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venerdì 16 giugno 2017

Il civismo politico

Commentando l’esito delle recenti elezioni comunali a Palermo, il sindaco ci ha informati che, con la sua vittoria, il civismo ha fatto ingresso nella politica palermitana. Era ora, finalmente, dopo decenni durante i quali il prof. Orlando ha dominato la scena, il grande assente, il civismo politico, si è materializzato per merito dei voti confluiti su di lui. Non solo, ma, a suo dire, questi voti hanno evitato il rischio della palude alla quale eravamo destinati se avessero prevalso i voti di segno contrario. Sospiriamo sollevati apprendendo che l’abbiamo scampata bella, che, grazie ai voti buoni, abbiamo scongiurato il pericolo della mafia, del malaffare e di quant’altro la palude ci avrebbe portato in dote in caso di vittoria degli altri voti, quelli cattivi, espressi a favore dei delinquenti che affollavano le liste avverse a quelle del professore, l’unico candidato degli onesti. Le categorie alle quali si ispira il nostro sindaco per rivendicare a se stesso l’esclusiva del civismo politico con implicita scomunica dei voti andati agli avversari, sono un mistero che resta nella mente di Giove, mentre invece non è un mistero che il peccato originale dei tanti che, prima della conversione sulla via di Damasco, venivano considerati dagli intransigenti sacerdoti della superiorità morale dei reietti, è stato mondato dall’approdo alla chiesa dei santi.  Chi si è ostinato a rimanere nel peccato appartiene alla palude, i convertiti invece sono la sostanza di una rinascita palingenetica grazie all’unzione del capo dei santi, il mistico Orlando. Bisogna riconoscerlo, raramente ci è accaduto di imbatterci in un personaggio così convinto della sua infallibilità da stabilire, a suo insindacabile giudizio, che cosa è vero  e che cosa è giusto, anche quando il vero abita nell’anticamera del sospetto ed entrambi, vero e  giusto, sono un insulto all’evidenza. Perché  è evidente che buona parte dei  supporter dell’ultima ora del nostro sindaco, fino a quando non sono approdati alla sua corte, erano, secondo i canoni della verità e del giusto a lui cari, degli indegni che avevano deturpato la città negli anni infelici dell’amministrazione Cammarata. Perché è evidente che la natura degli indegni non è stata mondata dal miracolo della conversione alla moralità ma dalla conversione al calcolo, perché lo stesso signor sindaco non è un santo e qualcosa da farsi perdonare ce l’ha, eppure continua imperterrito  a maramaldeggiare col suo manicheismo morale che pretende di disegnare una specie di croce di Adenauer  ponendo da un lato tutto il male rappresentato dai suoi avversari e dall’altra tutto il bene rappresentato dalla sua santità. I santi, signor sindaco, li lasci in paradiso, lei scenda sulla terra, si vesta dei panni dell’umiltà e soprattutto nella vittoria dimostri stile, quella classe che a un signore come lei, nato da cotanti lombi, non dovrebbe fare difetto, quella compostezza che è la dote dei grandi che non si fanno illusioni e non prendono sul serio per primi se stessi. Abbiamo l’impressione invece che lei si prenda troppo sul serio e rischi di coltivare il mito di sé, equivocando sul successo che le arride da tanti anni. I palermitani, a parte gli irriducibili accucciati adoranti all’ombra del suo carisma, continuano a votarlo con tutti i dubbi di questo mondo, perché ritengono che l’alternativa a lei non offra di meglio, perché hanno preferito votare  il meno peggio e soprattutto hanno eletto un sindaco, non un caudillo

venerdì 9 giugno 2017

La cara, vecchia ingiustizia


Abituati alla vecchia, cara ingiustizia di sempre, restiamo sconcertati (e ce ne vuole) al cospetto della nuova ingiustizia. L’antico potere ci ha fatto conoscere un contesto spietato in cui regna la legge del più forte ma in cui è garantito il rispetto delle regole del gioco e sono assicurate a ciascuno opportunità in relazione alle proprie capacità. Nel nuovo potere invece dei leoni regnano gli sciacalli, gli appartenenti ad una élite cinica che non rispetta alcuna regola e considera i propri simili meno fortunati alla stregua di scarti della società, di escrementi con cui concimare il terreno dei propri interessi. E’ la tirannia del politicamente corretto, una sorta di tribunale del popolo che compila liste di proscrizione in ragione di una teodicea che rimanda ad una ideologia assolutistica. Lo spaccato è quello di una società verticistica che dalle stanze del potere decide il giusto e l’ingiusto e stabilisce una scala di pretesi valori che si sostituiscono alla legge. E’ uno spaccato in cui i rappresentanti della superiorità morale e intellettuale controllano con occhio vigile la società e spiccano le fatwe nei confronti degli infedeli che non obbediscono alle verità dei pochi spacciate per le verità dei molti manipolando le masse e assecondando i pruriti più retrivi di una massa tumultuante. E’ così che la volontà generale viene annullata, che la democrazia si trasforma in oclocrazia e le vite non hanno più senso se non nella misura decisa dagli occhiuti e sospettosi nuovi tiranni. Gli esempi si sprecano e ricorrono nelle imprese sempre più arroganti di un establishment che ha perso il senso della misura e della decenza nel momento stesso in cui ha raggiunto la consapevolezza della propria impunità. In quello che è ormai un autentico regime autoritario, appare naturale negare diritti fondamentali in nome della sicurezza, sacrificare la libertà sull’altare dell’eguaglianza, mistificare la realtà, allestire tribunali in piazza che emettono sentenze di condanna anticipando l’esito delle sentenze emesse nelle aule giudiziarie, tollerare che sacerdoti dell’integralismo morale confondano peccato e reato e l’untore abbia gioco facile nel mettere in discussione la reputazione di chi non risponde ai requisiti canonici, che la demagogia prenda il posto della politica travolta da una crisi di identità al punto da abdicare alle proprie prerogative in favore di poteri più forti, che il diritto  diventi una prateria buona per le scorrerie di disinvolti cacciatori di scalpi, che la società, come una maionese impazzita, confonda i valori. E’ emblematica del clima in cui viviamo la gazzarra scatenatasi dopo la sentenza della prima sezione penale della Cassazione che ha rinviato al Tribunale di sorveglianza di Bologna la decisione sulla richiesta di assegnazione agli arresti domiciliari avanzata dai difensori di Riina, con l’invito a motivare meglio il suo rifiuto. Le solite prefiche del piagnisteo moralisteggiante (che cavalcano il dolore e le sacrosante preoccupazioni dei parenti delle vittime) sono insorte strillando contro il rischio della scarcerazione di Riina. Ma la Cassazione, sia ben chiaro, non ha deciso di scarcerare Riina, ha bensì fissato un principio di diritto che deve valere anche per il più incallito criminale, si è limitata ad applicare la legge. A quanto pare applicare la legge nella nostra allegra repubblica oclocratica è una opzione che deve valere solo usando un discrimine tra buoni e cattivi, e sennò è scandalo. Tutto ciò avviene nell’indifferenza di coloro che hanno l’autorevolezza per opporsi al degrado e non lo fanno per pigrizia, per mancanza di coraggio e per disonestà intellettuale, perché trovano più comodo adagiarsi sull’andazzo ricorrente che non intacca la  loro oasi di privilegi. Quando la democrazia si consegna nelle mani dei demagoghi che sollecitano le istanze irrazionali del popolo, essa si trasforma in tirannide, come ci insegna un certo  Platone.