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domenica 20 aprile 2014

Pasqua

La Pasqua ha un valore simbolico che ricalca fedelmente il calvario della vita.
Non ci facciamo illusioni sull’angoscia che affligge l’esistenza e ce la fa vivere come sappiamo e possiamo, con gli strumenti di cui ciascuno è dotato, e mentre si può accettare la dottrina di Sant’Agostino sul male come deficienza del bene provocata dalla scelta dell’uomo di utilizzare il libero arbitrio per peccare, riesce difficile accettare l’intransigenza del Sant’Agostino crepuscolare che pare negare l’importanza del retto agire in favore della grazia intesa come unica fonte di salvezza. Se il destino dell’uomo è affidato alla decisione di Dio che salva in modo imperscrutabile solo chi decide di salvare, senza alcuna considerazione per la scelta di fare il bene operata dall’uomo, è facile arrivare  alla terribile concezione luterana che non vuole l’uomo destinatario della grazia perché è buono, ma lo vuole buono perché toccato dalla grazia. Ma allora, che ne è del messaggio cristiano e della dignità dell’uomo se egli è privato della sua responsabilità individuale e dunque della sua autenticità? Che ne è del progetto d’amore contro il male? Per dirla con Kurt Flasch, Dio “assume i tratti dell’arbitrio personale e da Dio dell’amore si trasforma in mostro”, e il progetto di salvare l’uomo che indica nell’esempio di Cristo la via da seguire, perde di significato.
Certo la sfida è ardua perché l’uomo è un “legno storto” difficile da raddrizzare e basta che ci guardiamo attorno o, meglio, basta che guardiamo dentro di noi, per farci prendere dallo sconforto. Siamo tentati di tornare al distacco socratico dalla vita o alla visione delirante di Nietzsche che sostituisce il Dio ebraico-cristiano con la volontà di potenza del superuomo, ma ci resta l’alternativa della vita cristiana come ce la raccontano tutti i giorni gli angeli che volano tra di noi e danno testimonianza del loro impegno con atti di coraggio, di abnegazione, di solidarietà.
Proprio stamattina mi è giunto il messaggio di un angelo nelle vesti di un avvocato che assiste per la maggior parte detenuti in regime di 41 bis e non si è lasciato fagocitare dall’indifferenza che, come una corazza, costruiamo per difenderci dalla sofferenza con cui veniamo a contatto. Esercita il suo impegno professionale profondendovi la passione del suo cuore offeso dal dolore.

Ho letto questo messaggio come l’annuncio della resurrezione di Cristo.

venerdì 4 aprile 2014

Gli insurrezionalisti da barzelletta

Non dico che i veneti intercettati mentre sproloquiavano di insurrezione e di azioni violente servendosi di un carro armato fai- da- te, non meritassero di finire in carcere. Se non altro per conclamata coglionaggine. Ma prenderli sul serio e gridare al rischio di un autentico pericolo obbedisce al solito costume italiano di non avvertire il senso del ridicolo pur di diffondere un allarme non fondato e demonizzare un malessere che, quello si, merita ben altra considerazione. Non è proprio il caso di confondere capre e cavoli e dare ad una folcloristica dimostrazione di vuoto mentale la stessa dignità dell’indignazione sacrosanta che anima l’operosa e saggia gente del Veneto. Siamo su piani completamente diversi che hanno bisogno di valutazioni completamente diverse. Se la demenza dei cosiddetti insorti andrebbe affidata alle cure di una troupe di psichiatri, il malessere del Veneto va inquadrato in un patologia più seria la quale ha a che fare con un dramma autentico che non riguarda solo il Veneto ma tutta l’Italia e che non può essere liquidato come la bandiera di una manifestazione becera e velleitaria.

Quando parliamo di imprenditori del nord-est che si suicidano perché non ce la fanno più a sopportare la loro impotenza, la loro inutilità agli occhi dei dipendenti, la vergogna del loro fallimento, la perdita della scommessa con se stessi a conclusione della battaglia orgogliosamente combattuta con le sfide del mercato, per cause non imputabili a loro, quando dobbiamo fare i conti con la piaga della disoccupazione dei nostri giovani che in misura crescente non lavorano e non sempre hanno il coraggio di trovare altrove nuove opportunità ma si accartocciano su se stessi avvolti dalla miseria morale della loro dipendenza dalla famiglia, quando siamo costretti a prendere atto che una buona fetta della nostra borghesia, proveniente da una vita di lavoro e dallo status di una condizione dignitosa, scivola sempre più sotto la soglia della povertà, stiamo parlando di un problema serio. Bisognerebbe allora avere maggiore rispetto per questo malessere strisciante e ormai fuori controllo non irridendolo con confusioni strumentali, preoccuparsi di porvi rimedio e temere che anche un popolo paziente come il nostro può perdere veramente la trebisonda e insorgere molto più seriamente di quanto non hanno fatto questi sciagurati. Anche se sono convinto che la nostra pazienza è infinita e, così come non siamo capaci di porre rimedio ai nostri problemi, non siamo neanche capaci di insorgere.