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lunedì 26 settembre 2011

Le diverse morali

Eravamo convinti che la morale fosse una costante severa che non guarda in faccia a nessuno e non fa sconti.
Abbiamo imparato invece che essa è una variabile che va applicata a seconda dei casi.
Ce lo ha insegnato la vicenda del deputato PDL Milanese che, graziato dalla Camera, ha evitato di finire a Poggiorreale a fare compagnia al suo collega Papa. Due storie uguali ( o forse quella di Milanese è un tantino meno uguale ), due morali diverse, che confermano una consuetudine ormai consolidatasi nel nostro Parlamento, la consuetudine all’incoerenza.
Non è chiaro che cosa abbia indotto i nostri parlamentari a votare contro la carcerazione di Milanese, visto che da una superficiale lettura delle accuse che gli vengono rivolte le responsabilità contestate al nostro sono molto più gravi di quelle contestate al povero Papa, spedito in carcere per molto meno! Ci riesce difficile pensare che essi facciano così poco onore al loro titolo di Onorevoli da lasciarsi guidare, in una decisione che riguarda la sorte di un uomo, da motivi di bottega invece che da motivi dettati dalla loro coscienza. Ma, ahimè, pare che dobbiamo arrenderci all’evidenza: la Lega ha mercanteggiato la propria coscienza al banco pegni della Camera e ha riscattato l’on. Milanese reputando che le sue quotazioni valessero più di quelle dell’on. Papa ai fini dei risultati da portare a casa!
Tanto cinismo è però stato mitigato dalla delicatezza d’animo dell’on. Paniz il quale ha rivolto un pensiero commosso all’on. Papa ricordando che questi è da due mesi agli arresti preventivi e che questo accanimento è una vergogna. A chi gli ha obiettato che altri cittadini corrispondenti al 40% della popolazione detenuta sono nelle stesse condizioni da anni, senza suscitare il suo sdegno, ha risposto che Papa è un’altra cosa, rappresenta le Istituzioni. Giusto on. Paniz, a patto che i rappresentanti delle Istituzioni siano degni delle loro guarentigie, e sennò è troppo comodo.
Non spetta ai comuni cittadini entrare nel merito delle accuse rivolte dai magistrati ai parlamentari, ma gli spetta, e come, fare le pulci al grado di credibilità che i parlamentari si sono o no conquistata.
E’ credibile una Lega in preda a convulsioni moralistiche a singhiozzo che obbediscono a calcoli di ragioneria spicciola piuttosto che a obiettive considerazioni di carattere morale, in una vicenda in cui la morale dovrebbe essere l’unica categoria alla quale ispirarsi?
E’ credibile un Presidente del Consiglio che, vicende pecorecce a parte di cui può non importarci, (anche se qualcuno ha obiettato che a quel livello il privato si intreccia col pubblico per il discredito e il calo di credibilità che si abbatte sulle Istituzioni) ha determinato un tale declino dell’Italia che Obama si può permettere impunemente e ingiustamente di ignorare il ruolo fondamentale avuto dal nostro Paese nella vicenda libica senza che le nostre Istituzioni abbiano un sussulto d’orgoglio e, oltre a evitare preventivamente i soliti comportamenti ondivaghi all’italiana che poi determinano uscite infelici come quella del signor Obama, sappiano reagire con dignità rivendicando i nostri meriti in Iraq, in Afganistan e nella stessa Libia e pretendendo una maggiore considerazione da un alleato che non ci stima a tal punto da mortificarci davanti a tutto il mondo? E’ credibile un Presidente del Consiglio che è ridotto ad annaspare elemosinando la stampella dall’On. Scilipoti, pur provenendo dalla più ampia maggioranza mai realizzata nella storia parlamentare italiana, pur avendo avuto la possibilità di realizzare quella famosa rivoluzione liberale per la quale era stato votato, e che ha sperperato tutto mostrando il suo vero volto di magliaro che ha ingannato un popolo, di velleitario arrogante che ha enfatizzato le sue capacità di far fronte ad una fase storica della vita del nostro Paese calcolando, a voler essere indulgenti, con superficialità le sue doti?
E’ credibile un PD che non è capace di proporre una strategia degna di questo nome in alternativa a quella del governo, che si barcamena senza prendere una decisione definitiva tra le diverse ed opposte anime della fronda al governo, senza disegnare una sua identità credibile che non sia il solito logoro antiberlusconismo, che si impanca in improbabili crociate moralistiche, prigioniero dell’antica pretesa di superiorità morale di berlingueriana memoria, che oggi non può permettersi come dimostra la sberla rimediata con la vicenda Penati?
E’ credibile un Di Pietro che evoca scenari apocalittici ipotizzando strumentalmente la prospettiva di un selciato sporco di sangue allo stesso modo in cui con la sua nota disinvoltura seminò tangentopoli di imputati più o meno innocenti e provocò tante tragedie, il quale, mentre tuona contro il nepotismo e il malaffare, non dimentica che i figli sono “pezz’e core” e catapulta il suo di figlio in politica?
E’ accettabile lo spettacolo di quest’Italia che, pur in un panorama di comune rovina economica che attanaglia l’intera Europa, ha il discutibile ruolo di cenerentola presa per mano dai vertici della finanza europea, bacchettata come si fa con degli scolaretti indisciplinati, messa sotto tutela e comandata su quello che va fatto o no, con buona pace del nostro orgoglio di popolo adulto che dovrebbe sapere provvedere a se stesso?
E’ accettabile un’Italia della quale i suoi cittadini impegnati nei vari settori all’estero, non possono andar fieri, che suscita risolini di compatimento alle spalle dei nostri connazionali impegnati a portare nel mondo il buon nome del loro Paese, che vanifica gli sforzi dei nostri imprenditori alle prese con la concorrenza di imprenditori di altre Nazioni che mettono in campo ben altro prestigio?
E’ accettabile un’Italia che è ormai allo sbando per i mille difetti irredimibili e i mille problemi irrisolti dei quali si ha ormai la nausea di parlare, il futuro dei nostri figli, il presente dei nostri anziani, la corruzione nei vertici dello Stato, il giacobinismo di chi dovrebbe adottare equilibrio, una autoreferenzialità tanto tronfia quanto incompetente che poggia sul nulla, la mancanza di solidi ideali, la disinvoltura nella gestione della giustizia, la separazione e l’equilibrio dei poteri andati in malora sotto l’attacco di caste egemoni che hanno realizzato una conquista strisciante e invasiva dello Stato, l’assenza di una qualsiasi certezza del diritto? Un’Italia siffatta ha ridotto al minimo quella famosa qualità della vita per la quale eravamo famosi nel mondo e, contrariamente a ciò che pensano alcuni sulla nostra mitica capacità di adattamento, ha prodotto uno scoramento che sta sostituendo le capacità camaleontiche del nostro popolo con la rassegnazione.
Qualcuno ha detto che uno Stato senza regole, è uno Stato di briganti. E’ ancora valido il patto che lega i cittadini con lo Stato italiano e possiamo ancora considerarci una Nazione?
L’ostracismo


Frequento qualche circolo. Giochicchio senza tanto entusiasmo a burraco ma soprattutto accontento mia moglie che, poverina, ne ha viste tante standomi accanto e merita molto di più la mia condiscendenza per le sue debolezze di gioco che non la mia idiosincrasia per i rapporti col mondo esterno. In qualche caso sono stato più o meno gentilmente invitato a togliere il disturbo quando è emersa la mia identità di imputato di mafia e so che mi espongo continuamente a questo rischio grazie ad una notorietà della quale farei volentieri a meno. Ho scoperto che la natura umana sa essere particolarmente crudele quando deve infliggere sofferenza. Dunque il rischio di essere messo alla porta è sempre in agguato e forse, quando declino le mie generalità, dovrei far presente chi sono. Ma mi sono detto che in definitiva contano i comportamenti, che ho sempre incassato i complimenti per il mio tratto signorile, e che dunque non è il caso di scoprire le carte e beccarmi l’ostracismo privando mia moglie della sua innocente passione e me di un minimo di relazioni di cui necessita anche il più incallito dei misantropi.
E’ vero, sono un imputato di mafia e forse dovrei avere maggiore lealtà per chi mi ospita e può sentirsi ingannato dalla mia intrusione, ed anche, a dire il vero, per me stesso alla mercé della mia passione ludica al punto da non avere riguardo per il mio amor proprio in una città che ormai non perdona, che ha da sempre trescato con la mafia ma che adesso ha scoperto una verginità un tempo impensabile, difende questa sua nuova identità, più o meno sentita sinceramente, con la intolleranza tipica delle vergini rifatte e sa essere crudele. Tutte le volte che sono stato riconosciuto, ho avvertito su di me sguardi allarmati che mi hanno seguito con circospezione, controllando ogni mio passo nel timore di chissà quale misfatto, frenando a stento l’ira repressa per la mia sfrontatezza nel mescolare la mia sporcizia morale al candore di tanti galantuomini.
Dunque occorrerebbe una maggiore cautela e, se non ne sono capace, non mi posso lamentare per le umiliazioni alle quali mi espongo a causa dalla mia avventatezza, anche se essa va giudicata con indulgenza considerando che, oltre ad essere un imputato di mafia, sono anche un uomo che non può accettare a cuor leggero di restare imbucato nella propria tana per tredici anni pur di non turbare i sonni dei Saint-Just che con il ciglio sollevato inorridiscono di fronte alla mia pretesa di mescolarmi a degli onest’uomini, ma non stanno tanto a sottilizzare sul trascurabile dettaglio che la mia vita è appesa da tanti anni ad una sentenza che dica finalmente chi sono, se mafioso o no.
La vita di un uomo è ben poca cosa al confronto del buon nome del circolo e non è tollerabile che la frequentazione di un imputato di mafia, anzi di un mafioso tout-court, ne metta a repentaglio la rispettabilità, c’è un ordine di valori e il perbenismo li precede tutti, senza stare a spaccare il capello in quattro riflettendo sull’ovvietà che sono un innocente in attesa di giudizio!
Ed allora, stando così le cose, inganno i benpensanti, sfido la sorte dicendomi che non sono peggiore dei tanti che mi vogliono privare del mio diritto ad un minimo di spazio vitale e che, magari, chissà, anche loro qualche scheletro da nascondere ce l’hanno anche se non hanno la mia notorietà. Sfido la sorte pregustando il piacere nell’immaginare il panico dei delatori mentre sussultano nel riconoscermi e si precipitano, tremando di sdegno e di indignazione, a denunciare al riparo della loro viltà la mia presenza. Li immagino mentre, in preda al terrore, squittiscono scandalizzati invitando i compagni di merenda a serrare le fila e a difendere, nel fortino di un circolo in cui si gioca a carte, la morale comune e il loro diritto a ingannare, in tutta tranquillità e senza presenze ingombranti, i compagni barando.

mercoledì 14 settembre 2011

La verità

Sul concetto di verità si sono cimentate le più belle menti della storia del pensiero umano. Esiste la verità parmenidea e quella protagoriana, quella assiomatica che vive nell’iperuranio e quella aristotelica che va sottoposta a verifica. Da sempre l’uomo si è interrogato sull’autentico significato della verità nella presunzione che la verità esista. E, grazie a questa presunzione, ha provato via via a impegnarsi in una ricerca così ardua. La filosofia ha fondato il cosiddetto senso comune su principi universali, l’”episteme”, pretendendo di fissarli in una dimensione immutabile. Ma i principi universali non sono forse essi stessi il risultato di quello che è stato convenuto nel corso dei secoli dall’uomo e non hanno dunque la precarietà propria dei limiti dell’uomo? La nostra presunzione ci porta ad avventurarci laddove non è possibile scoprire niente di certo dimenticando la lezione di Pitagora che, nonostante predicasse di non sapere nulla, aveva capito tutto più degli altri.
Giustamente Emanuele Severino ci ricorda che la natura, come hanno convenuto persino filosofi di diversa impostazione ideologica come i realisti e gli idealisti, esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani e che la sua sola dipendenza è legata alla coscienza trascendentale. Ha avviato inoltre con il suo solito acume una riflessione sulla nascita di un nuovo concetto di verità dei nostri giorni. Ha illustrato il nuovo realismo che si rivolge alla scienza moderna e che non è più il senso comune dell’episteme, ma ha giustamente fatto notare che “la realtà, che per la scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non esistesse, è per definizione ciò che non è osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza”. Non essendoci esperienza umana di ciò che esiste, conclude Severino, affermare che la realtà esiste indipendentemente dall’uomo è un atto di fede. Ed ecco dunque che anche il realismo della scienza moderna ci rimanda alla coscienza trascendentale.
Mentre riflettevo sulla “lezione” di Severino mi sono imbattuto nella lettura di quell’autentico contenitore di buon senso che è Ostellino. E’, questo concretissimo intellettuale, un liberale che ha un senso humiano della realtà e che ancora una volta non si è smentito. Egli scrive: “ Guardo al mondo con gli strumenti della cultura liberale: verificabilità, nella realtà, delle asserzioni politiche (teoria empirica della conoscenza); convinzione che nessuno possieda la Verità, e tanto meno la possa imporre ad altri, ma che le “tante verità” siano disperse fra milioni di uomini che, perseguendo i propri interessi, realizzano, “inconsapevolmente”, un beneficio comune ( pluralismo di valori e loro mediazione attraverso il processo politico democratico); fiducia nelle libertà e nell’autonomia dei singoli individui ad esercitarle, in un quadro di regole la cui sola funzione sia di evitare che si arrechino danno l’un l’altro (Stato di diritto)”. Ecco, Ostellino ci indica le sole verità di cui possiamo disporre, le uniche adatte a governare la nostra vita, seppure con il dubbio costantemente accucciato ai piedi della nostra ragione. Di queste verità ci ha parlato Aristotele con la sua virtù dianoetica, la “phronesis”, la saggezza protesa a ispirare le virtù necessarie per realizzare il giusto mezzo della vita, lo stesso Aristotele che ci ha parlato anche di un’altra virtù dianoetica, la “sophia”, la sapienza che ci proietta verso una dimensione trascendentale alla ricerca di una realtà divina attraverso l’unico mezzo che si può permettere l’uomo nella sua ricerca di verità: la fede. Purché sia chiaro che quella che cerchiamo con la fede è una verità che non imponiamo a nessuno e che non pretende di essere assoluta se non nell’ambito dello spirito di ciascun individuo coltivato attraverso le imperscrutabili vie dell’anima.

mercoledì 7 settembre 2011

Un cane randagio

In un vecchio post intitolato “Il rovistatore”, descrivevo il personaggio di un vecchio indigente dall’aspetto dignitoso costretto dal bisogno a rovistare nel cassettone dell’immondizia alla ricerca di ciò che potesse essere ancora riciclato. Quell’uomo, nonostante la mortificante necessità cui era costretto, aveva un suo ritegno che lo fece avvampare di vergogna quando il mio sguardo sorpreso e imbarazzato si posò su di lui. Ricordo che, gli occhi pieni di lacrime, si sottrasse alla mia vista correndo col capo chino a nascondersi dove io non potessi raggiungerlo. Non ho mai più dimenticato quella scena e quell’uomo che, discendendo negli inferi della condizione umana, nel mentre si abbassava all’ umiliazione di quell’atto estremo, manteneva paradossalmente una sua dignità grazie al pudore della sua reazione. In quel vecchio c’era ancora la voglia di sentirsi uomo, di non abdicare alla sua natura, rovistava, si, nell’immondizia ma, venendo scoperto, avvertiva la vergogna del suo gesto e si ritraeva consapevole della miseria alla quale la sorte lo costringeva e alla quale aveva ancora la forza di ribellarsi con quel suo gesto di pudicizia, quasi a rivendicare che in lui era rimasta traccia della sua antica dignità.
Ho ricordato con dolore questo episodio allorché, a distanza di mesi, ho assistito ancora ad una scena analoga.
Mi sono reso conto che siamo destinati a fare i conti con il retaggio della dissennatezza umana che fatalmente ci consegnerà ad una fine ingloriosa, non dissimile da quella delle bestie. E’ sotto gli occhi di tutti l’incapacità dell’uomo di provvedere a se stesso e al proprio futuro e non è difficile preconizzare che in un tempo più o meno prossimo, molto prima che poi, man mano saremo in numero sempre maggiore alle prese con i nostri cassonetti dell’immondizia, protesi su di essi e intenti a contenderci gli avanzi con nostri simili sempre più numerosi e affamati.
Ieri ho visto il paradigma di quello che saremo in un barbone intento a rovistare dentro un cassonetto dell’immondizia alla ricerca di ciò che era commestibile e che portava alla bocca con aria famelica ingurgitandolo con voracità. Tuffato dentro il cassonetto piuttosto che chino su di esso, non si curava di chi lo guardava sconcertato e, privo di qualsiasi pudicizia, lercio, in preda ad una sorta di bramosia incontenibile, si abbandonava a quel banchetto immondo con avidità, quasi temendo che qualcuno gli contendesse quei miserabili avanzi. Si guardava attorno con aria inquieta, gli occhi stretti in una fessura iniettata di diffidenza, non sfiorato da alcuna vergogna ma determinato a difendere ad oltranza il suo prezioso ignobile pasto.
Ho trattenuto a stento la voglia di cacciarlo come si fa con le bestie e ho rivisto come in un flash la scena di qualche mese fa, di quando un vecchio indigente frugava anch’egli in un cassonetto, l’ho ricordato con tenerezza e affetto mentre fuggiva in preda al suo pudore conservando la sua condizione umana per se stesso e per noi e riflettevo sconsolato su come il tempo ci ha messo poco a trasformare quella dignità nella sconcezza di un barbone che digrigna i denti difendendo la sua preda come un cane randagio.

martedì 23 agosto 2011



Al Déjà Vu


Mi permetto qualche volta di consumare un solitario aperitivo al Déjà Vu.
E’ vicino casa mia, ci posso arrivare a piedi e mi piace quella sua atmosfera complice che vede riuniti attivi manager, giornalisti Rai, anziani signori come me alla ricerca di relazioni che diano calore alla loro vita, vivaci commentatori delle vicende politiche invariabilmente anti berlusconiani, tutti fedeli all’appuntamento col rito di uno dei pochi capricci che ci concede questa città: l’aperitivo rinforzato.
Capita qualche volta che si intrufolino personaggi insospettabili che solo in un secondo momento tradiscono la loro estraneità a questo mondo. Ne ho incontrato uno l’altro ieri, in un tardo pomeriggio in cui, inseguito dall’afa, mi ero rifugiato nell’unica saletta del locale, al riparo dell’aria condizionata. Il suo aspetto non destava alcuna curiosità grazie ad una anonima e dignitosa compostezza e all’ abbigliamento sobrio tipico di un anziano signore che poteva essere scambiato per un avventore in cerca di un tavolo libero. Mi insospettii quando mi resi conto che il suo aggirarsi per i tavoli non serviva per cercare un posto dove sistemarsi ma era intercalato da soste a ciascun tavolo sul quale si piegava educato ed esitante chiedendo qualcosa. Lo seguii con lo sguardo sempre più interessato mentre proseguiva nel suo giro incassando risposte che apparivano di volta in volta di consenso o di diniego alle sue richieste e infine realizzai con angoscia che si trattava di un mendicante. Ero ancora alle prese col mio stupore, quando lo vidi davanti a me: “Mi darebbe un euro?”. La richiesta non sapeva di questua e aveva una sua imperiosità educata che non poteva essere elusa, era come se fosse nell’ordine delle cose che un signore allampanato e dal volto impenetrabile chiedesse ciò che era ovvio con un rigore che non ammetteva repliche. “Certo che le do un euro”, balbettai confuso, ma subito mi ripresi e gli chiesi se voleva sedersi al mio tavolo e consumare qualcosa in mia compagnia. Non riuscivo a capacitarmi di quello che stavo vivendo e volevo saperne di più, sentivo che dietro a quell’uomo si nascondeva qualcosa che valeva la pena conoscere, qualcosa che sapeva di ingiustizia e di miseria sociale che gridavano silenziose cercando un approdo alla loro disperazione. Esitò osservandomi con fare guardingo, poi si sedette.
Non ebbi bisogno di chiedere ché lui con un sorriso mesto mi sdoganò dal mio imbarazzo, dicendomi che comprendeva quello che provavo e raccontandomi di se. Mi narrò la banalità di una vita insultata dalla sorte che non aveva fatto in tempo a blindarsi nei meccanismi di ammortizzatori che la preservassero dall’indigenza, di come alla sua età non aveva ormai le risorse per riappropriarsi di una condizione dignitosa, della moglie a casa, compagna di una vita, tradita nelle aspettative di una vecchiaia serena e bisognosa di cure, di come aveva dovuto scegliere fra la rinuncia alla propria vita e quella alla propria dignità e si fosse piegato a questa seconda scelta per amore di quella moglie, di come si fosse inventato un lavoro per giustificare con lei le sue sortite pomeridiane e tornasse a casa col sorriso sulle labbra e un fiore profumato di tutto il suo amore.
Mi narrò tutto questo d’un fiato con gli occhi che finalmente avevano un’espressione e si riempivano di lacrime, poi di colpo si alzò e, ignorando il mio invito a fermarsi ancora, fuggì via.
Ho chiesto in giro, l’ho cercato informandomi con gli avventori, col ragazzo del bar, se sapevano dirmi come facevo a rintracciare un signore allampanato e dal volto impenetrabile, tutti si ricordavano di lui ma allargavano le braccia giurando di non averlo più visto nei paraggi.
Continuo ad andare al Déjà Vu, mi guardo attorno nella speranza che la sua figura inconfondibile si materializzi come d’incanto, ma so che non lo vedrò mai più.

martedì 16 agosto 2011




Il sovraffollamento nelle carceri

Ieri ho scritto sugli emarginati del ferragosto ma pare che la categoria degli emarginati sia infinita e tocchi tornare spesso sull’argomento. Oggi parlerò di quella dei detenuti, materia in cui sono particolarmente ferrato. Me ne offre lo spunto lo sciopero della fame nel quale è impegnato Pannella per sollecitare l’attenzione della distratta opinione pubblica sul problema del sovraffollamento nelle carceri italiane.
Facendo l’inventario dei fallimenti dello Stato, quello delle carceri vi può essere iscritto a pieno titolo assieme a quello della nostra classe politica, della nostra economia, della nostra società, della nostra giustizia. E’ un fallimento difficile da risolvere perché lontano dalla sensibilità della gente. Se lo Stato fallisce su tutto il resto, si becca le proteste più o meno vivaci dei cittadini, sterili quanto si vuole ma che hanno almeno la parvenza di una vitalità seppure votata all’insuccesso. L’ho già scritto, gli italiani si meritano quello che hanno. Quando invece si parla di carceri manca qualsiasi reazione garantista perché inconsciamente rimuoviamo il problema o, peggio, perché, avendone consapevolezza, l’affrontiamo con l’astio del giacobino che ritiene essere quello un mondo che merita le ingiustizie da cui è afflitto.
E’ convinzione comune che i delinquenti o presunti delinquenti, in quanto tali, hanno perduto il loro status di uomini, la loro dignità, il loro diritto ad un trattamento equo, come se l’obbligo di espiare la pena escludesse il diritto di espiarla in condizioni dignitose. Le carceri a due passi da casa nostra sono vissute come un corpo estraneo, o al massimo sono considerate con l’imbarazzo di chi sa che deve fasi perdonare la propria indifferenza ma non tollera di essere coinvolto nella battaglia per la sorte di gente che non sente simile e di essere turbato dalla presa di coscienza di una realtà così disumana.
Tale realtà rischia di apparire stucchevole e di essere scambiata per ricerca di commiserazione ed è per questo che ometto di descriverla, ed anche perché sono già stato oggetto dell’accusa di chi mi ha rimproverato di volere suscitare strumentalmente la pietà del prossimo. Un ex detenuto che ha trovato la via della redenzione, in un impeto di sacro furore, mi ha addirittura ringhiato che non meritano condizioni vivibili coloro che reiterano il reato tradendo la fiducia della società!
Ai palati severi e a quanti pontificano con il sopracciglio inarcato voglio però ricordare che questi reietti dell’umanità sono umanità essi stessi, sono parte di noi e che non è possibile rimuoverli fino a quando in Italia vigerà il divieto della pena di morte. Con la pena di morte alcuni di essi verrebbero rimossi e una parte del problema risolto, col carcere essi sono ben vivi e non possono essere affastellati, corpi senz’anima, nella fossa comune delle nostre coscienze ipocrite.
Ciascuno guardi nel proprio armadio e decida se può permettersi il rigore della censura e della tortura. Chi afferma che prova una sensazione di appagamento quando sente il tintinnio delle manette, chi afferma che i mafiosi debbono morire in carcere anche se hanno espiato la loro pena, chi ignora le condizioni di vita in carcere, non è migliore di chi ha sbagliato ma sta pagando il conto della propria colpa. I detenuti che stanno saldando il loro debito alla società, a fine pena, ma anche e a maggior ragione quando il fine pena è mai, possono dire di avere pareggiato i loro conti con lo Stato.
Può dire la stessa cosa uno Stato che costringe dei suoi cittadini a vivere in condizioni di estrema sofferenza e di gratuita disumanità? E’ ammissibile che lo Stato debba arrossire al cospetto di quelli che vengono considerati i suoi figli peggiori? Se è così, sono questi i figli che lo Stato si merita.

lunedì 15 agosto 2011





Ferragosto

Come ogni anno il ferragosto ripropone lo scenario delle città deserte e il dramma della solitudine di chi non ha i mezzi per partecipare al rito delle vacanze e sperimenta in maniera più crudele del solito la diversità della propria condizione. Vivere al di sotto della soglia di povertà in compagnia della moltitudine che affolla le strade, è un conto, ci si sente quasi confortati dalla convivenza vissuta spalla a spalla, dal contatto con la gente, dalla banalità di una vita comune a tutti che sembra renderci uguali, dall’inganno delle incombenze solite che paiono riguardarci allo stesso modo e dall’illusione che siamo condannati senza eccezioni allo stesso destino. Lo struscio di una umanità che ci sfiora, l’alito caldo di chi ci respira addosso, il consueto, chiassoso rumore del traffico, sono un abbraccio confortante dal quale ci sentiamo protetti. Salutiamo i nostri amici ogni giorno alla stessa ora, incrociamo il nostro vicino mentre accompagna la sua cagnetta a fare pipì e talvolta ci fermiamo a permettere che i nostri amici a quattro zampe si annusino tra di loro, scambiamo chiacchiere da bar su Berlusconi e su come faremmo molto meglio se fossimo al posto di questi politici, ci fermiamo di fronte alle solite vetrine ad ammirare le mercanzie esposte e a raccogliere il solito sorriso di compatimento del commesso che sa che non compreremo niente, rientriamo a casa col corredo di ciò che abbiamo accumulato durante la giornata e che ci servirà ad arrivare fino all’indomani. Altro conto è la città deserta che scodella in tutta la sua crudeltà la solitudine per quanti sono rimasti ad aggirarsi senza la bussola dei consueti punti cardinali. Essi si guardano attorno spaesati alla ricerca dei riferimenti soliti, si muovono smarriti e angosciati, camminano per le strade avvistando a distanza altri solitari passeggiatori che si affrettano a dileguarsi quasi sentissero l’imbarazzo e la colpa di essere soli, realizzano che i propri anticorpi sono andati in vacanza, dove non possono essere raggiunti, che la vita si è spostata altrove e che a loro non è rimasto neanche il lusso dell’illusione. E’ allora che l’ infelicità atterra in una terra di nessuno e, privata della sua spoletta di sicurezza, rischia di deflagrare, che l’angoscia e tante voglie insane attanagliano il nostro cuore, che la delusione ci fa sentire traditi dalla solidarietà acquartierata in contrade più opulente. E’ allora che l’ozio diventa noia e la noia frustrazione, e Kundera ha un bel dire che chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia, a ferragosto anche il buon Dio sembra essere andato in vacanza.

venerdì 5 agosto 2011

La società civile

Ci lamentiamo della nostra classe politica e ad essa indirizziamo le nostre maledizioni tutte le volte che i nostri interessi non sono interpretati come vorremmo. Il fatto è che i nostri interessi non sempre coincidono con ciò che è giusto realizzare e tutto nasce da un equivoco su cosa siamo e cosa vogliamo. Siamo forse un popolo che ha la consapevolezza del patto sottoscritto e ha a cuore il bene comune, oppure siamo un popolo che ha come obiettivo la realizzazione dell’interesse particolare? Chiarito questo, sapremo se è il caso o no di farci illusioni. Possiamo cominciare col dire che la contrapposizione tra una società civile innocente e una classe politica che la rappresenta male, è fittizia. Non siamo per nulla innocenti e quando ci lamentiamo di essere traditi nelle nostre aspettative e con cadenze periodiche rovesciamo il tavolo, dobbiamo interrogarci se abbiamo stabilito regole del gioco oneste e se è chiaro il patto che abbiamo stretto con i nostri rappresentanti. Se ad uomini eletti alla cosa pubblica chiediamo risposte disoneste, dobbiamo anche aspettarci di essere traditi perché, mancando la remora del valore ideale che condiziona le coscienze, il disonesto non si fa scrupolo di venir meno ai patti sottoscritti se deve scegliere tra il proprio interesse e l’interesse altrui. Purtroppo le risposte che chiediamo ai nostri rappresentanti sono per la maggior parte disoneste perché siamo un popolo consortile che non ha radicato il concetto di interesse collettivo da opporre all’interesse particolare, che invoca il rigore fino a quando esso non tocca i nostri interessi, che pretende il rispetto dell’efficienza fino a quando essa non passa attraverso il nostro impegno, che lamenta i privilegi delle varie caste a patto che non siano messi in discussione i nostri privilegi, che piange sulle macerie di una vita indegna di chiamarsi tale ma non è stato capace di crearsene una migliore, che è incapace di indignarsi contro chi irride la decenza cui anzi ammicca con complice e ammirata compiacenza. Cialtroni e intolleranti, pretendiamo l’impunità per noi con la stessa enfasi con cui invochiamo il fanatismo giudiziario per gli altri, condiscendenti con i nostri peccati erigiamo forche alle quali impiccare chi è appena sfiorato da un’indagine, vuoti di idee che non siano le solite furbe scorciatoie e privi dell’orgoglio che impone di issare bandiere scomode ma degne, preferiamo lasciar correre piuttosto che impegnarci e marciamo spediti verso traguardi che ci fanno guadagnare puntualmente il discredito internazionale. Disinvolti e votati all’intrallazzo, siamo un popolo dal compromesso facile che impegna la coscienza in spericolati salti della quaglia. A un certo punto, consapevoli di avere affidato le carte truccate a furfanti più furbi di noi, rimettiamo in discussione la partita e ci affidiamo a nuovi furbi che ripeteranno il tradimento dei nostri interessi fino al prossimo ribaltone e così all’infinito in un susseguirsi di tentativi destinati a infrangersi sempre contro lo scoglio del demagogo di turno. Tutto siamo tranne un popolo innocente che può rivendicare un patrimonio di valori ideali che faccia da collante e “stringa a coorte” tutte le anime della nostra Patria quando occorre. A quanti sostengono che il nostro Paese è oggi migliore di chi lo dirige, a chi enfatizza la crescita del 13% delle nostre esportazioni a dimostrazione del valore delle nostre imprese nonostante questa classe politica, va obiettato che tanto valore ha il torto di spendersi in una sorta di satiriasi individualista restia ad inquadrarsi in una intelaiatura di regole e a costruire un tessuto che ci renda disciplinati e socialmente coesi, che questa classe politica, questa giustizia che non funziona, l’incertezza del diritto, i lacci e laccioli della burocrazia, la supponenza dei nostri cosiddetti maitres à penser capaci delle più sofisticate elaborazioni concettuali che non approdano a nulla, non ci piovono dall’alto ma sono ciò che ci meritiamo, perché non sappiamo esprimere altro. Quando invochiamo un governo tecnico in cui presunti competenti sostituiscano l’inettitudine della politica, ci dobbiamo interrogare dove sono stati i nostri competenti quando si consumava il disastro economico e finanziario su cui è stata costruita l’Italia del dopoguerra, nella convinzione che si potesse crescere incrementando la spesa e banchettando con il debito pubblico. Si può dire che siamo un popolo capace di esprimere genialità individuali con la stessa disinvoltura con cui esprime la mediocrità della sua base sociale e della sua rappresentanza. L’appello di Galli della Loggia che invita ad uno sforzo comune per trovare un’intesa all’insegna delle reciproche concessioni per carità di patria, per solidarietà nazionale e per salvare la Repubblica, è destinato a cadere nel vuoto.

martedì 26 luglio 2011

La banalità del male

Non viviamo una gran vita e per giunta la viviamo in attesa di essere beffati dallo scandalo della morte!
Come con una consuetudine frustra, conviviamo con lo spauracchio di ciò che si nasconde dietro l’angolo, con la noia che condanna agli stessi gesti ripetuti giorno dopo giorno, con la solitudine delle nostre macerie, con il dolore latente che parla di affetti perduti, con la depressione sotto traccia, la nostalgia del passato che si affaccia prepotente rincorrendo i personaggi che hanno fatto parte della nostra esistenza e di cui ci affanniamo a fissare i volti mentre si dissolvono assieme a un pezzo della nostra vita, con i fantasmi delle notti insonni, con la sfida del solito mattino che ci presenta il conto dell’ennesima, maledetta giornata da vivere, con la nostra dimensione che diviene sempre più una estranea intollerabile, con la morte nel cuore di chi sa che non gli resta molto tempo e si affanna a guadagnare ogni barlume di vita, con la nostra miseria che si nutre di vite fallite e di necessità umilianti che spingono a scelte prive di pudore consumate da anime balbettanti, con la spietata normalità dei pochi tranquilli beneficiari di una vita blindata e impermeabile, con la supponenza dei maestri che pontificano di valori autentici e inattaccabili, con l’ipocrisia del sorriso ammiccante che nasconde l’insidia, con l’arroganza dell’opulenza priva di ritegno, con lo sguardo rassegnato di chi ha rinunziato a combattere, con l’indifferente ghigno di quell’autentica tragedia che è la nostra umanità perduta. Conviviamo con lo scempio inferto giorno dopo giorno alla nostra anima, con la mancanza di equità che ci fa ingiusti, con la crudeltà della nostra hobbesiana natura ferina che ci fa spietati, con l’intolleranza del gregge che si fa forte della sua viltà, col disgusto per la parte più inconfessabile di noi con cui facciamo i conti nel chiuso della nostra ridotta, con Calogero che fruga nel bidone dell’immondizia a conclusione della sua grigia vita d’impiegato del catasto, con Hamed che ha lasciato a Tangeri la sua fierezza per vestire nelle contrade della civiltà i panni del mendicante, con i figli senza padri e i padri senza figli perduti nelle stagioni della follia, con i confini della libertà negata, con l’ansia che ci deriva dal capriccio del tiranno di turno, con le certezze dei giudici che decidono delle vite altrui, che Dio li assista, con la pochezza di chi dispone dei nostri destini, con l’imbelle cattiveria di chi è baciato dalla fortuna, con le nostre domande irrisolte. Conviviamo con tutto questo e ci sembra d’avere conosciuto tutto il male possibile, finché una mattina non ci svegliamo con la notizia che un uomo nella lontana Norvegia ha ucciso 90 suoi simili. Riesce difficile concepire come si riesca ad uccidere 90 individui, uno per uno, con metodica ferocia, con certosino impegno, arrivando fino in fondo senza essere sfiorati da nessun dubbio, da nessuna pietà, e ci viene in mente quella che Hannah Arendt ha chiamato banalità del male, quella sua dimensione dozzinale, quel suo aspetto rassicurante che assume le sembianze di esseri comuni capaci persino di gesti teneri, che perpetrano la cattiveria come una normalità priva di perfidia, come una disarmante consuetudine, una banalità appunto. Cerchiamo risposte interrogando giganti del pensiero che col mistero del male si sono misurati a lungo, che, come S. Agostino, si sono sforzati di fornire una spiegazione di esso e scopriamo che una risposta è a portata di mano. E’ nella convivenza quotidiana con i nostri fantasmi, con gli incubi di un mondo maledetto che fa di ogni individuo un animale sociale intriso dei veleni iniettati dalla realtà esterna e ci presenta il conto attraverso l’esplosione di una follia che scaturisce dal disagio accumulato. Ma, grazie a Dio, una risposta ci giunge anche dalla dignità di un popolo, quello norvegese, che non ha replicato al male col male e con il suo premier, Stoltenberg, ammonisce: “ Sono fiero di vivere in un Paese che è riuscito a restare con la schiena dritta in un momento così critico. Quanto è accaduto è orripilante, Siamo una nazione piccola ma orgogliosa e non rinunceremo mai ai nostri valori.” E’ il segnale rassicurante che un popolo, seppure colpito a morte dal male, non ha rinunciato alla propria umanità, che la lotta è ancora aperta e l’esito tutto da scrivere.

sabato 23 luglio 2011

L’arresto di Papa

L’arresto dell’on. Papa è una delle tante pagine nere della nostra storia. E’ la sintesi di miserabili trame che nulla hanno a che fare con la giustizia e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte ad essa, con la capacità della politica di avvertire un sussulto di dignità e di infliggere a se stessa la stessa sorte che è solita toccare ai comuni cittadini, con la rinuncia a ripararsi dietro l’istituto dell’immunità parlamentare. Non ha la solennità del gesto catartico che riscatta la casta, la nobiltà di una scelta che per una volta sa abdicare alla consueta disinvoltura morale. Nulla di tutto questo, è il risultato ipocrita di maneggi spregiudicati che non si fermano neanche al cospetto di tragedie umane, è la decisione forcaiola di sacrificare una vittima purchessia allo scopo di far cassa, di far dimenticare privilegi e lanciare il messaggio che ai potenti non sono riservati trattamenti di favore. Il risultato, come ha scritto Pierluigi Battista, è che si è deciso di “distribuire l’ingiustizia del carcere preventivo anche nella casta dei privilegiati” oltre che nel ceto dei comuni cittadini.
L’arresto è una delle esperienze più drammatiche che può toccare ad un uomo ed è una misura che la società dovrebbe adottare come atto estremo a difesa della propria incolumità e come castigo per un reato effettivamente e definitivamente accertato. L’arresto preventivo è a maggior ragione drammatico e ingiusto perché parla di una afflizione imposta prima che sia stata accertata la colpevolezza. In Italia esso è diffuso a tal punto che, non solo è tollerato senza scandalo, ma spesso è addirittura invocato. E’ ancora più sentito contro le malefatte presunte o reali di una classe politica avverso alla quale è percepito un sordo rancore che suscita voglia di vendetta e un giacobinismo che ha tutti crismi dell’ordalia i cui esiti non sono facilmente addomesticabili. In genere essi nella loro furia iconoclasta finiscono per essere più disastrosi della causa che li ha determinati. Ci può stare che la voglia di far male appartenga ad una opinione pubblica che acquisisce la consapevolezza dell’ingiustizia perpetrata ai loro danni da una classe politica avida e incapace. Quando si ha il problema di far quadrare i bilanci familiari, quando tre milioni di italiani sono sotto la soglia della povertà e assistono alle indecorose condotte di un ceto politico che si consente privilegi sconosciuti in altri Paesi europei, quando la giustizia con il suo rigore non sempre giusto vale per i comuni cittadini e risparmia i titolari di immunità che si traduce in impunità, diventa difficile sottrarsi alla voglia di coltivare sentimenti di odio e di vendetta. La tentazione dei p.zzale Loreto e delle cacce alle streghe diventano sentimenti che inducono a linciaggi, e allora l’invocazione del carcere diventa un refrain che circola come un veleno nelle vene di un risentimento difficile da controllare. Ci sta meno che questo furore sia cavalcato da chi dovrebbe disinnescarlo. I nostri uomini politici, chiamati a costruire il nostro futuro e a dare esempi alla nostra coscienza, hanno il dovere di essere al di sopra di tentazioni insane quando sono chiamati a decidere della sorte di uomini specie se sollecitati dagli umori delle piazze esasperate dal disgusto per la politica. E’ in questi casi che i nostri uomini di potere devono sapere ritrovare la freddezza della mente lucida e l’onestà di scelte dettate da coscienze limpide, devono essere capaci di disobbedire a convenienze di parte e di non cavalcare derive che convengono a feroci calcoli politici, hanno il dovere di cogliere l’occasione per condurre battaglie degne come, in questo caso, quella per l’abolizione del carcere preventivo. Papa non può diventare lo strumento per inviare messaggi trasversali, per consumare vendette e far capire chi comanda e chi no, Papa e Tedesco non possono essere utilizzati come pedine di un gioco cinico dalla doppia morale condotto per gettare nel panico alleati e creare imbarazzo agli avversari, la frenesia forcaiola non può essere cavalcata ed esibita in maniera da informare la piazza che i suoi umori sono stati percepiti e accontentati. Va bene per i mestatori non per gli uomini di governo e Maroni e la Lega non hanno reso un buon servizio alla credibilità della politica. Il gelo calato sull’aula di Montecitorio dopo la consegna al boia di Papa la dice tutta sull’imbarazzo di Giuda ma non l’assolve dalla sua infamia.

lunedì 11 luglio 2011

La presunzione di innocenza

L’on. Carlo Vizzini, chiamato in causa dalla magistratura per una storia di tangenti, proclama la sua innocenza e lamenta di essere vittima di una montatura mediatica. Figuriamoci se non siamo solidali con chi ha la sventura di entrare nel mirino di una stampa famelica che, infischiandosi della presunzione di innocenza, sposa senza riserve le tesi della pubblica accusa pur di fare “ammuina” e vendere più copie. Conosciamo bene, per averlo sperimentato sulla nostra pelle, il cosiddetto potere creativo della stampa che sostituisce il diritto con l’arbitrio e indulge alla cannibalizzazione della giustizia per far posto allo spettacolo. Non pretendiamo di pronunciarci sulla fondatezza o meno delle accuse, ma non possiamo dimenticare che stiamo parlando dell’attività di indagine della magistratura requirente che ancora deve passare al vaglio di quella giudicante, che debbono essere esperiti i tre gradi di giudizio prima di giungere alla verità processuale e che, fino ad allora, l’on. Vizzini deve essere considerato innocente. L’uomo non è di quelli che suscitano le nostre simpatie, anzi, quando gli è accaduto di esternare sui diritti degli imputati distinguendosi per le sue posizioni forcaiole, ci ha procurato un istintivo senso di ripulsa. E’ famosa la sua affermazione che i mafiosi debbono morire in carcere e in povertà per il solo fatto di essere mafiosi teorizzando il principio secondo cui avere scontato la pena non basta a saldare il conto con la giustizia, che un certo tipo di imputato ha un conto infinitamente aperto con la giustizia in virtù del suo status di mafioso e che, al di là del fatto che commetta o meno reati, merita di finire, come ha sentenziato un epigono dell’on. Vizzini, i suoi giorni in un gulag. L’on. Vizzini ha cioè teorizzato il principio, che i cultori del diritto dovrebbero attentamente esaminare ed eventualmente inserire nel nostro sistema giudiziario, secondo cui lo status che non ha prodotto il reato, la potenza che non si è tradotta in atto tanto per scomodare Aristotele, basta a meritare la pena. Se passasse questo principio, le carceri non basterebbero a ospitare tutti gli stupidi che si “annacano” atteggiandosi a mafiosi! Ci complimentiamo con l’on. Vizzini per il suo acume giuridico e, nonostante dissentiamo dalle sue stravaganti incursioni nel campo dei diritti o meglio dei non diritti dei mafiosi, gli auguriamo ugualmente di far valere i suoi diritti, memori della lezione di Voltaire che si diceva disposto a lottare per garantire i diritti di chi la pensava in maniera diversa dalla sua. Ciò, nonostante l’imputazione di corruzione contestata a chi facendo politica e impegnandosi a servire la società piuttosto che a tradirla, è odiosa. Rivendichiamo dunque il nostro garantismo ma non riusciamo a sottrarci a un pizzico di perfidia constatando come il giacobino Vizzini abbia incontrato sul suo cammino un giacobino più giacobino di lui e sia caduto sul terreno di una intransigenza più pura della sua!

Lettera aperta a Felice Cavallaro

Caro dr. Cavallaro,
meriterebbe che La trascinassi in tribunale per diffamazione ed anche per soppressione di illusioni!
Ma come, ho fatto tanto per guadagnarmi il rango di mafioso e Lei che fa? Mi definisce loquace? Ho dato un’occhiata al dizionario e alla voce loquace trovo i sinonimi: ciarliero, garrulo, ciarlone, chiacchierino, chiacchierone, logorroico, verboso. E’ chiaro, Lei mi vuole rovinare. Lei vuole rovinare la reputazione di un uomo che si è guadagnato i galloni di mafioso di primo piano proprio attenendosi al sano principio del “niente sacciu” e, solo perché per una volta vi ho derogato non sentendomela di starmene muto mentre il sig. Campanella sbarellava dimentico dei sani principi mafiosi ai quali io l’ho educato, Lei mi sputtana? Mi capisca, dr. Cavallaro, a tutto c’è un limite, quando è troppo è troppo e non ce l’ho fatta ad accettare, facendo ricorso alla proverbiale imperturbabilità mafiosa, che il signor Campanella assumesse oltre alle sembianze di Paolo fulminato sulla via di Damasco, anche quelle di Santa Maria Goretti che ci distilla le sue verità con aria compunta. Vivaddio il personaggio è pur sempre quello che ha truffato un intero paese per milioni di euro senza pagare pegno, che sta godendosi la sua penitenza dorata a patto che continui a dire ciò che ci si aspetta da lui e però, se parla lui è credibile, se invece parlo io mi becco l’epiteto di loquace. Che facciamo, caro dr. Cavallaro, ce ne stiamo zitti e non disturbiamo il manovratore solo perché un mafioso non ha il diritto di tenere un blog e se ne deve stare relegato nella sua brava riserva indiana, perché un mafioso è figlio di nessuno e può essere tranquillamente preso di mira con ironia e disprezzo, perché è impensabile e sconcio che un mafioso dica la sua? Non è Lei il solo che si scandalizza della mia loquacità, prima di Lei ci ha pensato un suo collega, l’egregio signor Bolzoni che, bontà sua, mi ha gratificato della sua attenzione e del suo tempo con l’aria, come Lei, di chiedersi: ma chi si crede di essere questo Mandalà, come osa uscire dai panni del mafiosaccio con la lupara a tracolla? Increduli e scandalizzati non per quello che scrivo ma perché scrivo, mi osservate col sopracciglio inarcato e mi liquidate con un: “loquace”.
Fortunatamente Lei mi fa riguadagnare l’onore dopo avere rischiato di farmelo perdere, dandomi del boss e del padrino, la reputazione è salva! Certo mi è caduto un mito, quello del Cavallaro giornalista sobrio e misurato che in passato non si è mescolato alla canea mediatica che mi ha attribuito tutto e il contrario di tutto, che mi ha fatto il processo in piazza consegnandomi all’opinione pubblica nelle vesti di mafioso di prima grandezza, che, reificando le proprie convinzioni, mi ha attribuito ruoli e responsabilità che neppure la magistratura mi ha attribuito senza preoccuparsi di guardare le carte processuali e scoprire che il mio unico e vero reato è quello di avere generato mio figlio Nicola. A tutto questo Lei in passato non si è mescolato ma ha rimediato adesso per una buona causa: restituirmi la reputazione di mafioso dopo averla incrinata dandomi del loquace.

lunedì 4 luglio 2011

Il garantismo in Italia

Siamo alla solita sceneggiata delle prefiche che si strappano le vesti perché in Italia la difesa nei processi penali non ha le stesse garanzie dell’accusa. E’ la scoperta dell’acqua calda strillata con candore ipocrita da quanti, facendo il paragone con l’amministrazione della giustizia negli USA in occasione della vicenda Strauss-Kahn, lamentano che da noi, al contrario che negli Stati Uniti, i diritti della difesa non sono adeguatamente tutelati. Negli Stati Uniti, esattamente come succede in Italia, Strauss-Kahn è stato sottoposto ad un gogna mediatica spietata. E’ vivo il ricordo dell’uomo potente che ha dovuto esporsi alla mortificazione della passerella in manette, un tributo al calvinismo ringhiante della società americana alimentato dalla solita stampa che non si è fatta scappare l’occasione per cavalcare il mostro. Né più e né meno che da noi, ma contrariamente che da noi, appena sono affiorati dubbi sulla solidità dell’impianto accusatorio, l’accusa ha riconosciuto i propri errori e a Strauss- Kahn è stata restituita la libertà. Non propriamente come da noi! Ancora non c’è la certezza dell’innocenza dell’imputato ma è esemplare che il primo a riconoscere la debolezza dell’impianto accusatorio sia stato proprio il procuratore Vance e che si sia giunti a un risultato prossimo ad essere definitivo nel giro di poche settimane. Tutti ricordiamo la vicenda Tortora e sappiamo che la pubblica accusa ha potuto costruire l’impianto accusatorio con colpevole approssimazione, negando l’evidenza di contraddizioni, confidando nelle accuse improbabili di pentiti che narravano di scellerate complicità con Tortora, pur essendo evidente che non avevano la statura morale per relazionarsi con lui, perseverando anche quando l’impianto accusatorio è apparso chiaramente compromesso, non mostrando alcun ravvedimento, non rendendo l’onore delle armi ad un uomo ingiustamente accusato non per un errore di valutazione ma per fedeltà ad un teorema al quale l’orgoglio impediva di rinunciare. Tortora per quella vicenda ci morì, non risulta che i magistrati che hanno commesso l’errore ne abbiano risentito nella costruzione delle loro carriere. Purtroppo vicende che riguardano nomi noti suscitano emozioni, code polemiche, proclami scandalizzati fini a se stessi e per un Tortora che riguadagna l’onore grazie alla sua notorietà, vi sono innumerevoli Carneade di cui è disseminata la mala giustizia, che rimangono marchiati a vita. Agli indignati a orologeria che si svegliano solo quando deflagrano vicende clamorose, voglio chiedere di essere meno tonitruanti, di usare maggiore sobrietà e di coltivare il loro amore per la giustizia indagando sulle storture che si annidano nei percorsi del processo penale in Italia. Scopriranno che non esiste il tanto strombazzato giusto processo, che i diritti della pubblica accusa e della difesa non sono uguali, che la pubblica accusa può contare su una potente macchina da guerra per condurre le indagini, su tempi e strumenti utilizzati in largo anticipo rispetto alla difesa e che in questa fase può manipolare circostanze secondo i suoi interessi e indirizzare l’indagine a suo piacimento, mentre la difesa nella maggior parte dei casi dispone di poveri mezzi e, anche quando dispone di mezzi adeguati, può utilizzare i risultati ottenuti tra mille difficoltà in un clima che l’espone al sospetto di voler fare dell’ostruzione e della strumentalizzazione per danneggiare il sacro lavoro dell’accusa. Scopriranno che nel nostro sistema giudiziario gli avvocati vengono mortificati dallo strapotere dei Pubblici Ministeri e alcuni di essi si muovono con cautela non osando andare oltre il confine che la consuetudine ha loro imposto, che le vicende giudiziarie possono senza scandalo durare una buona parte della vita di un uomo e distruggerne la reputazione senza indennizzi che bastino a risarcire, perché non tutto è risarcibile, che l’indegna vergogna della detenzione preventiva colpisce uomini che possono risultare innocenti, che la detenzione in carcere è invivibile, che le vite sono spezzate da quella che Ostellino chiama “voglia di macelleria” della stampa, che ci si muove, e si può immaginare come, in una realtà consolidata da anni di consorteria corporativa tra magistrati giudicanti e requirenti che provengono dallo stesso ambito, continuano frequentare lo stesso ambito, si sposano tra di loro, transitano indisturbati dalla funzione requirente alla funzione giudicante portandosene appiccicata addosso la cultura, che il libero convincimento del giudice non supportato da prove certe può tranquillamente essere esercitato e non sempre confutato da un coraggioso giudice a Berlino che lo smentisca, che il pregiudizio ha la prevalenza sul giudizio, che all’imputato si impone di piegarsi alla verità dell’accusa in un clima e in una condizione che ne indebolisce le capacità di resistenza, e, mi scuso per l’autocitazione fatta non per amore di esibizione ma a scopo esemplificativo, che anche un vecchio in disarmo come me è sottoposto a misure cautelari che gli impongono di dimorare esclusivamente entro il perimetro della città, corre il rischio che, a 72 anni, possa ancora tornare in carcere, ha già scontato lunghi anni di detenzione preventiva pur non essendo stato ancora, dopo tredici di processo, dichiarato colpevole e da tutti è considerato tale perché questo è il messaggio che ha trasmesso una certa letteratura che si occupa di mafia e la vulgata innescata dal lungo itinerario processuale. Quanti strillano allo scandalo solo in occasione di vicende come quelle di Strauss e Tortora, si incazzino veramente per l’anomalia tutta italiana della nostra malandata giustizia, siano la coscienza del Paese, gli “uomini d’oro” di platoniana memoria, si trasformino in pungoli intransigenti e brandiscano la loro statura morale contro i tentativi dello Stato di tradire il patto sociale, si ricordino dei paria delle nostre carceri che in carcere ci muoiono suicidi perché non ne tollerano le condizioni o vengono “suicidati”, fissino nel cuore l’immagine di relitti perduti nei loro deliri onirici, abbiano il coraggio di gridare che non è tollerabile che il 60% dei detenuti in Italia è costituito da imputati in attesa di giudizio, sappiano opporsi all’arroganza di magistrati che si ritengono unti dal Signore allo stesso modo in cui riconoscono i meriti dei magistrati che fanno il loro lavoro improbo con sobrietà, spirito di sacrificio, coscienza e in silenzio, soprattutto diano sulla voce a certi forcaioli che ritengono che gli imputati di mafia, in virtù del loro marchio d’infamia, debbano finire i loro giorni in un gulag, come auguratomi da un coraggioso blogger protetto da nickname, o non abbiano diritto a garanzie e possono essere lasciati morire per sempre e poveri in carcere, e pazienza se hanno già scontato la pena per i delitti commessi, come auspicato da un noto ( più o meno ) parlamentare che, guarda caso, si è imbattuto in qualcuno più puro di lui che ne ha chiesto l’incriminazione. Combattano questa battaglia con caparbietà, stanando e incalzando gli altarini, scrivendo di loro senza complici genuflessioni, denunciando ogni giorno che Dio manda in terra i torti perpetrati dallo Stato con la stessa puntualità con cui denunciano i torti perpetrati dai comuni cittadini, urlando la loro rabbia di uomini giusti. Il panorama di macerie della nostra giustizia che ci fa regredire allo stato pre-civile, in cui i diritti appartengono solo a chi ha santi in paradiso e non ai figli di un dio minore privati del loro status di cittadini, deve essere lo sprone che li induca a combattere una violenza che nel momento in cui è consumata nei confronti della parte più debole della società, è consumata nei confronti del diritto e quindi nei confronti di ciascuno di noi.

lunedì 27 giugno 2011

La crisi del liberalismo

E’ tutto un rincorrersi di analisi che cercano di spiegare quella che viene definita la crisi del liberalismo. La crisi mondiale è stata letta in questa chiave ed è un affannarsi a proclamare che un’era è finita e che il paracadute dello Stato è l’unico rimedio che può aiutarci a navigare in un mare di insidie in cui i diritti dei singoli sono a rischio e possono essere tutelati solo se è lo Stato a regolare l’economia.
Trasferendo la lettura della crisi mondiale all’analisi della crisi di casa nostra, Angelo Panebianco sul Corriere di domenica 26, si è chiesto se il tramonto di Berlusconi si debba al tramonto internazionale del liberalismo di cui il premier sarebbe un “tardo epigono”o alle sue mancate promesse. Gli italiani che hanno sin qui sostenuto il berlusconismo, spaventati dalla crisi mondiale, avrebbero rinunciato ai principi liberali e si sarebbero rifugiati nello Stato, come dimostrerebbe l’esito degli ultimi referendum, o, delusi da Berlusconi e dalle sue promesse non mantenute ( privatizzazioni, liberalizzazioni ), lo avrebbero abbandonato al suo destino, come dimostrerebbe l’astensione di larga parte dell’elettorato di destra o addirittura lo spostamento dei loro voti sul fronte avverso? Panebianco propende per questa seconda spiegazione che è condivisibile a patto che ci si intenda su quali sono le promesse che gli italiani si aspettavano che Berlusconi mantenesse e ci si liberi di due premesse sbagliate, quella cioè che attribuisce a Berlusconi la capacità di essere un epigono anche se tardo del reaganismo e thatcherismo e quella che attribuisce all’elettorato di Berlusconi una cultura liberale. Il nocciolo dell’analisi è se in Italia esista una cultura liberale o tribale. Berlusconi, dopo avere acceso nel 1994 la speranza che finalmente in Italia fosse nata una nuova idea di liberalismo assente da sempre, un progetto che si rifacesse all’empirismo liberale inglese, una vera e propria rivoluzione, ha presto rivelato di che pasta è fatto tradendo assieme alle speranze dei professori che avevano scritto il catechismo di F.I., la sua autentica natura di imbonitore cresciuto alla scuola dell’effimero nel solco della migliore tradizione dei venditori di fumo, piuttosto che dei Reagan e delle Thatcher! A questa assenza di cultura liberale e di cultura tout court bisogna aggiungere le disinvolte condotte private che hanno concorso ad appannarne l’immagine. Sulla capacità degli italiani di rifarsi ad una cultura liberale, il discorso è ancora più sconfortante. In un Paese cresciuto all’ombra di interessi opachi e consolidati, che già agli esordi della sua vita ha dovuto fare i conti con una presenza ingombrante come il Vaticano e scendere a patti con i poteri forti, che via via nel corso della sua storia si è acconciato all’arte di compromessi scellerati come quelli che hanno visto Democrazia Cristiana e Partito Comunista accordarsi sottobanco sulla gestione del potere, soddisfare un welfare ingordo, privilegiare, nell’ambito di una economia regolata, il bisogno piuttosto che il profitto e, a questo scopo, gonfiare la spesa creando le basi dell’ abnorme debito pubblico, tutelare gli interessi corporativi a scapito del futuro degli italiani, creare enclaves inespugnabili, potentati inossidabili, classi di potere che tengono in una morsa ferrea qualsiasi tentativo di alzare la testa, ce ne volevano di attributi per scalzare tutto questo e ci voleva la spinta di un popolo meno disincantato del nostro che avesse nel suo DNA valori forti da rivendicare. Berlusconi non aveva la cultura e la voglia per portare avanti una rivoluzione liberale, né gliela chiedevano i suoi elettori, non erano certo le privatizzazioni e le liberalizzazioni che si aspettavano dal loro capo. Piuttosto che di traguardi ideali, gli elettori di Berlusconi, estromessi dai privilegi, resi orfani da tangentopoli, sentivano il bisogno di un Robin Hood capace di vendicarli, di rovesciare il tavolo e riscrivere le regole del gioco, di un totem all’ombra del quale accucciarsi, di un ulteriore centro di potere del quale sentirsi parte, e avevano creduto di individuare in Berlusconi il loro campione che campione è stato ma non certo degli interessi dei suoi seguaci. Berlusconi ha disatteso la cultura liberale che non gli è mai appartenuta, ha tradito il popolo delle partite Iva orfano sempre sotto tutti i cieli, e, impegnato nella difesa dei propri interessi personali, non ha avuto tempo e testa per difendere altri interessi, neppure quelli dei suoi seguaci che non fossero i soliti, intoccabili poteri forti!

giovedì 23 giugno 2011

L’irriducibile Don Chisciotte

Stavolta Pannella rischia veramente troppo. Il suo sciopero della fame e della sete lo sta portando sull’orlo di una via senza ritorno. E fa rabbia perché non c’è niente che meriti tanto impegno tranne la sua idealità. Fa male Pierluigi Battista a dire che, per quanto siano giusti i fini del leader radicale, i suoi metodi possono suscitare qualche presa di distanza. Perché? Forse perché il radicalismo di Pannella urtica qualche palato fino che non tollera che egli forzi i toni per dare l’idea dell’ipocrisia di tanti sepolcri imbiancati? Forse che il problema consiste nel fatto che Pannella si appunta la stella di David sul bavero paragonando l’ostracismo televisivo al quale sono sottoposti i radicali, alla Shoah, o considera la nostra democrazia alla stregua del nazismo? Siamo tutti abbastanza cresciuti per capire il senso di una provocazione e non è il caso che proprio un Sofri, che meglio degli altri conosce il valore della battaglia di Pannella contro il sovraffollamento nelle carceri, si scandalizzi per i suoi toni, non c’è certo il rischio che le esagerazioni di Pannella ci portino fuori strada. Magari ci scandalizzassimo a tal punto da prendere veramente coscienza di che cosa sta portando avanti Pannella! Abbiamo coscienza di che cosa stiamo parlando? Abbiamo la più pallida idea di quali sono le condizioni di vita alle quali sono sottoposti, a due passi da casa nostra, nostri simili? E’ di questi giorni una campagna promossa dalla Presidenza del Consiglio contro la tortura, ebbene non c’è bisogno di andare troppo lontano per fornire un esempio di tortura. Se vogliamo ricevere un bel colpo al basso ventre e vomitare per il disgusto, non c’è bisogno di ricorrere alle esagerazioni di Pannella o volare nelle alate atmosfere dello spot della Presidenza del Consiglio, basta molto più prosaicamente farsi accompagnare in un giro istruttivo negli istituti di pena di casa nostra dove il doppio della popolazione detenuta che le carceri dovrebbero contenere si affolla come in una stia, dove uomini come noi vivono come animali contendendo ai propri simili lo spazio di pochi metri, respirando l’aria viziata, gli odori, le flatulenze, le intimità più sconce della natura umana. Privati di un minimo di intimità che fa la differenza con le bestie, dispongono solo 2 ore al giorno per passeggiare nel cortile e, per le restanti 22 ore, sono murati tra quattro pareti dentro le quali bivaccano nelle brande, attenti a muoversi con cautela per evitare invasioni di campo che nel clima esasperato di una convivenza in così poco spazio possono sfociare in liti, costretti a misurarsi col caldo d'estate, col freddo d'inverno e con la sporcizia sempre, visto che la possibilità di una doccia è spesso limitata ad una a settimana. Manca il rispetto, quel rispetto che Kant ha definito la premessa della virtù e che è dovuto anche a uomini che meritano la più grave delle pene, senza il quale viene meno la legittimazione dello Stato, privo della virtù necessaria, a pretendere la severità della pena. In queste condizioni matura quello che Freud chiamò “pensiero onirico latente”, il suicidio.
Quanti, i giustizialisti, dichiarano che il tintinnio delle manette è sensazione sublime, quanti, i garantisti a scartamento ridotto, si inalberano solo quando è toccata la propria parte, quanti, gli indifferenti, pur di non turbare la loro tranquilla quotidianità, rimuovono il problema confinandolo nell’angolo più profondo della loro coscienza e ignorano drammi che maturano a pochi passi da loro, quanti, i nostri politici, non avvertono il pudore dei loro limiti e non ci risparmiano l’indecenza di vuoti proclami persino nei confronti di un dramma come questo, quanti, i giornalisti, così pronti ad appiattirsi sulle posizioni della pubblica accusa e ad enfatizzare solo la figura del colpevole da sbattere in prima pagina senza alcun rispetto per la verità dell’imputato, non sono capaci di intestarsi battaglie di civiltà a fianco di Pannella, tutti devono sapere che sono complici della tortura che viene inflitta a uomini come loro, colpevoli forse più di loro ( ma non è detto visto che la maggior parte dei detenuti è in attesa di giudizio e dunque formalmente innocente ), ma che, pur scontando la loro pena, quando è dovuta, la debbono scontare in condizioni di dignità. E allora non è proprio il caso di scandalizzarsi per le esagerazioni di Pannella, c’è semmai da rammaricarsi che un uomo come lui, con la sua nobile follia, riscatti una società che non merita rispetto perché non è capace di essere virtuosa.

giovedì 16 giugno 2011

Il senso della misura

E’ motivo di speranza la lettura dell’articolo del dr. Ingroia sull’ultimo numero di “ I Love Sicilia “.
Finalmente da una fonte autorevole e soprattutto da un addetto ai lavori giunge la denuncia di un malcostume tutto italiano che vede impegnata la stampa nell’esercizio di una disinvoltura che non ha tanti riguardi per la correttezza dell’informazione.
Dunque il dr. Ingroia lamenta che i media “interferiscono nel materiale processuale e rischiano di condizionare negativamente il corretto funzionamento delle regole del gioco”. Raccomanda prudenza, anzi serietà e il giusto approccio alla notizia. Se, per esempio, Graviano smentisce Spatuzza, questa, secondo il dr. Ingroia, non è una notizia, mentre lo è se Graviano conferma le accuse di Spatuzza. Nel raccomandare serietà ai media, il dr. Ingroia chiede che i media dicano solo le verità care ai PM!
Ma è proprio quello che hanno sempre fatto i giornalisti della giudiziaria in agguato nelle vicinanze degli uffici della Procura, lesti a intercettare gli impianti accusatori e proporli ai lettori come l’unica verità. Una stampa appiattita sulle posizioni della pubblica accusa, fa i processi in piazza e consegna l’imputato nelle vesti di colpevole ad una opinione pubblica che a sua volta non fa sconti, emargina e sancisce la gogna. E’così che vicende giudiziarie infinite si traducono in una dannazione che colpisce vite e affetti e sfregia reputazioni. Personalmente ho sperimentato le conseguenze della mia vicenda giudiziaria tutte le volte che è emersa la mia identità di imputato di mafia e ho dovuto fare i conti con la reazione di chi si è affrettato a prendere le distanze da me. E a nulla è valso che abbia denunciato le manipolazioni della mia vicenda da parte di giornalisti che mi hanno palesemente diffamato attribuendomi reati e ruoli che la stessa Magistratura requirente non mi ha mai contestato. Tutto è stato inutile perché la Procura ha sempre archiviato.
Adesso però sono più fiducioso perché, se il dr. Ingroia raccomanda maggior serietà ai media quando si occupano delle condotte dei magistrati, posso aspettarmi che la stessa serietà sia riservata ai comuni cittadini come me, e soprattutto che la prossima volta la Procura tratti con maggiore severità i miei esposti.
E visto che parliamo di serietà e senso della misura, voglio tornare a quindici giorni fa, a quando il senso della misura è stato superato dalla reazione alla scarcerazione dei quattro fiancheggiatori di Provenzano. Adesso la Cassazione si è pronunciata, i quattro sono tornati definitivamente in carcere e non turbano più i sonni degli intransigenti sacerdoti di una implacabile giustizia che considera gli imputati dei nemici da abbattere e infierisce sui diritti pur di infierire sugli imputati.
E’ vero che stiamo parlando di cittadini di serie inferiore ma mi hanno insegnato che è il principio che conta e se il principio non vale per i cittadini di serie “B”, finisce per non valere per nessuno e allora c’è di che preoccuparsi.
Dunque quattro sciagurati che avevano già scontato i tre quarti della pena loro inflitta in primo e in secondo grado, sono stati scarcerati perché la Corte di Appello che li aveva condannati, ritenne che fossero stati superati i termini di custodia in assenza di una sentenza definitiva. Reputò che cinque anni di carcere della cui legittimità non si era sicuri, erano troppi anche per degli imputati, presunti mafiosi quanto si vuole, ma anche presunti innocenti.. Apriti cielo, si scatenò una tempesta in un bicchiere d’acqua, si parlò di fatto inconcepibile e di default della giustizia, l’on. Lumia si spinse fino a dichiarare che “una falla del sistema giudiziario aveva consentito ai boss di farla franca”. Avere scontato cinque dei sei o sette anni di pena loro inflitta, nonostante non si avesse ancora certezza della loro colpevolezza, significava averla fatta franca? E se la Cassazione si fosse pronunciata per la loro innocenza? Dove era in ogni caso il problema e dove il rischio per la società? Certo non nel pericolo che i quattro si dessero alla latitanza vista l’esiguità della pena da scontare. E allora?
La spiegazione ce l’ha fornita Bianconi sul Corriere della Sera del 5 giugno: “ E’ un brutto segnale che quattro presunti mafiosi condannati in primo e in secondo grado per avere favorito la latitanza di Provenzano escano di galera perché la sentenza definitiva non è arrivata in tempo, è sintomo di un sistema dove gli ingranaggi si inceppano ancora”. Appunto è un brutto segnale che gli ingranaggi si inceppino e permettano che quattro imputati scontino quasi tutta la pena prima che sia confermata definitivamente la loro colpevolezza. E’ un brutto segnale che susciti tanto scandalo il fatto che, grazie ai ritardi della giustizia, quattro imbrattatele escano dal carcere dove non hanno più titolo di restarvi, e non susciti altrettanto scandalo nei farisaici indignati a senso unico il fatto che gli stessi ritardi condannino gli imputati, oltre che a lunghi anni di detenzione che possono non essere dovuti, a un limbo di decine di anni in cui le vite e le reputazioni fanno in tempo a essere sconvolte, prima che si giunga a sentenza definitiva. E altro brutto segnale è stato assistere alla contesa scoppiata tra Corte d’Appello di Palermo e Cassazione con cui venivano rimpallate le responsabilità della scarcerazione. Il Presidente della Corte d’Appello ha addirittura accusato la Cassazione di avere dato sulla materia relativa ai termini di scadenza indicazioni contrastanti! Un bell’esempio di certezza del diritto e di decoro della Magistratura!
Adesso i nostri quattro sono tornati in carcere, ma quando, fra qualche mese, dopo avere scontato l’intera pena, usciranno, cosa facciamo? Li interniamo in un gulag? I duri e puri della giustizia senza tanti riguardi per le pretese di qualche irriducibile garantista, non disperino, un rimedio si troverà e, come ha rassicurato l’on. Gasparri,” Il ministro della Giustizia saprà intervenire ancora una volta per porre rimedio a questa grave inefficienza dei magistrati”. Quel che conta è la sicurezza dei cittadini non il diritto e dunque qualcosa si farà contro questi quattro sfrontati che, saldato a torto o a ragione il loro debito con la giustizia, pretenderanno di tornare in libertà.

martedì 14 giugno 2011

Riflessioni in libertà

Mi sono ritrovato impegnato in una accesa discussione con il titolare del supermercato dove sono solito fornirmi. Debbo ammettere che ho innescato questa discussione con un pizzico di perfidia perché, conoscendo l’avversione del mio interlocutore per Berlusconi, l’ho provocato complimentandomi con lui per l’esito dei risultati elettorali. “ Contento che Berlusconi è stato battuto?” gli ho detto. Apriti cielo, mi è piovuta addosso una cascata di improperi contro il Cavaliere, causa di tutti i mali del mondo e soprattutto dell’infelice destino dei suoi due figli, ancora disoccupati, ma per fortuna spazzato via dai referendum nei quali egli ha votato quattro “si”, perché “non esiste che l’acqua sia di proprietà privata, che l’atomo debba portare il mondo alla catastrofe, che il sig. Berlusconi la debba far franca con il libero impedimento che mentre impedisce il giudizio lascia andare in prescrizione il reato”. Ma non si contentava il nostro di preconizzare solo la morte politica, si augurava addirittura la morte fisica di Berlusconi, “lo voglio vedere morto, solo allora avrò pace”! Mi è parso troppo e tentai di protestare che stava esagerando, ma mal me ne incolse, perché il mio agguerrito interlocutore mi aggredì con il sangue agli occhi e lo sguardo spiritato accusandomi di essere il solito reazionario che non lascia parlare gli altri. Mi ritrassi intimidito e mi rifugiai nelle mie riflessioni, lì non rischi di essere aggredito.
Pensai a noi padri che, in una stagione di egoismo, saccheggiammo le risorse pubbliche e mettemmo al sicuro il nostro futuro fottendo il futuro dei nostri figli senza dovere aspettare le nefandezze di Berlusconi, ai messaggi che una cultura di parte ha potuto tranquillamente trasmettere mistificando sull’atomo che da risorsa del mondo è stato promosso al rango di nemico del mondo, imbrogliando su falsi progetti di privatizzazione dell’acqua, barando sul concetto di libero impedimento e prescrizione. Il risultato mi appariva sotto le sembianze del mio negoziante, intransigente nelle sue certezze, indurito nel suo ardore di parte, implacabilmente assiso sul carro dei trionfi referendari. Lo vedevo mentre faceva dei miei eccessi verbali ( magari nella discussione con lui posso essermi infervorato ) l’occasione per demonizzarmi relegandomi tra gli arnesi della reazione e la mente è corsa ad Asor Rosa e ai cattivi maestri, all’agora che continua a mandare a morte Socrate, alla ragione ingoiata dalla pancia, alla libertà dei moderni che, con buona pace di Constant, ciclicamente si lascia assoggettare dalla libertà degli antichi, alla volontà generale di Rousseau che ci rimanda ad una democrazia improbabile, a Locke e alla sua tolleranza mandata a farsi benedire in un universo ormai concesso a tutti, in cui tutti possono dire tutto e il contrario di tutto, soprattutto possono prevaricare. Vedevo il trionfo della superiorità morale che obbedisce all’etica bacchettona e manichea secondo cui il mondo è diviso tra buoni e cattivi, l’appiattimento delle coscienze e l’annullamento di tutto ciò che non sia politicamente corretto, il trionfo della demagogia e delle costruzioni ideologiche che hanno come scopo di difendere privilegi radicati, vedevo l’individuo allontanarsi sfocato all’orizzonte e mi tenevo ben stretta la mia povera coscienza che, pur rinculando, continua a dire la sua grazie ad uno spiraglio di ragione.

venerdì 3 giugno 2011

Il senso della vittoria


Il risultato delle elezioni amministrative ha dato la stura alla reazione dei vincitori espressa in maniera unanimemente gioiosa, come è naturale, ma con una gradazione di toni che vanno dalla sobrietà al più sfrenato trionfalismo che evoca scenari impropri. Si va dalla composta reazione di Pisapia al campionario dei proclami di quanti scomodano le categorie dell’etica e dell’estetica per connotare risultati che in definitiva hanno deciso solo a chi assegnare il compito di amministrare delle città, seppure impegnative, di quanti si avventurano in improbabili celebrazioni del valore epocale di queste elezioni, sproloquiando di una sorta di palingenesi che avrebbe visto trionfare il bene sul male. Il lupo perde il pelo ma non il vizio e la sinistra, come al solito, la mette sulla superiorità morale della propria parte. C’è chi parla di espugnazione di Milano e di vittoria dell’Italia dell’eleganza tradendo il vizio d’origine di una certa sinistra rivoluzionaria e salottiera che, per quanto cerchi di ammantarsi con i panni della sobrietà, alla prima occasione non sa resistere ai propri istinti. C’è chi, bandana in testa, non riesce a tenere a freno gli impulsi giacobini che lo hanno visto protagonista di una stagione di manette facili e ne vuole rinnovare i fasti. Il mio edicolante, comunista della prima ora ma soprattutto antiberlusconiano, mi ha confessato che ha avuto un orgasmo provocato dalla sconfitta del Cavaliere che ha mandato in corto circuito i suoi ormoni. Gli ho chiesto come farà a dare impulso ai suoi appetiti sessuali allorché gli mancherà il motore della sua passione, il malconcio Berlusconi prossimo a togliere il disturbo.
Capisco che la sinistra viene da un lungo periodo di carestia e non riesce a tenere a freno la tentazione di strafare e straparlare ma deve provare a ragionare memore della lezione del passato quando i facili entusiasmi e la demonizzazione dell’avversario sono stati gli ingredienti che hanno aiutato Berlusconi a vincere, avendo ben chiara la consapevolezza che un risultato favorevole non significa che si è messa in moto alcuna macchina da guerra che peraltro evoca pesanti sconfitte, facendo tesoro del regalo fattogli da una destra suicida e non avendo troppa fretta di ricambiare la cortesia ripetendo gli errori del passato. In definitiva i risultati di queste amministrative sono il frutto del disgusto degli elettori tradizionali del centro destra che hanno disertato massicciamente le urne, della passione degli elettori di sinistra e della rabbia di alcuni elettori di destra che si sono sentiti traditi e hanno provato ad affidare le loro speranze ad una scelta diversa, sono il messaggio di cittadini che hanno affrancato i loro sogni dal legame con i referenti tradizionali e li hanno fatti coincidere con candidati che apparivano fuori dai consueti logori schemi. I partiti non hanno motivo di stare allegri, tutti, a destra come a sinistra, sono stati battuti perché i voti sono stati solo un’offerta votiva all’icona rappresentata dal candidato e la personalizzazione della politica, tanto criticata con Berlusconi, ha avuto una clamorosa conferma. I professionisti della politica hanno motivo di riflettere sulle prospettive di uno scenario in cui figure essenziali della nostra democrazia come i partiti rischiano di non essere più il riferimento dell’elettore. Allora si che dovremo fare i conti con il populismo!

sabato 28 maggio 2011

La nostra immagine nel ridicolo


Appare chiaro ormai che il nostro Presidente del Consiglio ha perduto la trebisonda e non ha più la capacità di capire che cosa va fatto o no per evitare di cadere nel ridicolo. La sua ultima performance alla recente riunione del G8 ce ne ha dato la prova inequivocabile e dolorosa. Dolorosa perché ad essere tirati in ballo siamo tutti noi italiani meritevoli certo del discredito che ci deriva dalle nostre scelte ma non fino al punto da essere trascinati oltre il limite della decenza. E invece quel limite è stato superato quando Berlusconi, incassato il rifiuto di un summit a due con Obama , ha imposto al presidente statunitense un placcaggio irrituale nelle forme e nella sostanza. Che immagine penosa vedere il nostro Presidente poggiare la mano sulla spalla dell’indifferente Obama che si apprestava a sedersi al tavolo dei lavori, con un gesto confidenziale chiaramente non propiziato dalle circostanze, e improvvisare con la sua imbarazzata e stupita vittima la solita sceneggiata dei suoi travagli giudiziari e di come la magistratura italiana tenga sotto scacco la democrazia in Italia!
Non siamo un paese di prima grandezza nel panorama mondiale seppure sediamo in un sinedrio ristretto quale il G8, ma anche la nostra ininfluente dimensione può essere portata avanti con una dignità che ci faccia guadagnare rispetto. D’altronde siamo pur sempre il Paese di Dante e di Leonardo, di un Rinascimento che ha lasciato una eredità irripetibile al mondo, un Paese che ancora oggi nel campo dell’arte e della scienza fornisce esempi pregevoli, che è capace di esprimere individualità come Marchionne ed altri che conquistano in giro per il mondo simpatia e ammirazione, che con le sue forze armate si sta guadagnando il rispetto degli alleati, che è la patria di meravigliose realtà solidali attive negli angoli più sperduti del mondo.
E’ lo stesso Paese che però su altri versanti è alla deriva, responsabile di una politica schizofrenica e di imbarazzanti governanti al pari di rissosi e inconcludenti oppositori, di una pletora di Masaniello al Nord come al Sud che danno al Paese un aspetto da repubblica delle banane, di una giustizia strabica e non funzionante, di una magistratura che desta perplessità, di una corruzione dilagante, di una criminalità diffusa e invasiva, di una incapacità cronica di semplificare i problemi e di un’altrettanta capacità di ideologizzare i propri vizi. Pur così malandato rimane comunque il nostro Paese al quale dobbiamo rispetto e carità di patria e che non merita certo l’imbarazzo che gli procura il nostro Presidente del Consiglio tutte le volte che partecipa a riunioni internazionali e non perde occasione per farla fuori dall’orinale, snobbato dagli altri partecipanti che dialogano alla pari tra di loro con l’aria di chiedersi chi è quell’intruso provinciale che cerca a tutti i costi di attirare l’attenzione.
Al Presidente del Consiglio che approfitta dei consessi internazionali per lavare i panni sporchi fuori dalla famiglia lamentandosi dei pericoli che incombono in Italia per colpa dei magistrati, quasi a sollevare un’emergenza sulla quale chiedere la vigilanza della comunità internazionale, domandiamo dove sia stato negli ultimi 15 anni e che cosa gli ha impedito di portare a compimento quella riforma della giustizia che gli sta tanto a cuore e della cui mancata realizzazione siamo noi comuni cittadini non protetti da alcun ombrello a chiedergli conto per primi.

lunedì 23 maggio 2011

Strauss-Kahn

Le foto di Strauss-Kahn in manette sono una immagine forte che, al di là del turbamento in se insito nella crudele prassi dei ceppi, colpisce ancora di più perché riguarda un uomo fino all’altro ieri potente. Ci si chiede stupiti come tanta umiliazione possa osare attingere a vette così alte e trascinare in una condizione di comune crudeltà un uomo finora ritenuto fuori dal comune. Si è scatenata la soddisfazione spietata di quanti danno la stura alla voglia di macelleria annidata in complessi di inferiorità che aspetta l’occasione per esplodere o più semplicemente obbediscono ad un calvinismo intransigente così diffuso nei paesi anglosassoni. Ma, specie al di qua dell’Atlantico, contro l’umiliazione riservata a Strauss-Kahn hanno prevalso una indignazione e una pietà che puzzano tanto di ipocrisia e di incoerenza. Se si fosse trattato di un qualsiasi carneade, ci sarebbe stato la stessa indignazione? Le manette hanno mai suscitato la stessa compassione a favore di comuni mortali che non hanno l’appeal di Strauss-Kahn?
Chiarisco subito che ritengo indegna, nei confronti di chiunque, la vergogna del perp walk invalsa nel costume statunitense, una gogna che la dice tutta sulla ringhiosa sete di linciaggio di un giacobinismo che vive la caduta del reo come un’ordalia che colpisce l’imputato ancor prima che questi sia riconosciuto colpevole. Grazie a Dio però in aula la musica cambia e il sistema giudiziario statunitense obbedisce ad altrettanta intransigenza nella tutela delle garanzie dell’individuo. Nonostante la gravità delle imputazioni, Strauss-Kahn è già stato scarcerato, sorvegliato a vista 24 ore su 24, ma libero di vivere nell’abitazione che si è scelto.
Gli europei dal cuore tenero e dagli scheletri nell’armadio che ammiccano ai potenti e hanno un concetto strabico della giustizia, si abbandonano a facile indignazione dimenticando:
- gli italiani, che gli imputati di casa nostra sono anch’essi sottoposti alla passerella davanti ai fotografi e alle folle osannanti e sono costretti a subire lunghi anni di detenzione prima della sentenza, che siamo stati protagonisti e vittime della mitica stagione di tangentopoli in cui l’abuso delle manette mandava in orgasmo qualche magistrato, che in Italia ha potuto verificarsi una infamia come la vicenda Tortora senza che nessuno abbia pagato il conto;
- i francesi, che sono gli eredi delle tricoteuses che durante la rivoluzione francese sghignazzavano all’indirizzo dei condannati a morte che venivano portati alla ghigliottina, hanno rinnovato i loro fasti giacobini con l’affare Dreyfus, sono i portatori di una morale ondivaga che assolve o condanna a seconda che in ballo ci siano le disinvolte convivenze di Mitterand e le assatanate concupiscenze di Strass-Kahn o il sesso orale di Clinton e le allegre serate del Cavaliere, hanno protetto un assassino come Battista il quale ha potuto tranquillamente pontificare in terra gallica coccolato dalla inossidabile intellighènzia di manica larga che lo ha fatto passare per un perseguitato politico.
Negli Stati Uniti la crudeltà come la giustizia sono uguali per tutti, in Europa sono variabili che mutano a seconda del destinatario.

venerdì 13 maggio 2011

Le nuove categorie del diritto

Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di lunedì 9 maggio, argomentando a proposito della (mancanza di) identità italiana con il suo solito acume, a un certo punto, descrivendo le immagini festanti delle folle americane per la morte di Bin Laden e marcando la differenza tra il popolo americano e il nostro, scrive: “ Ancora una volta, che differenza rispetto a noi. Rispetto alla cautela perbenistica del nostro discorso pubblico, alla nostra ostentazione di umanitarismo legalitario a ogni piè sospinto, alla nostra eterna incertezza morale nel riconoscere il bene e il male sulla scena del mondo”. A Galli della Loggia fa eco Elie Wiesel il quale afferma:”Osama era il male, banale o no andava eliminato!”. Che dire, credevamo che eliminare il male neutralizzando la causa di esso senza necessariamente affidare alle armi ma al diritto il compito di comminare o meno la pena capitale, appartenesse al patrimonio dei valori consolidati e che si possa giubilare per la soluzione del problema non per la morte di un uomo. Evidentemente ci sbagliavamo e dobbiamo abituarci alle nuove categorie in base alle quali l’uccisione di Gheddafi, di Assad e di tutti i tiranni del mondo rientra nella nuova morale della normativa che è destinata a regolare le relazioni internazionali.
Il ragionamento di Galli della Loggia, mi fa venire in mente una mia vicenda personale.
Ogni tanto mi avventuro in tours masochistici navigando nel florilegio delle contumelie che mi inseguono sul web e puntualmente mi imbatto in una lettera aperta, sempre la stessa, indirizzatami l’anno scorso dalla signora Chelli, presidente dell’associazione vittime della strage di Firenze, a commento di un mio post sul 41 bis che ha suscitato tanto scandalo. Allora, comprendendo la rabbia della signora Chelli, non volli rispondere, ma, visto che la lettera è destinata a restare in rete a perenne memoria della mia nefandezza, non posso continuare a tacere.
Ecco uno stralcio della lettera della signora Chelli: “ Egregio signor Nino Mandalà, ancora una volta mi trovo costretta a scrivere una lettera…..soprattutto in questo caso, cioè nel caso del 41 bis…..Da 17 anni la mafia combatte il 41 bis. Lo ha fatto con odio, con cattiveria, con crudeltà inedita in via dei Georgofili a Firenze……Da allora continua a pretendere di dire la sua ogni giorno sul 41bis, e sempre allo stesso modo……Noi abbiamo redatto un comunicato nel quale abbiamo scritto che alla mafia il 41 bis sta bene, molto bene, e che Lei dovrebbe dire a chi di dovere come fare a catturare Matteo Messina Denaro…..senza perdere tempo a distribuire proclami sulla crudeltà del 41 bis….Le ribadisco che….nulla di crudele vi è nel regime carcerario del 41 bis…è necessario perché la mafia non può e non deve mai comunicare con l’esterno….Si legga gli atti processuali del processo di Firenze per le stragi del 1993, e insieme a Lei lo facciano tutti quelli che fanno finta che il 41 bis sia disumano per i mafiosi….Riparliamo di crudeltà quando e se avrà capito quale sia il grado di crudeltà in cui vivono ogni giorno i sopravvissuti per colpa Sua e dei condannati per mafia come Lei….”
Ora io ho il massimo rispetto per il dolore della signora e dei parenti delle altre vittime degli attentati. Come non capire la loro rabbia, peraltro composta, di fronte alla barbarie consumata da belve indefinibili che hanno causato tante vittime innocenti! Si rimane sbigottiti di fronte a tanta ferocia che ci rimanda a quando l’uomo non aveva ancora percepito la propria umanità, e le parole mancano. Tuttavia alla signora dico in punta di piedi: “E’ giusto paragonarmi a simili bestie? Il dolore Le da il diritto di ferire il Suo prossimo senza fare le dovute verifiche? Ha Lei gli elementi per decidere che io debba essere incluso in simile contesto? Io non ho studiato le carte processuali sulle stragi di Firenze ma non ce n’è bisogno per conoscere la crudeltà della mafia, ci sono tanti altri episodi, l’uccisione del piccolo Matteo su tutti. E questo significa che lo Stato deve scendere sullo stesso terreno della mafia e consumare vendette? Non basta già la mafia a sfregiare il diritto e la dignità dell’uomo? Lei piuttosto ha studiato le mie carte processuali si da apprendere che, dopo 13 anni, io sono ancora nel guado di una vicenda giudiziaria che non ha ancora deciso se sono o no mafioso e mi espone alle Sue terribili affermazioni secondo cui io non avrei la sensibilità per capire “il grado di crudeltà in cui vivono ogni giorno i sopravvissuti per colpa mia e dei condannati di mafia come me”? Non è altrettanto crudele da parte sua attribuirmi simili responsabilità e insensibilità? C’è una sentenza definitiva che dica che io sono mafioso o una imputazione che mi contesti rapporti con Messina Denaro tanto da poterne agevolare la cattura? Posso sperare che il Suo dolore sia speso, oltre che per le vittime della furia disumana che alberga fuori dal consorzio civile, anche per le vittime come me della disumanità che alberga dentro il consorzio civile e mi da in pasto alle ire della piazza senza decidersi, dopo 13 anni, a stabilire cosa vuole fare della mia vita? Mi dica, è giusto tutto questo? Ed è giusto che io, che ho conosciuto la sofferenza del carcere e so che cosa significa patire il 41 bis perché ho un figlio sottoposto a questo regime, non possa schierarmi alla luce del sole e civilmente per la sua abolizione, anche sbagliando, senza essere azzannato come un animale o invitato a finire i miei giorni in un gulag? Le pare che conduca questa battaglia con metodi mafiosi? E se non è così, perché nella Sua lettera io vengo accostato a degli stragisti che combattono il 41 bis “con odio, con cattiveria,con crudeltà inedita in via dei Georgofili”? Non è un po’ troppo? Si parla tanto dell’abolizione della pena di morte e finalmente si è raggiunta una moratoria su di essa, si parla tanto dell’abolizione dell’ergastolo senza scandali, perché parlare dell’abolizione del 41 bis è tanto scandaloso? Uno Stato che funziona sa trovare gli strumenti per evitare che si attivino rapporti dei detenuti con l’esterno senza ricorrere a tanto. La verità, gentile signora, è che non costa seppellire gli ingombranti protagonisti di una stagione dissennata che, colpevoli quanto si vuole, disumani quanto si vuole, sono ormai diventati figli di un Dio minore, anzi figli di nessuno”
Questo sento di dire alla signora Chelli. Al prof. Galli della Loggia dico che c’è certamente una bella differenza tra il popolo americano e quello italiano ma, se si fa passare il concetto che il diritto possa essere sostituito con la violenza, questa differenza presto sarà colmata, anzi la lettera della signora Chelli, esempio civile di ben altra deriva forcaiola che non va tanto per il sottile, ci dice che noi italiani siamo ben lontani dall’”umanitarismo legalitario” lamentato dal prof. Galli della Loggia e che la differenza è già stata colmata.

sabato 7 maggio 2011

La morte di Osama Bin Laden

La morte di Osama Bin Laden si presta ad alcune riflessioni.
La prima ci suggerisce la domanda se sia stato giusto uccidere un uomo disarmato che si opponeva alla cattura con furia inerme. Probabilmente nella concitazione del blitz questo dettaglio era difficilmente verificabile e non si son voluti correre rischi. Oppure non è andata così e un uomo è stato ucciso perché questa era la decisione presa fin dall’inizio allo scopo di evitare un processo pieno di insidie. In questo caso è stato calpestato il principio della superiorità del diritto sulla violenza e stabilito un precedente che lascia facilmente intuire quale sarà il destino di Gheddafi. D’altronde un esempio di come vanno intese le necessità della guerra si è avuto con l’uccisione di tre nipotini del Rais,vittime della tanto decantata civiltà occidentale, considerati solo degli inevitabili effetti collaterali.
E a proposito di civiltà, una seconda riflessione ci fa chiedere se è vero che è stato combattuto quello “scontro di civiltà” teorizzato da Lewis e Hungtingon secondo cui si oppongono in un conflitto sanguinoso valori antitetici fatti di cultura, religione, identità diverse e in-conciliabili che coinvolgono intere civiltà e se questo scontro si è concluso con la morte di Bin Laden.
Ritengo che il terrorismo islamico non coincida col sentire dell’intero mondo arabo e che, se scontro c’è stato, esso sia rimasto confinato entro le ridotte di una posizione minoritaria degli estremisti del terrore e della guerra ad esso portata dall’Occidente. Ritengo anche che la morte di Bin Laden abbia reso palese la distanza del mondo arabo dagli estremisti.
Basta vedere quali sono state le reazioni di questo mondo nell’apprendere la notizia e come la maggioranza di esso abbia tirato un sospiro di sollievo. Tuttavia questo non significa che i rischi di un conflitto siano cessati. Sicuramente il tempo del terrore non si è concluso, perché la struttura di Al Qaeda è frastagliata in tanti centri di potere locale che prescindono dalle direttive di un unico capo e che dunque continueranno a elaborare e realizzare le loro strategie del terrore ed anche perché non è da sottovalutare il pericolo di ritorsioni da parte di chi vuole vendicare la morte di Bin Laden.
Il pericolo è reale e incombente ma di corto respiro come tutte le grandi passioni minoritarie destinate a spegnersi. Il vero pericolo, nel tempo, risiede nella eventualità che le diverse culture dell’Occidente e dell’Islam pacifico non trovino un terreno d’intesa.
Seppure minoritario, il terrorismo ha potuto attecchire anche perché ha avuto il suo terreno di coltura in una profonda e diffusa religiosità che ha saputo esasperare chiamando l’Islam ad una guerra santa con lo stesso spirito dei cristiani che tra l’ XI e il XIII secolo combatterono le crociate proprio contro l’Islam.
Il problema dunque a mio avviso è il rigore religioso del mondo islamico che deve essere affrontato sapendo che su questo terreno si gioca il destino di una convivenza che può essere pacifica e fruttuosa per entrambe le parti ma può
anche sfociare in quello scontro teorizzato da Huntington e che in questo caso coinvolgerebbe due intere civiltà.
La storia ha una sua logica che impone una eterogenesi dei fini con cui dobbiamo fare i conti. Come in un ricorso storico le nostre contrade sono invase dalle pacifiche crociate di masse di emigranti che provengono dai paesi arabi e che portano con se il retaggio di una diversa religione, diversi usi, diverse convinzioni e ideali, che possono spaventarci.
Il multiculturalismo, temuto dai più, è certo un grosso problema perché investe un diverso approccio a valori che affondano le loro radici in secolari sedimentazioni difficili da rimuovere. Spetta sicuramente a chi giunge nel Paese che l’ospita uniformarsi ai valori che ivi trova, i diritti civili, il rispetto per la dignità dell’uomo, la tolleranza, le leggi, i principi democratici, frutto di lotte che hanno dato una identità alle nazioni occidentali. Al riguardo non
possono esserci equivoci, ma non ci debbono essere nemmeno equivoci sul fatto che noi occidentali dobbiamo avere rispetto per la religiosità altrui e considerazione per certi aspetti della cultura araba, come di altre etnie, cui dobbiamo sapere guardare con curiosità e tolleranza.
Gli arabi invasero la Sicilia e la Spagna meridionale offrendo un esempio di convivenza civile e lasciando tracce di una grande civiltà. Proviamo a ispirarci alla lezione di quella esperienza.

domenica 24 aprile 2011

Pasqua


La Pasqua giunge al cuore del cristiano con un impatto più dirompente di qualsiasi altra ricorrenza perché con essa si compie la missione di Cristo.
L’uomo porta con se la dote del male con il cui mistero si sono confrontati importanti uomini di pensiero e persino padri della Chiesa, senza esiti convincenti. Uno dei più agguerriti tra essi, S. Agostino, sostiene che la realtà è solo ciò che proviene da Dio che è bene e dunque il male, in quanto negazione del bene e deficienza dell’essere, mancanza di sostanza che si verifica quando l’uomo volge le spalle a Dio e si rivolge a se stesso e al proprio interesse, non è reale.
Viene facile opporre che, se tutto proviene da Dio che è bene, se la volontà dell’uomo finisce dove comincia la volontà di Dio e l’uomo agisce in grazia di Dio, non si spiega come l’uomo volga le spalle a Dio e operi quella privazione dell’essere che si traduce in volizione del male. Tranne che non si argomenti che Dio ha un suo limite che non riesce a prescindere dal male o peggio che, in quanto artefice dell’uomo, è anche artefice del male dell’uomo. Vengono in mente le riflessioni di Voltaire secondo cui un Dio che tollera il male o non può evitarlo, è impotente, o non vuole evitarlo e, in questo caso è malvagio. E non convince la spiegazione di S.Agostino secondo cui il destino dell’uomo si compie in quel mondo di gradi inferiori rispetto a Dio dipendenti dalla finitudine delle cose create, in balia del suo male e della predestinazione che prescinde dalle azioni.
Secondo questa tesi l’uomo non può far nulla per guadagnarsi la salvezza se non confidare nella grazia crudele e cieca di Dio, un concetto ripreso da Leibniz secondo cui il male coincide con le imperfezioni connesse alla limitatezza dell’uomo nell’ambito dell’armonia prestabilita con cui Dio ha creato il migliore dei mondi e in cui il male è stato dato in dote all’uomo senza gli strumenti per riscattarsi che non siano la grazia di Dio.
Come si vede, per quanti sforzi facciamo per dare una spiegazione al mistero del male, le risposte non sono convincenti e siamo tentati di arrenderci di fronte a questo arcano che ci appare ineluttabile.
L’uomo è dunque destinato a soccombere al male?
La scelta di Dio di concedere all’uomo la volontà di convergere verso di Lui o di rinnegarLo, di realizzare il male ma anche il bene, quel libero arbitrio che può perderlo ma anche salvarlo, la libertà che può anche essere libertà di agire paradossalmente contro la volontà di Dio, lancia una sfida che da un senso all’ esistenza e la riempie di quella dignità senza la quale l’uomo sarebbe una marionetta senza volontà e senza scopo.
Ma di fronte ai castighi della natura, alle tragedie che prescindono dalla volontà dell’uomo, cosa possiamo opporre?
Il male come l’amore sono misteri che non si possono spiegare ed essi si contrappongono in una partita in cui la posta in gioco è fondamentale. In questa partita Dio ha scelto con chi stare.
Egli è a fianco dell’uomo al punto da condividerne la sofferenza attraverso il sacrificio di Cristo innocente, inviando un messaggio che parla di una nuova speranza per l’uomo, di come l’unico strumento capace di combattere e battere il male sia lo strumento dell’amore di cui Egli è venuto a darci un esempio sublime e grazie al quale hic et nunc si compie il destino di noi figli di Dio.
La Pasqua ci riconcilia con Dio e ci riporta alla Sua estrema misericordia e al Suo amore per l’uomo.