalla Chiesa ma perché in essa (Croce) si identifica e su questa scelta ha costruito la storia dell’Occidente. Proibire il Crocifisso significa rinnegare questa storia e consegnarsi ad un moloc privo d’anima, ad una divinità autoreferenziale che antepone alle aspirazioni del singolo la propria intransigenza. Il laicismo, in quanto ideologia intollerante, diventa esso stesso religione e, sulle orme di passate intransigenze che hanno cancellato i simboli e l’anima dei popoli, pretende di sacrificare sull’altare della propria utopia il cammino di valori guadagnati dal popolo cristiano durante secoli di storia. Realizzando la propria stupidità la Corte di Strasburgo ha teorizzato uno stato laicista che non rappresenta alcun valore e ha dimenticato una delle lezioni più importanti del pensiero umano secondo cui “il predicato generale esprime l’essenza del soggetto” (Aristotele).

venerdì 6 novembre 2009

Stefano

Stefano Cucchi è morto sul fronte della crudeltà nella gestione della detenzione in Italia.
Pur non conoscendo ancora l’esito delle indagini della magistratura, la cronaca del calvario di Stefano semina di indizi sinistri il percorso che lo ha portato alla morte. Ecco la cronaca di questo decesso ricavata dal Corriere della Sera:“C’era sangue nel suo stomaco e pure nella vescica. E poi un vasto edema cerebrale, ecchimosi sul volto, traumi multipli e due vertebre rotte. Stefano dice di essersi procurato tutto ciò cadendo dalle scale
Il giudice si accorge di quegli strani segni sul volto, così dispone che il medico del tribunale lo visiti. Il referto parla di “lesioni ecchidomiche bilaterali in regione palpebrale inferiore e lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”. Stefano chiede comprensione: “Sono epilettico,tossicodipendente e sieropositivo”. Vorrebbe andare ai domiciliari oppure tornare in comunità dove in passato aveva provato a disintossicarsi.
Il magistrato conferma il fermo.
Stefano rientra in carcere dove inizia lo sciopero della fame. Visto il peggioramento delle condizioni viene trasferito in ospedale.
. Dopo 4 giorni passati digiunando, sul letto d’ospedale, senza mai vedere i suoi genitori,bloccati alla porta dai secondini, Stefano sta ormai morendo.”
Vi abbiamo raccontato una storia di ordinaria follia in cui qualcuno si è ricavato il ruolo di boia, altri quello di comprimari indifferenti alla sorte di un ragazzo e che evoca inquietanti ricordi in chi, come me, ha conosciuto la detenzione.
E’ caduto dalle scale? I detenuti sono i primi complici dei loro aguzzini e non li accuseranno mai sia per timore di ulteriori ritorsioni sia per un malinteso senso di omertà. Le ecchimosi, le fratture sono solo sfortunate conseguenze del caso!
Quattro giorni di sciopero della fame? Non possono impressionare chi ha lasciato correre il rischio di morire a detenuti ridotti in condizioni scheletriche dopo quindici giorni di digiuno. Lo Stato non può piegarsi ai ricatti!
I familiari sono bloccati sulla soglia della stanza d’ospedale dove Stefano sta morendo? La pietà non ha diritto di asilo se non è in ordine con il regolamento!
Chissà se Stefano si è incontrato in cielo con Giorgio schiantato da un infarto perché il cuore non ha retto alle sofferenze patite in venti giorni durante i quali il poveretto ha tormentato se stesso e i compagni di detenzione con urla disumane che echeggiavano da una cella all’altra e che dicevano di una discopatia non curata che gli procurava dolori lancinanti?
Certamente non si è incontrato con me,ostinato e bastardo mastino della mia vita, che non ho voluto saperne di andarmene nonostante la buona volontà di chi mi ha tenuto quasi un mese senza cure contro una dermopolimiosite devastante e ha condito la propria crudeltà con la decisione di una traduzione infinita in altro carcere anziché del ricovero immediato chiesto inutilmente dagli allarmati medici ai quali ero stato indirizzato.
Tuttavia questa fiera dell’orrore non riesce a piegare gli indomiti abitanti delle carceri che oppongono alle attenzioni dei loro carnefici una orgogliosa indifferenza grazie alla quale le solite vittime continuano a cadere a grappoli sotto forma di impiccati, di pestati, di malati terminali avviati a morire nei cimiteri degli elefanti.
Ad essi non si possono concedere attenuanti per una sorte alla quale si offrono volontari ma almeno va risparmiata l’ipocrisia delle inutili associazioni di volontariato che si prestano a fungere da involontari complici della crudeltà che combattono, dei garanti dei diritti del detenuto tanto formalmente garanti quanto concretamente assenti e latitanti sugli innumerevoli temi dei diritti in carcere, persino della generosa ma velleitaria battaglia dei radicali da sempre impegnati su un fronte che li respinge. Rita Bernardini fa il paio con Tiziana Maiolo la quale, in visita negli anni novanta ai penitenziari di Pianosa e Asinara seguendo l’eco delle notizie di maltrattamenti inumani riservati ai detenuti, si sentiva rispondere da questi che erano inciampati e caduti dalle scale con buona pace dei morti certificati all’ospedale di Pisa dove mafiosi paludati di fierezza ma con la milza spappolata giungevano cadaveri.

martedì 3 novembre 2009

Ergastolo


La sentenza è letta col tono monotono di chi ha confidenza col dolore altrui e ha imparato a ignorarle: ergastolo! Do una occhiata ai familiari della vittima che, pur non riuscendo a nascondere un moto di soddisfazione, ostentano una composta indifferenza. La stessa che ostento io e con la quale ho imparato a difendermi dopo anni di sofferenze. Percepisco la mostruosità della mia indifferenza sentita come una seconda pelle che l’organismo ha tessuto, anno dopo anno, faticosamente e con ostinazione, contro gli assalti della disperazione.
Attorno a me osservo atteggiamenti fintamente noncuranti misti a scene di pianto sommesso e pudicamente soffocato ma alla fine lasciato libero di travolgere i propositi di forza proclamati prima della sentenza.
Di sottecchi sbircio mia figlia, impassibile, piegata in avanti, una smorfia sulla bocca sottile, il corpo più minuto del solito quasi che la condanna del fratello l’abbia ulteriormente rimpicciolita, gli occhi sbarrati e fissi sul volto scarno.
La cingo con le braccia mentre guadagno l’uscita e dalle viscere contratte sento montare una nausea che mi stordisce.

Il medico del centro storico

Lo incontriamo io e mia moglie, anzi vi inciampiamo mentre col naso all’insù e la macchina fotografica a tracolla, ispeziona cornicioni da inquadrare. Si scusa e ci osserva con aria incuriosita non resistendo, forse perché intenerito dalla nostra aria spaesata, alla tentazione di chiederci se può esserci utile.
Gli diciamo che si, che ci può essere utile perché abbiamo bisogno di sapere come raggiungere P.zza Garraffello nel dedalo di viuzze nelle quali ci siamo perduti. Si illumina e, con il figlio soddisfatto di chi ha la possibilità di rendersi utile e può sfoggiare la sua cultura su Palermo, ci fornisce le indicazioni richieste.
Anzi ne approfitta per illustrarci la piazza, descriverci i palazzi che la incorniciano e in particolare palazzo Mazzarino dove è nato il famoso cardinale. E si perché, ci dice, Mazzarino è nato a Palermo anche se la maggior parte dei palermitani non lo sa.
E’ un fiume in piena e con lo sguardo grato rivolto a noi che lo ascoltiamo con interesse (intanto abbiamo scoperto che è un medico con la passione per Palermo antica dei cui scorci va a caccia con la sua Laika) ci erudisce con notizie che ci stupiscono.
Ci informa che i mandamenti (non quelli mafiosi) del centro storico di Palermo costituiscono un tessuto urbano tra i più estesi del mondo, sciorinando una serie di notizie sul patrimonio artistico nascosto tra le viscere dei palazzi nobiliari e nelle chiese, imprecando contro gli “americani” per lo scempio che hanno compiuto con i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale e contro l’inerzia delle istituzioni che hanno lasciato Palermo, unico sciagurato esempio al mondo, sfregiata e con i palazzi sventrati anche dopo 65 anni dalla fine della guerra. Si commuove il nostro medico mentre volge lo sguardo attorno osservando le viuzze degradate e maleodoranti con un misto di pietà e d’amore e rammaricandosi che i palermitani abbiano tollerato ferite alla loro città tanto a lungo e con tanta insipienza. Ci guarda e, quasi scusandosi, cerca di dare una spiegazione alla sua rabbia, ci dice: “ Amo la mia città, la più bella al mondo, e non sopporto che di essa si deplorino le piaghe consuete e si trascuri di cantarne lo splendore offuscato dall’incuria dei suoi figli “.
Il suo amore ci commuove e ci ripaga della altezzosità di quanti prendono le distanze da Palermo riservando ad essa giudizi feroci appollaiati sul trespolo della loro pretesa superiorità morale.

Mancuso e il destino dell’ anima

Dopo tanti anni torno a parlare con Alberto e finalmente possiamo regolare i nostri conti a proposito di una vecchia disputa, iniziata prima che mi arrestassero, su “L’anima e il suo destino” di Vito Mancuso.
Alberto è un inossidabile estimatore di Mancuso e ne sottoscrive ogni rigo compreso il tentativo di reinterpretare il Cristianesimo quale sede di valori etici piuttosto che trascendenti.
Dibattiamo sul fascino di un libro che divide ma che indubbiamente offre stimolanti spunti di riflessione.
L’autore affronta il problema della sorte dell’uomo affidato alla Natura che lo indirizza secondo i suoi canoni “strappandone il destino di vita immortale alla religione e consegnandolo all’etica che a sua volta non si fonda su sé stessa ma rimanda all’ordine naturale”.
Insomma Mancuso si muove nel solco del panteismo di Spinoza e Bruno e, facendo suo il concetto stoico di universo armonioso, giusto, ordinato, bello, logos, “legge cosmica che governa il mondo ed anche la nostra mente”, strizza l’occhio alla teologia naturale e al suo tentativo di saldare il cristianesimo allo stoicismo, la teologia alla scienza, la fede alla ragione.
Secondo la teologia naturale noi esseri umani veniamo creati dalla natura – phisis che contiene in sé il suo fine, la sua etica che rimanda all’ordine naturale, senza bisogno di interventi soprannaturali.
La stessa anima viene dal basso.
Ma se gli esseri umani provengono dalla natura – phisis “mediante un lungo processo evolutivo che parte dall’esplosione delle stelle di terza generazione da cui è fuoriuscito il carbonio a base della vita”, se “la saggezza solidale” e la capacità d’amare è spiegata “dalla scoperta di neuroni specchio che creano un meccanismo di base fisiologico in cui la felicità altrui è anche la nostra”, è accettabile per il cristiano rimandare tutto all’etica dell’ordine naturale? Evoluzione si, intelligente quanto si vuole, ma votata a cosa?
Alla fede del cristiano che vola nei cieli della trascendenza, riesce difficile accettare una teologia che obbedisce solo ad un etica fondata sull’ordine naturale.
La fede del cristiano ha bisogno di sapere che l’uomo rientra nel progetto salvifico di Cristo, che è amato da Lui e con Lui si ritroverà dopo questa vita, anzi già in questa vita e che la speranza, come dice il Papa, è certezza contenuta hic et nunc in noi figli di Dio che abbiamo innato un che di divino dal quale proveniamo e al quale tendiamo. La storia della filosofia è la storia di come l’uomo cerchi la salvezza contro l’angoscia della propria finitezza e l’ordine naturale immanente all’essere che rimanda ad una dimensione etica, non risponde alla sua domanda di salvezza, Il cristiano va oltre l’immanenza dell’etica con la trascendenza dell’amore, fa coincidere l’uomo con Gesù stesso” riprovato per eccellenza” che toglie i peccati del mondo, lo monda e lo divinizza, lo salva fornendogli una ragione d’amore. L’uomo che nasce da Dio “conserva nella memoria un confuso ricordo di quella comunione con il suo Creatore e vuole ricongiungersi con Lui” (Giorgio Montefoschi) facendosi Cristo e annullandosi in Dio come ultimo grado d’amore. La ragione, è lo stesso Mancuso a dirlo rifacendosi a Kant, non è solo quella che ci fa verificare materialmente le cose ma quella secondo cui è vero anche “ciò che non si può direttamente verificare ma che per la sua intrinseca nobiltà, bellezza morale e capacità di produrre il bene, muove e riempie le nostre vite”. C’è chi dice che la ragione si ferma sulla soglia della fede che è zona di mistero, il Papa sostiene che fede e ragione sono complementari e che “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. Ma quale ragione?
Persino un panteista come Spinoza ha affermato che Gesù ha predicato una religione della ragione che considera l’amore il valore più alto, un amore, che secondo lui, è rivolto sia verso Dio che verso il prossimo. Una ragione, aggiungiamo, in una accezione mai prima conosciuta di cui l’uomo, pur creato per il bene, prende coscienza solo con l’incarnazione di Cristo, una ragione di estremo amore che è fondamento di fede. Gesù, con l’incarnazione, viene a suggellare che il destino dell’uomo non si esaurisce nella sua appartenenza alla natura e alle sue leggi, che il suo rapporto autentico e definitivo è con Dio, che in ogni giorno, in ogni momento della sua vita si rinnova l’alleanza con Lui che coinvolge il quotidiano, le singole vicende, ogni battito delle nostre ciglia e del nostro cuore che quando preghiamo non preghiamo il Principio Ordinatore ma il Padre del quale e dal quale siamo impastati, che, amando Dio, ci tuffiamo nella fede laddove “l’acqua ha la profondità di settantamila piedi” e ci abbandoniamo al “terribile cadere nelle mani di Dio vivente” (Kierkegaard).
Il cristiano che affronta la vita con la mente e con il cuore e percepisce che il cielo vive dentro di noi, che la vera realtà è la nostra anima pura, senza veli e in comunione con Dio, in comunanza con la ragione che ci ha dettato Cristo, non può che rimandare l’origine di tutto alla trascendenza, cioè al soprannaturale e alla fede. E’ il destino dell’anima.

L’Identità

Reduce dal Festival della filosofia di Modena, sono preso dalla voglia di curiosare dentro di me. Seguendo la rotta della mia depressione approdo alla mia cara solitudine, l’esilio che mi sono scelto fuggendo dal consorzio umano.
E’ la solitudine un’isola costretta a convivere con il resto del mondo amato e detestato ma, a quanto pare,necessario alla nostra identità.
Lo sostiene Massimo Cacciari quando afferma che “la relazione è necessaria in quanto costitutiva del soggetto e l’identità è un risultato che sarà messo in discussione dal mio rapportarmi con altri e dunque non data una volta per tutte”. Lo sostiene Edouard Glissant quando dichiara che “ogni identità è una relazione e che la realtà è un arcipelago in cui vivere significa errare da un isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria”.
La nostra identità dunque esiste perché esiste il nostro prossimo. Essa, grazie ai neuroni specchio, “ci costringe ad amare in base al meccanismo fisiologico per cui la felicità altrui è anche la nostra” (Vito Mancuso), ma ci porta ad odiare quale “prezzo che la gratuità del regalo paga all’impoverimento dell’io” (Roberto Esposito). Ed è proprio la paura di impoverire il nostro io che ci spinge a mettere in discussione il compromesso raggiunto con la collettività, a confliggere con la comunità sentita con un misto di insofferenza e attrazione e tuttavia necessaria in quanto “non relegata nell’ambito della esteriorità e dell’accidentalità e dunque non categoriale bensì esistenziale” (Jean Luc Nancy).Condannati ad una identità di cui non disponiamo per intero perché costretta a coabitare con l’alterità, viviamo una solitudine invasa e travagliata in cui la sola speranza è la fede che ci faccia amare e ci faccia percepire che amando non impoveriamo il nostro io.

lunedì 28 settembre 2009

MI PRESENTO

Sono Nino Mandalà appena uscito dal carcere e deciso a dare testimonianza di un mondo sconosciuto ai più, testimonianza nata dalle interminabili discussioni dei “peripatetici” dei cortili carcerari che hanno passeggiato per chilometri e per anni con l’angoscia annidata nel cuore. I fantasmi di questi uomini affollano le mie notti e ad essi va il mio pensiero commosso, con essi mi sento ancora compagno, assieme ad essi continuerò a percepirmi detenuto e come tale mi proporrò nelle mie testimonianze.
Affiderò a questo sito riflessioni maturate in carcere ed altre che via via maturerò a contatto con quella libertà infida che attende al varco noi ex-detenuti con le sue trappole e i suoi pregiudizi duri a morire. Darò voce a uomini murati vivi oltre che dalle barriere fisiche anche dalla crudeltà e dall’indifferenza che, grazie a quella straordinaria “agorà” che è la rete,varcheranno le mura della prigione e riconquisteranno un po’ della perduta libertà. Scriverò di carceri e di giustizia ma affronterò anche tematiche sulle quali l’uomo si è sempre interrogato. Lotterò, urlerò la rabbia di tanti disgraziati e la mia che ho accumulato in lunghi anni di detenzione e che continuerò ad accumulare grazie ad uno Stato stupido e vendicativo.
Dall’introduzione alle “Ragioni della tolleranza” di Salvatore Parlagreco traggo e sottoscrivo: “ La democrazia può degenerare in forme di dispotismo quando eventi contingenti richiedono una sospensione parziale o temporanea dei diritti dei cittadini. Qualche volta lo Stato si trova a dover scegliere fra la libertà e la sicurezza. Il cittadino paga la sicurezza in termini di libertà. È lecito sospettare, ogni volta che ciò accade, un interesse, una manipolazione del consenso, una inefficienza degli organi incaricati di proteggere i cittadini e lo Stato dai criminali, dai mafiosi e dai terroristi […]. Sia i regimi democratici che i regimi dispostici si sono serviti dell’allarme sociale per giustificare la violenza legale e le regole illiberali […]. I luoghi della giustizia esercitano talora l’ingiustizia”.
“ Quello immediatamente successivo all’arresto è un momento magico” è la terribile affermazione attribuita da Bruno Vespa al procuratore di Torino, Marcello Maddalena, ai tempi di Tangentopoli ed essa, se vera, è la cifra dell’impietoso atteggiamento di certi magistrati che non hanno nelle loro corde l’ammonimento sine ira et studio con cui Tacito negli Annali invita alla sobrietà nell’amministrazione della giustizia. Il giudice che non è capace di riservare in un angolo del suo cuore la pietà per la sorte del reo e che anzi gode della sua malasorte, ha annidata in sé l’animosità che presidierà ad una sentenza ingiusta e ispirerà l’applicazione di una detenzione crudele.
È in questo clima di rancore che lo Stato italiano ha “esercitato l’ingiustizia nei luoghi della giustizia” ed è venuto meno al suo compito di mitigare la necessità della detenzione che anzi ha reso più dura infliggendo condizioni di vita intollerabili. È questo lo Stato con cui dobbiamo fare i conti e non solo, perché l’arbitrio e il pregiudizio assumono anche le sembianze di forcaioli a caccia di prede che promuovono condanne evocando “il giudice che abita assieme a noi e che ci chiama sul banco degli imputati mostrandoci robuste catene e solide prigioni in un processo che si trasferisce nella nostra coscienza e scopre colpe di cui non immaginavamo l’esistenza” (Parlagreco dal commento al “Processo” di Kafka). A questi sacerdoti dell’intolleranza che ci “infliggono la più raffinata delle torture che si può infliggere ad un essere umano, quella di dimostrare momento dopo momento la propria innocenza” (Parlagreco), non concederò sconti.
A quanti infine tenteranno di manipolare il mio pensiero accusandomi di simpatie per la mafia, dico che il mio garantismo non prevede indulgenze nei confronti dei rei le cui responsabilità, se accertate, è giusto che siano punite (ci mancherebbe), ma ho ferma l’idea che sia altrettanto giusto garantire il rispetto delle regole nei confronti dei rei, persino nei confronti del peggiore di essi.

Intimidazione mafiosa

Gasparri, contro la lettera aperta di Vendola al PM Desirèe Digeronimo, tuona: “E’ una intimidazione mafiosa! “. Bisogna che il battagliero capogruppo del PDL al Senato aggiorni il suo lessico quando parla di intimidazioni. Oggi, se vogliamo rendere giustizia all’Universale aristotelico che individua il genere e dunque dare pieno significato alla parola “intimidazione”, non dobbiamo ricorrere all’inflazionata e spuntata qualificazione mafiosa bensì al ben più efficace e inquietante termine giacobino con cui si identifica la casta degli intoccabili depositari della morale pubblica che vantano il monopolio della verità e sono legittimati dal loro moralismo alla menzogna.

Del 41 bis e dell’ergastolo

Il pacchetto sicurezza, approvato recentemente dal governo Berlusconi, prevede, fra le altre misure, l’inasprimento del regime del 41 bis. La spietatezza di questo inasprimento non risiede, come si può pensare, nella esigenza di maggiore sicurezza ma nella cattiva coscienza degli intransigenti dell’ultima ora impegnati a misurarsi in fughe in avanti ostentando una innocente e sdegnata intolleranza e murando vivi i mafiosi, i soli colpevoli da offrire alla bulimia dell’opinione pubblica. A nessuno come a questi signori si adattano le parole di Kahlil Gibran a proposito del delitto e del castigo: >. Lo Stato ha dimenticato di essere pianta e ha risposto con furore vendicativo alla stagione di follia mafiosa, scivolando nella deriva di una crudeltà gratuita e abdicando a un ruolo equilibratamente severo. Con questo spirito Esso ha istituito, e ancora di più ne chiede l’inasprimento, il 41 bis, misura disumana che contraddice tutti gli standard solennemente proclamati dalla Costituzione italiana e dalla Dichiarazione internazionale sui diritti dell’uomo, e incongruente sul piano logico. Se infatti in regime di 41bis il detenuto ha continuato a mantenere rapporti con la criminalità organizzata, che senso ha il mantenimento di un regime che ha fallito?
E se invece il regime non ha fallito e ha interrotto i collegamenti, che senso ha inasprirlo?
In verità esso è solo la testimonianza del fallimento dello Stato incapace di controllare le maglie della detenzione ordinaria e di garantire assieme alla sicurezza la tutela della dignità dell’individuo e l’impedimento di inutili angherie. Ai disinvolti liquidatori delle vite altrui raccomandiamo questa lettura terribile ma istruttiva della lettera di un detenuto in regime di 41bis:”Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro e battè le mani contro di esso credendo in un gioco, sorrise ancora e ancora battè le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi occhioni spalancati e sgomenti”. Questa lettera merita di essere iscritta nel cippo che un giorno verrà eretto alla memoria del 41bis, come dell’ergastolo, altro prodotto della stupidità umana. L’ergastolo è la condanna ad una finzione di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che hanno nello sguardo una rassegnata disperazione e fanno della finzione una realtà vissuta tenacemente progettando i loro sogni, coltivando le loro speranze, sbirciando fuori dalla loro emarginazione e aspettando un segnale di interesse per la loro sorte, di percepire che a qualcuno importi della loro vita, che qualcuno li consideri e per ciò stesso, perché sono considerati, esistono. Ed esistono e impongono la loro esistenza rivendicando il diritto alle loro intelligenze urticanti e provocatorie contro la beceraggine di quanti vogliono seppellire i loro sogni revocando indubbio l’autenticità del loro sentire e infliggendo loro, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osano. Non susciti scandalo l’accostamento della condizione dell’ergastolano a quella vissuta per diciassette anni dall’innocente Emanuela Englaro. Veltroni ha descritto “il corpo di quella ragazza che il dolore, l’assenza di relazione vitale, che un tempo trascorso senza la gioia di sentire il rumore dei propri passi e di quelli degli altri, avrà reso irriconoscibile”. Ebbene gli ergastolani sono ciascuno una storia di sofferenza che, dopo decenni, ricordano appena le proprie origini, sono solo gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati piuttosto che confortati dal rumore dei propri passi, anch’essi privi di relazioni vitali, anch’essi ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. “Cercare l’originalità della vendetta è un impresa vana nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”. (La nausea della vendetta di Renè Girard).
L’ergastolo, come la vendetta è una tragedia senza fine in cui l’agostiniano tempo è assente nell'anima di uomini senza più passato, presente e futuro, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un'unica fune, che “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio”. (Gibran)


Nino Mandalà

Della giustizia in Italia

Le vicende giudiziarie fanno emergere tratti comuni ai buoni come ai cattivi, la stupidità e la cattiveria, frutti avvelenati della consuetudine con il male.
Passi per i cattivi che del male hanno fatto una scelta di vita, ma i buoni?
Ebbene anche essi, i giudici che hanno scelto di combattere il male, a causa della loro familiarità con il mondo del crimine, hanno concepito un pessimismo intransigente dal quale si lasciano guidare nella loro azione giudiziaria. In conseguenza di ciò esercitano la loro funzione con una severità priva di pietas, con una incapacità di capire che episodi, contesti e quant’altro possono nascondere un colpevole ma anche un innocente, con una intolleranza che li induce a comportamenti sacerdotali da cui fanno discendere assiomi non sfiorati da dubbio alcuno. Tutto ciò porta a risultati devastanti non solo per la vita di tanti uomini ma per la stessa credibilità della giustizia amministrata con la stessa disinvolta crudeltà della criminalità che combatte.
Gli uomini dello Stato, assieme a sacrosante battaglie contro, non hanno saputo combattere battaglie altrettanto sacrosante per, ad esempio in difesa della dignità della persona ed anzi si sono macchiati di offese contro di essa. E’ difficile che sia compresa da parte di chi non ha vissuto esperienze giudiziarie nel nostro Paese, la disperazione di chi ha subito vicende kafkiane senza che siano state rispettate le regole ed anzi essendo state truccate le carte. E’ difficile immaginare la scarsa considerazione in cui è tenuto il destino di presunti innocenti da parte di alcuni magistrati convinti che è loro compito redimere la società piuttosto che amministrare la giustizia non curandosi se sull’altare della loro “missione” debba essere sacrificata qualche vita. Fassino, all’epoca del suo incarico al dicastero di grazia e giustizia, a proposito della separazione delle carriere dei magistrati, ebbe a dire che la separazione avrebbe danneggiato l’imputato perché, mutando la veste del P.M., sarebbe stato sottratto un contributo in più all’accertamento della eventuale innocenza dell’imputato cui la pubblica accusa è per legge tenuta. L’ingenuità e la buona fede di Fassino cozzano contro i quotidiani episodi di cui sono protagonisti i P.M. che sottraggono all’esame del giudice elementi a favore dell’imputato.
E non è tollerabile che ad un quadro così drammatico, in cui è a rischio il diritto di tutti, faccia da cornice la pavidità dell’ordine forense e il silenzio osceno di una stampa bacchettona e vile che non sa intestarsi, salvo rare eccezioni, battaglie scomode, limitandosi a diffondere le veline che le vengono passate dal Palazzo. Platone nel 1° libro di Repubblica fa dire a Trasimaco “La giustizia non è nient’altro che l’interesse del più forte.” Credo che, nonostante lo sforzo di Socrate di capovolgere la tesi di Trasimaco, questa rimanga purtroppo una verità amara e ancora oggi attuale.

sabato 5 settembre 2009

Dell’Italia democratica

“Rispetto ed obbedienza ai magistrati anche se sono contraffatti”.

Dalle “Cattedre della virtù” Nietzsche ci ammonisce al rispetto per i magistrati anche per quelli “contraffatti” e tale rispetto a maggior ragione si deve ad un magistrato solitamente misurato quale il dottor Pietro Grasso. Senonchè, in occasione della presentazione del suo libro “Per non morire di mafia”, il procuratore nazionale antimafia ha abbandonato la sua consueta misura dichiarando che in Italia non c’è piena democrazia e che “bisogna bloccare chi vuole controllare giornalisti e magistrati”.
Stupisce che un alto rappresentante delle istituzioni democratiche disconosca la legittimità delle Istituzioni che rappresenta al punto da suggerire di “bloccare” le iniziative da queste poste in essere. Quasi che, rappresentando egli il bene, pretenda di stabilire ciò che è giusto e ingiusto e si arroghi il diritto di relegare nella sentina del male ciò che ha bollato come ingiusto solo perché non è gradito alla magistratura. Ma il bavaglio lamentato dal superprocuratore è arbitrario o è frutto di una legittima attività parlamentare e questa attività finisce di essere democratica solo perché lambisce certi santuari?
La magistratura è fatta di uomini che possono svolgere la loro funzione in maniera impeccabile ma possono, anche se in buona fede, lasciare il segno di una decisione ingiusta nella vita di altri uomini.
Nel rivendicare la propria autonomia essa non può ritenersi legibus soluta e deve dare prova di meritare questa autonomia vigilando, grazie all’opera di controllo partorita dal proprio seno, che uomini i quali dipendono dall’enorme potere di questa autonomia, non siano in balia dell’arbitrio.
Quando, come nel mio caso, un magistrato ha deciso di sequestrare l’unico bene di cui dispongo, due appartamenti donatimi da mia madre nel 1969, giustificando il provvedimento con la motivazione che questi appartamenti provengono da miei illeciti guadagni, quando, dopo tre anni di carcere e di conseguente tracollo finanziario, mi viene impedito di vendere questi beni, palesemente leciti, per far fronte alle emergenze causate dalla mia detenzione, quando osservo il volto smarrito dei miei cari i quali non riescono a farsi una ragione di tutto questo, allora io dico che è giusto “non morire di mafia” ma che è altrettanto giusto “non morire di antimafia” e che è vero quanto afferma il procuratore Grasso, cioè che in Italia non c’è piena democrazia.

mercoledì 19 agosto 2009

Angelino e il 41 bis

Pretendiamo molto se chiediamo al signor Ministro di Grazia e Giustizia una maggiore sobrietà nelle dichiarazioni che va rilasciando a proposito dei suoi progetti sull’amministrazione della giustizia?
Comprendiamo che un giovane di trentotto anni paracadutato senza particolari credenziali su un incarico così prestigioso, si lasci prendere dalla frenesia di dimostrare che vale il regalo della sorte e che un siciliano assiso sulla poltrona dalla quale si dettano le coordinate della lotta alla criminalità organizzata, voglia fugare ogni dubbio sull’autenticità del suo impegno. Comprendiamo che egli voglia distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dai discutibili provvedimenti ad personam con fughe in avanti su un terreno in cui è facile stimolare i pruriti forcaioli della gente sulla pelle di disgraziati su cui si può tranquillamente imperversare. Ma, per carità, un pò di pudore!
Anche un contesto qual è quello mafioso impone un limite alle esagerazioni.
Il signor Ministro, quando parla di pene più severe, è sicuro di potersi riferire ai reati di mafia che già subiscono il regime di una categoria giuridicamente opinabile qual è quella del 416 bis che condanna la responsabilità oggettiva?
Il signor Ministro che parla di carcere più duro, sa che la pena nelle carceri di massima sicurezza in Italia è scontata in condizioni che irridono alla dignità dell’individuo e alla stessa normativa penitenziaria che prevede la rieducazione e il reinserimento del detenuto?
Il signor Ministro di Grazia e Giustizia che parla di rendere più impervio l’accesso agli sconti di pena, ha mai sentito parlare dei tempi della giustizia e di come l’imputato sconti l’intera pena prima di esaurire i tre gradi di giudizio, non facendo in tempo a realizzare la condizione di “definitivo” necessaria per usufruire dei benefici di legge tanto temuti?
Ma soprattutto, il signor Ministro che ha ottenuto un inasprimento del 41 bis, sa di cosa sta parlando? Gliene diamo un idea proponendo alla sua lettura un brano della lettera di un detenuto in regime di 41 bis: <<…questo dolcissimo figlio di tre anni, come sempre, non voleva lasciarmi ma questa volta è stata ancora più straziante. Dopo i dieci minuti che la legge mi accorda, ho dovuto far uscire il bambino ma egli non voleva saperne di lasciarmi e l’agente, mosso a compassione, lo ha fatto rientrare per un poco ancora fino a quando sua madre non è riuscita ad attirarlo al di là del vetro divisorio. Pensavamo che si fosse calmato ma ha continuato per tutto il tempo del colloquio a invocare il mio nome e a volere tornare da me battendo i pugni contro il vetro. >>
Ecco un esempio di 41 bis all’acqua di rose che permette ai detenuti contatti con elementi dell’organizzazione mafiosa camuffati da bambini, sul cui lassismo i bacchettoni nostrani si strappano le vesti. E’ lo stesso 41 bis la cui indulgenza preoccupa tanto il signor Ministro il quale, fino a quando la legge garantisce che degli uomini vengano murati vivi, tace. Quando invece la stessa legge ritiene che per alcuni detenuti non ci siano più le condizioni per tenere in vita un regime così severo perché il contesto originario in cui è maturato il provvedimento, dopo decenni, è mutato ed è venuta meno la capacità di collegamento dei detenuti con la criminalità, ecco che il signor Ministro insorge dichiarando che abbiamo scherzato, che le regole non vanno più bene e che le maglie vanno vieppiù serrate. Nella nota con cui il Ministro ha informato dell’iniziativa volta ad inasprire il 41 bis, è contenuto un appello all’unità di tutti gli schieramenti politici in nome dell’antimafia che, tradotto dal paludato linguaggio ufficiale, altro non è se non un messaggio di disponibilità a gettare sulla bilancia della pacificazione politica il peso di una maggiore severità che passi attraverso le vite a perdere dei detenuti in regime di 41 bis.
Nomen omen! Al portatore di un nome così vezzoso, il destino, intenerito, non poteva che offrire il meglio di sé, ma Angelino non prenda troppo sul serio i giocattoli che la sorte gli ha regalato!

Addio pietà…..addio umanità!

L’odio nella sua implacabile deriva ha prodotto l’intransigenza giacobina dei professionisti dell’antimafia. Basta assistere ad un processo di mafia per imbattersi nella ringhiosa, schiumante indignazione di giovani urlanti che mischiano la loro rabbia con l’angoscia dei familiari di mafia. L’inflessibile severità di questi giovani privi di dubbi, assisi sulla certezza della loro superiorità morale, esplode in tutta la sua spietatezza allorchè la lettura delle sentenze di condanna, nei ricorrenti processi per estorsione, è accolta da boati di approvazione e di gioia. Nessun imbarazzo per la sofferenza che si consuma a pochi passi da loro, nessuna pietà per le lacrime delle spaurite donne di mafia che pur condividono lo stesso tempo, lo stesso spazio, un pezzo di vita comune.
L’odio prende il posto della misericordia e non riconosce il dolore negando all’uomo la sua umanità.

Vite a perdere

Nella sezione A di Opera un uomo sta scontando l’ergastolo perché accusato di avere partecipato alla strage di via D’Amelio. E’ da quasi dieci anni in carcere e durante questo lungo periodo ha costruito la sua realtà somatizzando mali inesistenti e convincendosi che è prossimo a morire. In verità è già morto dentro perché, dopo avere realizzato l’ineluttabilità di un destino che non merita, ha rinunciato a proclamare la sua innocenza e a vivere. Ha dato una scadenza approssimativa alla sua fine, una scadenza di pochi mesi, e si è legato morbosamente al suo fatalismo. E’ per questo che ha accolto senza illusioni le dichiarazioni del pentito che lo scagiona vivendole con stizzita insofferenza come una violenza alla sua sciagurata condizione conquistata.
Ricominciare a sperare è fatica troppo grande per un uomo che è già morto e che si è affezionato alla sua morte.

Lettera a mio figlio

Ti ho scritto della modalità dell’essere e sorrido del tuo cruccio per non sentirti pronto a calarti in questa dimensione. Perché non ti senti pronto se tutto dipende da te e dal modo in cui riuscirai a identificarti?
Il primo obiettivo che ti devi porre è quello di avere fiducia in te e agire nel tuo interesse. Lo dice san Tommaso il quale sostiene addirittura che il peccato non consiste nella disobbedienza a Dio ma nella disobbedienza al buon vivere umano, esprimendosi così: <<>>. Lo dice Gesù che ha avuto tanta fiducia nell’uomo da farsi uomo. Egli stesso è modello di vita umana, non divina. San Tommaso, Gesù e non solo ma anche laici come Kipling ci indicano la via da seguire. Gesù con il suo esempio di vita, Kipling con la poesia “Se “ che è il testamento laico più bello che, a mio avviso, sia stato mai scritto. La fiducia in noi ci dice che non dobbiamo arrenderci al destino che la filosofia greca ha imposto all’uomo. Lo stesso destino di sofferenza, retaggio del peccato originale ebraico ereditato dal cristianesimo, può essere superato grazie alla conciliazione dell’uomo con Dio regalataci dal sacrificio di Cristo che ci rimanda all’armonia dell’uomo con sé stesso,con il prossimo, con la natura, all’amore. Quando tu mi scrivi che non riesci a concentrarti nella lettura, in realtà mi dici che sei frammentato nel tuo passato e dai suoi fantasmi. Erich Fromm afferma che nell’uomo assalito dal panico della propria frammentazione, c’è la tentazione di cancellare il mondo esterno per cancellare i propri errori. Noi detenuti in particolare avvertiamo drammaticamente questo panico e rischiamo di fuggire nell’alienazione del nostro passato rifiutando il mondo esterno. Occorre sanare le nostre lacerazioni e l’unico modo e la nostra modalità d’essere. La poesia di Kipling in proposito è esemplare come la vita di Gesù. L’esortazione evangelica: <<>> vuol dire che prima di amare il prossimo devi imparare ad amare te stesso, perché solo chi ha rispetto e considerazione di se può accettare la sofferenza di Cristo e lo stoicismo di Kipling. Perché tanta sofferenza? A quale scopo tanta severità? Risponde Kipling quando dice: <>. Tanta sofferenza e tanta disciplina per giungere ad essere un uomo. Un filosofo francese, Jean Luc Marion, in un libro che ti consiglio, “Il fenomeno erotico”, arriva a teorizzare l’amore come strumento di conoscenza rivisitando l’intuizione cartesiana “cogito ergo sum” e ribattezzandola “amo ergo sum” intendendo per amore addirittura l’amore erotico come carne che testimonia di essere accertata perché “l’essere oggetto del desiderio di un altro permette di prendere coscienza di se stessi, di non sprofondare nel nulla e persino nell’auto distruttività”. L’amore erotico dunque che si salda all’agape cristiana e diventa capacità, oltre che di cogliere, anche di donarsi, di identificarsi con chi vive le nostre stesse pulsioni, di confrontarsi con chi ha voglia di conoscere ed essere conosciuto, di suscitare e ricevere amore, di aprirsi, come san Tommaso , al nostro benessere. Cristo, Kipling, Marion, ci dicono che vivere secondo le modalità dell’essere significa donare non quello che si ha ma quello che si è ed anche che vivere pienamente significa dare valore ad ogni istante della nostra vita. Ed io aggiungo che nessuno è nulla, al di fuori di noi può dare significato alla nostra vita, che dobbiamo sapere accettare le tragiche limitazioni implicite nell’esistenza umana, tranne occasioni di crescita e fa di questa crescita lo scopo della nostra vita,sviluppare la nostra fantasia non per fuggire da circostanze intollerabili bensì per piegarle, superarle e costituire possibilità concrete, andare alla ricerca di noi stessi o meglio di ciò che di noi non conosciamo e non lasciarsi condizionare dalla sentenza del Tribunale o dalle mura di un carcere, dai sensi di colpa o dalle sconfitte subite. Basta che lo vogliamo!

lunedì 10 agosto 2009

Della questione meridionale

L’appassionata testimonianza di La Capria a favore di Napoli, apparsa sulla terza pagina del Corriere della Sera di qualche tempo fa, mi suggerisce una sconsolata riflessione sulla diversa sorte riservata al meridione da alcuni intellettuali cosiddetti impegnati. La Capria descrive il suo disagio per la Napoli di “Gomorra” e rivendica una Napoli diversa, una dolce, sensibile, colta Napoli ancora viva che chiama ad uno scatto d’orgoglio. Altro approccio quello di certa cultura che denuncia un meridione irredimibile, folcloristico e mafioso-camorristico, facendo della mafia e della camorra terreno di coltura di ambizioni letterarie e liquidando tutto con stereotipi abusati che escludono ogni possibilità di riscatto. Ma quanti si siedono sul trespolo dell’indignazione, non riuscendo ad alitare un sia pur leggero zefiro d’amore, hanno cercato di capire, si sono interrogati sè, mentre la mafia e la camorra inquinavano il tessuto sociale, lo stesso tessuto sociale non si sia fatto carnefice di sè producendo il frutto che lo ha avvelenato? Se questo tessuto sociale non si sia ancorato a disvalori stratificatisi durante anni di incuria, anzi di colpevole indifferenza se non, in qualche caso, di collusione dello Stato? Perché, se tutto è riconducibile ad una causa, non c’è dubbio che il meridione problematico consegnato alle generazioni future nasce anche con l’unità d’Italia.
Su una realtà feudale quale era quella meridionale del periodo risorgimentale, in cui è mancata la borghesia attiva e mercantile del resto d’Italia e in cui le sole realtà sociali rappresentate erano una aristocrazia senza illusioni ed una informe classe rurale priva di valori di riferimento, su questa realtà si è avventata una unità d’Italia avida e spietata. Che non fu, come si vuol far credere, frutto di una spontanea ed epica lotta di popolo, ma di un progetto elitario pilotato dall’alto e realizzato grazie ad una alchimia di accordi (alcuni conclusi tra la lenzuola), di tradimenti di ideali (quelli mazziniani), di arditezza e ingenuità di un personaggio come Garibaldi manipolato da Cavour, di scaramucce combattute stando attenti a non farsi male, con le truppe borboniche superiori per numero ed equipaggiamento ai Mille ma addestrati a voltare le terga e con le navi inglesi a largo a vigilare che tutto filasse liscio, di una minoranza di siciliani valorosi e folli che ci credevano sul serio ma che non rappresentavano gli umori della gente, come i ragazzi caduti a Calatafimi e ricordati da Vincenzo Consolo.
La strage ad opera dei killer di Bixio dei contadini di Bronte, fatti passare per briganti, racconta, egregio senatore Bossi, di meridionali che prima di andare ad ammazzare all’estero, furono ammazzati in Italia (e d’altronde perché no visto che la scuola antropologica lombrosiana considerava la popolazione meridionale razza diversa?), e inaugura la stagione delle menzogne, un colonialismo che ha prodotto i dazi a protezione delle mercanzie del nord, le massicce emigrazioni da una realtà ostile ma soprattutto la diffidenza nei confronti di uno Stato sentito come patrigno e contro il quale organizzarsi. La nascente classe media destinata a diventare la spina dorsale della società meridionale, crescerà nutrendosi dei sospetti nei confronti dello Stato, subendo il richiamo delle sirene di subculture e non trovando scandaloso accordarsi con i rappresentanti dell’antistato. Questa classe che è stata la zona franca su cui la mafia e la camorra hanno potuto contare e da cui hanno finito per essere usate e lo Stato che l’ha creata, ci offrono speranze?
E per favore i soliti campioni del pensiero forte e della tolleranza zero ci risparmino lo slogan secondo il quale queste mie riflessioni sono una provocazione mafiosa in salsa separatista!

venerdì 7 agosto 2009

Sovraffollamento nelle carceri

I giornali del 6 agosto hanno dato notizia del sovraffollamento delle carceri italiane e dell’ennesima condanna che la Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo ha inflitto all’Italia per “trattamento inumano e degradante”.

Non illudiamoci che la condanna della Corte Suprema impensierisca più di tanto i nostri governanti nè che le iniziative, pur lodevoli, dei parlamentari e delle associazioni che sono solite combattere sul fronte di una maggiore dignità della detenzione, possano sortire alcun risultato.
La stessa stampa che riporta di volta in volta l’ultima notizia dell’emergenza carceri, lo fa giusto per l’obbligo che il dovere dell’informazione le impone, ma già il giorno dopo archivia l’argomento.
La verità è che l’universo dei detenuti non sensibilizza le pruderie solidali della cosiddetta società civile la quale anzi è stata educata a guardare con sospetto a questo universo. E sennò qualcuno dovrà spiegare perché una condizione di indegnità morale e fisica qual è quella della detenzione in Italia ha potuto sfidare le ricorrenti condanne che la comunità europea ormai ci infligge da diversi decenni a questa parte, senza che si sia pervenuti alla soluzione di tanta vergogna.
Probabilmente alla gente non è stato spiegato a sufficienza ciò che accade nelle carceri italiane e il direttore del DAP, Franco Ionta, può tranquillamente affermare che “la situazione è assolutamente sotto controllo mentre il sovraffollamento particolare cui si riferisce la sentenza della Corte Europea è durato un periodo molto limitato”. L’affermazione secondo la quale il sovraffollamento si riferisce a un solo periodo molto limitato evidentemente risente del singolare criterio di valutazione del Dottor Ionta secondo il quale vanno considerati “un periodo molto limitato” tre dei miei sei anni di detenzione patiti nell’angustia di una cella dieci metri quadrati da spartire con altri due compagni.
Ha invece ragione il dottor Ionta quando afferma che la situazione è assolutamente sotto controllo, perché è vero che è sotto controllo ferreo ogni tentativo dei detenuti di sottrarsi a questa condizione, così come è sotto controllo la condizione anestetizzata di uomini che vivono venti delle ventiquattro ore della loro giornata rinchiusi in cella facendo a turno per aggiudicarsi lo spazio disponibile in cui muoversi e per il resto sostando stravaccati nelle brande, lo sguardo perduto nel vuoto, in attesa che si faccia sera per rifugiarsi nelle realtà costruite dai loro sogni.

mercoledì 5 agosto 2009

(SECONDA PARTE)
Un alto magistrato, in visita ad una scolaresca, ha chiesto retoricamente quale sia la giusta scelta tra la mafia e lo Stato, dimenticando di precisare di quale Stato parliamo. Se parliamo di questo Stato che ha scelto di privilegiare la sicurezza piuttosto che la giustizia ed ha fatto strame del diritto, di uno Stato teatro di stragi senza colpevoli, di vittime illustri messe nel conto di una sprovveduta manovalanza mafiosa cui è concessa l’illusione di partecipare ad un gioco più grande, se queste povere vittime possono essere impunemente e impudentemente issate sulle barricate di virtuose crociate dai loro stessi carnefici, da quei mandanti che si annidano nelle Istituzioni, se parliamo di lodi che tutelano i soliti fortunati e di provvedimenti come il 41bis che affliggono i soliti sfortunati e che lo stesso ministro Alfano ha, senza ritegno, definito ai limiti della Costituzione, se parliamo di proclami deliranti di personaggi istituzionali che non esitano a preconizzare la morte in carcere e in povertà dei mafiosi, con ciò preconizzando la morte del diritto cui viene attribuito il compito di punire la potenza anziché l’atto, il peccato anziché il reato, un modo d’essere per il solo torto d’essere, negando ogni alternativa ad uomini cui la stessa Costituzione concede la pietà del riscatto, se parliamo di un’Italia che è nel mirino della Corte Europea dei diritti dell’uomo e che ha fatto dichiarare al suo presidente, Jean Paul Casta:" Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato", se parliamo di un’Italia in cui i pensionati sono scippati dei risparmi di una vita e giungono all’appuntamento con il loro crepuscolo vivendo l’angoscia della sopravvivenza, in cui la soglia della povertà è varcata da una percentuale sempre maggiore dei suoi cittadini, famiglie in crescenti difficoltà economiche stentano a giungere all’ultima settimana del mese e via via alla penultima e alla terzultima, in cui uomini che hanno avuto una loro dignità sono ridotti a frugare tra i rifiuti alla ricerca di ciò che può essere ancora riciclato e i luoghi di lavoro sono diventati trincee dove ogni giorno, per tre volte al giorno, le campane rintoccano a morte, se è questa l’Italia di cui parliamo, parliamo di un’Italia che si è chiamata fuori dal consorzio civile e allora la scelta tra mafia e Stato non è così scontata.
E noi ultimi di questa Italia, pur segnati dalle nostre storie, arretriamo confusi, ripieghiamo su noi stessi e ci rifugiamo nella nostra schiavitù, nelle nostre consuetudini rassicuranti, al riparo dalle illusioni di una libertà perduta e riconquistata nelle atmosfere surreali della nostra dimensione pneumatica. È qui che nascono uomini nuovi che popolano mondi antichi in cui le categorie del tempo, dello spazio, delle relazioni sono rifondate e vissute “stringendo i denti e reinventando la dignità” (Josè Saramago) o perdendola del tutto sotto l’incalzare di una normalità ovattata e rassegnata.
Grazie alla schiavitù della detenzione ci risparmiamo l’espiazione della condanna alla vita.

BJELOMOR ovvero L’ELOGIO DELLA SCHIAVITU’

(PRIMA PARTE)
Rinchiusi tra le mura della nostra quotidianità repressa e separati dal resto della società come corpi infetti, troviamo scampo nella schiavitù della nostra detenzione. Dalla nostra postazione osserviamo “un Paese senza verità” (Sciascia), privo di pietà o meglio destinato ad una pietà sospetta e senza speranza, osserviamo i maneggi delle lobby di potere ammantate di superiorità morale e i loro figli recitare la mistificazione di battaglie ideali che nascondono lotte di interessi privati senza esclusione di colpi.
Osserviamo un paese separato da un vallo che divide i poteri forti e i loro àscari, dai pària ai quali sono date in pasto verità addomesticate. E proprio i campioni di questo mondo degli ultimi hanno messo a nudo la cialtrona vocazione dello Stato a fare casta e ad esercitare la severità sui più deboli, i suoi sodali di un tempo, gli antichi epigoni di una cultura senza regole che hanno trasferito sullo Stato la loro arroganza: i mafiosi privati del loro status di cittadini! Contro di loro, residui di un tempo sciagurato, paradigmi di un mondo che hanno condotto alla rovina, confinati in una terra di nessuno in cui il diritto non ha patria, contro di loro la viltà di un tempo è diventata la inflessibile severità dei rinsaviti sacerdoti della legalità che sgomitano facendo a gara nel rivendicare la loro intransigenza evocando la figura del “prete ascetico” del “Crepuscolo degli idoli” (F. Nietzsche):"Quello è un conoscitore di uomini:a che scopo in realtà egli studia gli uomini? Vuole arraffare piccoli vantaggi su di loro,o anche grandi,è un politico…anche quell’altro è un conoscitore di uomini e voi dite che non vuole nulla per sé,che è un grande “impersonale”.Guardate meglio! Forse vuole addirittura un vantaggio anche peggiore :sentirsi superiore agli uomini,poterli guardare dall’alto,non confondersi più con loro. Questo “impersonale” è uno che disprezza gli uomini …".
Ai sacerdoti del nuovo mondo è affidata la difesa del Palazzo in cui i dibattiti sono il noioso copione di sempre recitato nel teatrino delle ovvietà ammannite dai soliti noti che scodinzolavano tenendo d’occhio il gradimento del padrone.
Ai cortigiani dei compiacenti giornali di regime spetta il compito di cavalcare la deriva giacobina dell’opinione pubblica incitandola alla lapidazione e drogandola con notizie di comodo fatte filtrare sapientemente, di ascrivere alla categorie dell’irredimibile cancro sociale i mafiosi (“Vibrioni del colera” e “Batteri della meningite” – F.sco Merlo), di irridere alle ispirazioni dei detenuti ai quali non si perdona la pretesa di coltivare, nonostante tutto, la speranza e sentirsi vivi e sfidare il loro destino con il conseguimento di obiettivi culturali che dai cortigiani sono guardati con sospetto e liquidati come incorreggibile narcisismo, come spia di una ontologia criminale senza speranza (Giustolisi). Questi cortigiani provocano, nella speranza di guadagnarsi lo status di martiri facendo di un mondo in disfacimento la vetrina di sfide a buon mercato produttive di rendite di posizione.
Agli intrepidi cavalieri della crociata contro la mafia spetta il compito di buttare con l’acqua il bambino, liquidando l’eredità del diritto occidentale e i suoi principi basilari: la presunzione di innocenza, la responsabilità soggettiva, la certezza del reato. Il dubbio un tempo pro reo, oggi si ritorce contro il reo, l’appartenenza ad un contesto di valori eticamente censurabili ma che non hanno fatto in tempo a tradursi in atti penalmente rilevanti, è considerata reato e come tale perseguita, la certezza della prova è sostituita dal libero arbitrio (pardon, convincimento) del giudice e la presunzione di innocenza si arrende impotente alla prospettiva di espiare la pena prima della pronuncia definitiva dei giudici.
Ai lividi esecutori dell’ottusa severità dello Stato spetta il compito di gridare al lupo e invocare pene sempre più severe occultando la tragedia di uomini murati vivi nell’infamia del 41bis, erranti per carceri invivibili alla ricerca delle ragioni di esistenze senza più ragioni, che in carcere ci vivono e ci muoiono disperati, che, dopo decenni, sono diventati ciascuno una particolarissima storia di sofferenza avulsa dal contesto originario, di affetti sradicati, di cervelli spappolati da anni, mesi, giorni sempre uguali, di infelici che convivono con “il pensiero onirico latente” di quell’infido appuntamento estremo che è il suicidio, di innocenti ai quali si infligge assieme alla pena per le loro colpe, l’odio per quello che essi rappresentano, di vittime della tanto invocata certezza della pena che spesso è certa quanto è incerta la colpa.

La storia di mio nonno materno

Vi voglio raccontare una storia esemplare, la storia di mio nonno materno. Costretto a emigrare negli USA negli anni ’30 del secolo scorso lasciando a casa la moglie e le figlie, mio nonno lavorò duramente e mandò alla moglie le rimesse con cui questa minuta e rude donna d’altri tempi riuscì a mettere assieme un discreto patrimonio.
Nel 1953, alla morte di mio nonno, le figlie, tra cui mia madre, ereditarono case e terreni, uno dei quali fu utilizzato nel 1969 per effettuare una permuta dalla quale tre delle quattro sorelle ricavarono un cospicuo numero di appartamenti che donarono ai rispettivi figli. Io fui uno dei beneficiari di questa donazione e feci di due appartamenti ricevuti in dono la casa dove andai ad abitare fino ad oggi, anzi fino a ieri. Perché oggi sono stato privato di questi due appartamenti da un provvedimento della magistratura che me li ha sequestrati sospettando che essi provengano da guadagni illeciti.
Mio nonno ha lavorato duramente ma non mi risulta che lo abbia fatto anche illecitamente, eppure lo Stato che lo ha costretto nel 1930 a procurarsi altrove quello che in patria non ha potuto realizzare, ha trovato il modo, dopo 79 anni, di privare un suo erede di parte di quei beni: una piccola proprietà di famiglia, due appartamenti non di 16 (come hanno scritto i giornali) ma di 8 vani, del valore non di € 1.500.000 (come hanno scritto i giornali) ma di appena € 350.000 (compresi le polizze previdenziali e i libretti a risparmio), non “strappati ai boss”, come ha titolato qualche giornale, ma scippati a mio nonno la cui memoria è stata sfregiata da un episodio di stupido accanimento dello Stato contro un suo cittadino.
Per inciso, la stampa ha bruciato sul tempo la magistratura dando in anteprima la notizia del provvedimento di sequestro che a me non è stato ancora notificato.