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martedì 30 aprile 2013


La sparatoria a Palazzo Chigi

La sparatoria davanti a Palazzo Chigi ha innescato la solita ridda di dichiarazioni sulla matrice e il significato dell’episodio.
C’è chi ha parlato di attentato allo Stato, chi si è schierato dalla parte di Luigi Preiti definendolo vittima delle ingiustizie dello Stato, chi ha approfittato per strumentalizzare la sparatoria considerandola frutto del clima avvelenato prodotto dal populismo grillino, senza contare il solito delirio in rete.
Qualcuno si è spinto fino a proporre un paragone con la violenza negli Stati Uniti dove fatti di sangue gravi e isolati si ripetono con frequenza inquietante, temendo una “americanizzazione” della nostra società. Il malessere di una società malata e contraddittoria si starebbe impadronendo anche da noi di menti labili e desterebbe motivi di preoccupazione. In verità il succedersi anche in Italia di episodi di violenza gratuita e spettacolare giustificherebbe questa preoccupazione se non fosse che la diversa strutturazione della società italiana e di quella statunitense rende improponibile il confronto.
Rimane il mistero di una sparatoria enigmatica motivata dall’autore con la disperazione di una condizione economica e sociale di cui sarebbe vittima a causa della recessione. E rimane il balletto di dichiarazioni a ruota libera di commentatori e politici. Ho l’impressione che la vera protagonista  delle dichiarazioni che si avventurano nella interpretazione del gesto di Preiti, sia la mistificazione. La voglia di approfittare di un episodio tutto sommato banale quale è ogni male gratuito, per salire in cattedra e pontificare con analisi improbabili, è una tentazione alla quale la vanità non riesce a sottrarsi. La giustificazione del disagio sociale accampata dall’attentatore, la pretesa di fare della sparatoria addirittura un attentato allo Stato e quella di attribuire al gesto di Preiti connotazioni che rimandano da una parte a motivazioni di disagio sociale quasi a giustificarlo, dall’altra parte al clima avvelenato quasi a volere indicare dei mandanti, attribuiscono all’episodio una dimensione che non gli appartiene.
Credo si possa dire molto più realisticamente che ci troviamo di fronte al gesto di uno fuori di testa che ha nella mancanza della ragione la sua ragione o, al più, di fronte all’espediente più o meno consapevole di un uomo dedito al gioco, vittima di se stesso piuttosto che della società, il quale, al contrario di quanti ogni giorno si misurano con le difficoltà della vita e si ingegnano di superarle in maniera normale, non ha saputo trovare altra soluzione se non il gesto eclatante che lo proiettasse sul palcoscenico della commiserazione, incurante del sangue versato e, guarda caso, provvidenzialmente sprovvisto della pallottola destinata al suo suicidio. Ma siamo sempre nel campo della follia.

giovedì 25 aprile 2013


Il golpe

Il cittadino ha nelle Istituzioni la garanzia di essere tutelato.
E’ una garanzia che ha il suo costo nel limite alla libertà di ciascuno a favore dell’interesse collettivo. Se non fosse così chiunque si avventerebbe sul conseguimento del proprio bene a scapito del bene comune. Ma laddove è posto un limite alla libertà di, deve essere data una uguale garanzia alla libertà da. Il limite alla libertà positiva di decidere a proprio piacimento deve essere compensato dall’impegno dello Stato a garantire la cosiddetta libertà negativa, la libertà cioè di fare senza costrizioni o impedimenti che non siano previsti dalla legge.  Purtroppo qui, come si suole dire, casca l’asino perché c’è una incapacità da parte delle attuali istituzioni di garantire questo tipo di libertà.
In questi giorni si è visto come cittadini che palesano una preoccupante ignoranza dei principi basilari che governano la democrazia, siano caduti vittime di affabulatori che ne hanno manipolato le coscienze. Privi degli anticorpi che li aiutino a fronteggiare le insidie del plagio, si sono sentiti tutelati più che dalle istituzioni, da personaggi che hanno preteso di intestarsene la volontà. Stiamo parlando, sia ben chiaro, della volontà di una minoranza che obbedisce al richiamo della foresta e che affida ad un qualunquismo antico e duro a morire, le proprie ragioni. L’utopia rousseauiana della democrazia diretta a volte ritorna nonostante si sia infranta a più riprese contro le verifiche della storia tra le cui macerie giacciono le farneticazioni degli arbitrari dittatori della volontà popolare. Confusamente interprete di questa utopia, l’universo grillino, composto per buona parte da orfani della sinistra, ha sostituito la cultura di riferimento della intellighenzia tradizionale con l’incultura dei guru che hanno cavalcato l’indignazione, hanno rimestato nel coacervo di disperazione, frustrazione, odio, nella volatilità e frammentazione di opinioni ed hanno manipolato la protesta a loro piacimento. Il popolo del web, alla ricerca di chi assecondasse la sua ira, ha individuato un capo e si è accucciato ai suoi piedi accettando il dispotismo con cui egli prende in tutta segretezza le sue decisioni. Abbiamo appreso gli esiti misteriosi delle cosiddette “quirinarie” senza sapere nulla dei numeri che hanno prodotto questi esiti. Quando finalmente, ad elezioni del Capo dello Stato avvenute, i numeri sono stati svelati, abbiamo scoperto che gli aventi diritto al voto sono stati 48.292, i votanti effettivi 28.518 e che il prof. Rodotà ha corso per il Quirinale avendo come base elettorale ben….4.677 voti. Alla faccia della democrazia!
E tuttavia non si può non comprendere l’ira della gente e la voglia di protesta, troppa rabbia in giro e troppa tentazione del tanto peggio, tanto meglio. Solo che quando il malcontento tracima e, invece di montare attraverso i canali istituzionali, si consegna nelle mani di pochi mestatori che agitano la piazza straparlando di golpe solo perché un Parlamento legittimamente eletto ha votato a maggioranza, allora c’è di che preoccuparsi, perché le insidie rischiano di provenire proprio dalla piazza che abdica alle regole della democrazia e diventa luogo di incubazione dei germi che possono generare un golpe.
La morale purtroppo è che siamo un popolo irredimibile che ha mandato allo sfascio le istituzioni, che ha privato lo Stato della capacità di intercettare le istanze che salgono dal basso e di garantire la libertà dalle sirene dei Grillo e dei Casaleggio. E la colpa non è, come oggi è di moda dire, della politica, la colpa è di come siamo fatti.

sabato 20 aprile 2013


A proposito di cultura

Definire il significato di cultura è impresa ardua. Forse è più facile dire che cosa non è cultura.
Non è cultura l’arroganza dei manichei che non conoscono sfumature e non nutrono dubbi, stabiliscono nettamente e vaticinano demonizzando chi dissente da loro. La nostra cultura è stata monopolizzata da tempo da una élite che, in ragione di una pretesa superiorità intellettuale, emargina chi non si fa omologare e colonizza le menti condannandole al pensiero unico.
Non è neanche cultura di contro la dittatura della moltitudine vociante afflitta da vuoto pneumatico che, in odio al regime della suddetta élite ma anche in spregio a tutto ciò che con la cultura ha qualche attinenza ed è guardato con sospetto come un inutile orpello, banalizza le nostre aspirazioni mettendo all’indice il diritto di una società a volare per i cieli di una dimensione superiore sotto la guida di maestri sapienti, sotto l’influsso della bellezza e dell’arte che ci rimandano a sensazioni nobili, e strepita all’insegna dell’ovvio. Basta navigare in rete per imbattersi nel qualunquismo dei soliti noti in servizio permanente effettivo che hanno portato il cervello all’ammasso e che, al riparo di pseudonimi improbabili, dilagano pretendendo di imporci la loro insulsaggine.
Non è cultura la pretesa di rivendicare il monopolio della moralità e nel suo nome consumare arbitri che con la morale non hanno alcuna parentela. La storia è ricca di episodi di giacobinismo che hanno prodotto altrettanti casi di eterogenesi dei fini grazie all’intolleranza di sanculotti privi di una rivoluzione da compiere ma non del livore con cui rumoreggiano ai piedi del patibolo di turno invocando giustizia sommaria. Nel primo libro della Repubblica Platone fa dialogare Socrate e Trasimaco e fa dire a quest’ultimo che la giustizia è l’interesse del più forte. È l’esemplificazione della morale dei nostri Robespierre.
Non è cultura la disonestà intellettuale dei politici che ci ammanniscono le loro convenienze gabellandole per progetti di bene comune che alla fine si traducono in disastro comune, fatti salvi i soliti privilegi. Non è cultura la loro voracità e la loro improntitudine, semmai è cinismo che si staglia tra i sinistri bagliori della disperazione che hanno creato. 
Non è cultura l’ipocrisia di chi non si arrende alla disuguaglianza dataci dalla natura e pretende di imporci l’uguaglianza dall’alto, ignorando che è veramente uguale chi è libero di forgiare la propria identità. E’ così che la nostra società si indirizza sempre più verso la massificazione dell’individuo che scoraggia l’iniziativa e condanna all’incapacità di produrre ricchezza.
Non è cultura la piaggeria della stampa che ha dimenticato la lezione di Terzani di ringhiare ai polpacci dei potenti e si fa complice di essi.
Non è cultura l’insensibilità con cui trascuriamo i ceti deboli tradendo il patto con i nostri concittadini e relegandoli nella indigenza di condizioni economiche da terzo mondo o nell’inferno di condizioni morali da suicidio. I nostri anziani e i nostri carcerati sono lì a testimoniarlo.
E’ ignoranza crassa e diffusa quella di un popolo che ha perduto la memoria delle proprie origini e si è arenato nelle secche di un provincialismo che lo confina ai margini del sapere e della dignità delle condotte, che non conosce Dante, la Costituzione, la propria lingua, anzi non conosce le lingue e si rifugia in inglesismi che usa a sproposito, che non sa onorare le testimonianze della sua storia, che devasta le bellezze di una splendida nazione. Questo popolo ha dato la misura di se e della propria inadeguatezza per una parte delegando alla guida del Paese uomini i quali, in una fase storica delicata che esigeva uno scatto di reni, non hanno saputo fare altro che disunirsi nella elezione del Capo dello Stato, e per la restante parte sostituendo la politica con la farsa e individuando il suo leader in un comico il quale pretende di cambiare la nostra democrazia rappresentativa in democrazia diretta condizionata da una opinione pubblica minoritaria e organizzata, a digiuno di politica e di cultura che, in una sorta di legge del contrappasso, detta la via alle élite. In questo marasma la politica non ha saputo fare di meglio che chiedere di essere soccorsa da un uomo di 87 anni, rimasto l’unica risorsa spendibile.
La non cultura ci consegna il panorama di un Paese che non può perché, a causa della mancanza di strumenti culturali, non ha la capacità di fare o, se può, non vuole perché il suo limite morale gli impedisce di fare. 

domenica 7 aprile 2013


Pauperismo

In un articolo a firma di un giornalista di cui non ricordo il nome ho letto che sono “colto, benestante, mafioso”. Sulla mia mafiosità non mi pronuncio, attendo che sia la Cassazione a farlo dopo 15 anni di processo.
Per il resto non ho dubbi, non sono né colto né benestante.
Senza bisogno di scimmiottare Socrate, chi ha un minimo di onestà intellettuale sa che ce ne vuole prima di parlare di cultura e per quanto mi riguarda, dopo tanto leggere, sono arrivato alla sconfortante conclusione che la cultura è un pozzo senza fondo al quale non si finisce mai di attingere. Quindi piano, caro il mio giornalista, con le affermazioni impegnative.
L’altra cosa di cui sono certo è che non sono benestante, anzi sono povero. Non lo dico con l’ astio di chi rinfaccia alla società la propria indigenza o con lo studiato distacco di chi la esibisce con noncuranza, vi assicuro che preferirei essere ricco piuttosto che lamentarmi o assumere atteggiamenti sussiegosi. Ripeto, sono povero e questa mia condizione mi pesa perché mi impedisce di fare tante cose che mi piacerebbe fare, ma soprattutto avvilisce il mio amor proprio. A chi si stupisce di questa mia esternazione, voglio chiarire che non mi sono svegliato improvvisamente con l’angoscia della mia povertà, ad essa mi sono abituato ormai da tempo, il fatto è che ho letto del suicidio di due coniugi che non hanno retto alla loro povertà e ho riflettuto su quante volte ho convissuto con il problema di mettere d’accordo il pranzo con la cena e quante volte la mia mente è stata attraversata da insani propositi. Pensate forse che tanti pensionati diventati poveri non vivano quotidianamente nel ricordo del loro vissuto dignitoso tramutatosi improvvisamente in un inferno popolato dai demoni delle loro necessità senza soluzione, e non abbiano pensato di farla finita? State certi che in ciascuno di essi la disperazione ha rischiato di essere cattiva consigliera. Grazie a Dio prevale l’istinto di conservazione, la forza d’animo che non la da vinta allo scoramento, la viltà che impedisce l’attuazione del gesto estremo, il rispetto nei confronti dei familiari, la fede e soprattutto la possibilità di trovare una soluzione pur che sia anche rinunciando al proprio orgoglio. Ci sono i figli, c’è la Caritas, ci sono le collanine e gli orologi liquidati per pochi spiccioli, qualche lavoretto che non ci saremmo mai sognati di fare, insomma quegli ammortizzatori che la buona sorte e il nostro ingegno ci mette a disposizione. Non vi dico a cosa ricorro io perché  non voglio assecondare il voyeurismo morboso di chi sbava sulle disgrazie altrui, ma debbo confessare che la mia condizione di povero ha dato una spallata alla mia fede di cattolico. Sulle pagine del Corriere della Sera di questi giorni il gesuita padre Gabriele Semino e il laico Piero Ostellino si sono confrontati a proposito del pauperismo e dell’impazzare dell’elogio della povertà in ossequio alle modalità pastorali inaugurate dal nuovo Pontefice. Sono emersi i due diversi approcci del cristianesimo nei confronti della vita, quello cattolico che fa della povertà il passaporto per la conquista della consolazione nell’aldilà, e quello protestante che incoraggia la ricchezza in quanto segno della benevolenza divina. Un bel rompicapo che fa vacillare la mia fede e mi fa chiedere a Dio il perché della gratuita crudeltà di una vita la cui fine percepisco più come un sollievo che come la porta d’ingresso verso la consolazione dell’aldilà.