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martedì 12 settembre 2017

Gigi Burruano


L’ho conosciuto una sera d’estate di tanti anni fa nella terrazza del villino che Salvo possedeva a Punta Raisi. Il padrone di casa ci presentò con la sua consueta sobrietà  ma anche con una inusuale eccitazione, frutto della considerazione che mostrava di nutrire nei confronti di quel giovane attore, un Gigi Burruano allora semisconosciuto ma di cui col suo fiuto infallibile intuiva il valore inespresso. La sua vena di cacciatore di talenti aveva annusato il profumo dell’arte e ricordo che, quando Gigi si accomiatò, Salvo, accompagnandolo con lo sguardo come fissando un orizzonte lontano, mormorò: “E’ un animale da palcoscenico, non recita, vive in ogni istante la sua vita come una commedia, è un talento naturale”. Allora non capivo, avevo conosciuto un giovane dall’approccio rude che mi era parso sgradevole e per certi aspetti volgare con quel suo eloquio dialettale che indulgeva alla battuta greve, non immaginando di essermi imbattuto in quella che sarebbe diventata la geniale maschera della Palermo più autentica. Durante la serata Gigi, con l’immancabile bicchiere di vino in mano e quel suo parlare strascicato, aveva urtato il mio senso estetico ma aveva anche misteriosamente ammaliato la mia anima schizzinosa col suo istrionismo che trovava la sponda nella risata di Salvo. Sopra la mia testa si svolgeva un dialogo tra grandi che, nella mia piccineria, non coglievo. L’ho incontrato qualche altra volta, e gli ho parlato di quell’incontro che stranamente mostrava di ricordare e di ricordare bene perché nell’ironia del suo sguardo si indovinava un’aria di compatimento per quel borghese piccolo piccolo che in una sera d’estate di tanti anni fa aveva stampato in volto una insopportabile espressione di supponenza.

mercoledì 6 settembre 2017

Politica e antipolitica

E’ sempre più diffusa la tendenza a demonizzare la politica additandola come la causa prima dei mali che ci affliggono, dimenticando che essa è da sempre, fin dalle più antiche democrazie, lo strumento che permette al popolo di partecipare alla gestione della cosa pubblica. Attraverso di essa infatti i cittadini affidano ai rappresentanti che eleggono il compito di amministrare il bene della collettività secondo un programma convenuto. Sostenere che la società civile è immune da colpe e issare la bandiera dell’antipolitica come se fossimo vittime del disegno ingannevole di un moloch lontano e a noi estraneo,  significa fornire una lettura fuorviante e ignorare che la politica riflette i meriti e i vizi di chi la esprime. E’ più corretto accendere i riflettori sulla nostra società civile e provare a individuare il nostro DNA. Scopriamo allora che noi italiani manchiamo di senso civico e della cultura necessaria alla realizzazione del bene comune. Questo DNA è il nostro capitale sociale e da esso scaturiscono i nostri mali. Non abbiamo saputo vigilare e abbiamo permesso alle caste di appropriarsi delle nostre vite, di erigere muri in difesa dei loro privilegi dettando le coordinate alla politica, e così rendendola ancella di interessi opachi piuttosto che strumento al servizio dei cittadini. Siamo alla mercé di associazioni che, grazie al vuoto morale della società civile, realizzano il proprio tornaconto a spese della collettività, in un intreccio perverso tra i soggetti coinvolti in cui la corruttela e la disonestà intellettuale sono le sole norme di ispirazione. Il disagio economico, il disprezzo dei diritti fondamentali, la morte della civiltà giuridica, l’inganno dei farisei che sfilano in passerella esibendo promesse che non manterranno, sono il prodotto delle società parallele che  si sono insediate nei piani alti del potere, al di sopra della politica, e hanno piegato le sorti del Paese al proprio interesse, sottraendosi per di più alle verifiche del dibattito pubblico. Ad alimentare l’impostura di una dialettica democratica inscenando la farsa di un confronto tra le parti, provvedono i corifei del potere, fra cui parecchi intellettuali dogmatici, autentici quisling in sedicesimo utilizzati quali cavalli di Troia in seno alla democrazia, che fingono di indignarsi parlando il linguaggio dell’intransigenza ideologica e tracciano il profilo del politicamente corretto dettando i dogmi contro cui non è tollerato alcun dissenso, pena il linciaggio. Sono minoranza nel Paese ma maggioranza agguerrita nei salotti mediatici dove si addomesticano le coscienze e si stabiliscono le verità additando alla pubblica esecrazione i dissenzienti, tacciati di razzismo se pretendono una regolamentazione degli ingressi dei migranti e si oppongono all’accoglienza senza se e senza ma,  di eresia se osano dissentire dalla teologia della liberazione di cui è campione questo Papa, di fascismo se si permettono di mettere in discussione la costituzione più bella del mondo, icona intoccabile difesa a parole e tradita nei fatti, e naturalmente di essere mafiosi se osano contestare i luoghi comuni su mafia e antimafia. E a proposito di luoghi comuni, un esempio di essi ci è fornito da Giovanni Belardinelli  il quale in un suo recente editoriale, dopo una dotta analisi sul fenomeno del corporativismo amorale, conclude che bisogna fare una netta distinzione tra quest’ultimo e l’”associazionismo” mafioso, dando naturalmente per scontato che l’associazionismo mafioso non teme confronti. Tanto per cambiare viene intonato il solito refrain strumentale che, fatta salva la buona fede di Belardinelli, serve all’antimafia dei privilegi e degli affari per assolvere se stessa.  Belardinelli  ci dovrebbe spiegare perché non può essere confuso con la mafia il corporativismo in doppio petto il quale, pur di realizzare i propri interessi contro gli interessi del resto della società, non ha esitato a determinare il tracollo della nostra democrazia, a soffocare l’economia, a pregiudicare l’avvenire dei nostri giovani, a privare i cittadini dei loro diritti fondamentali, a barare con la giustizia dandola in pasto a giacobini assetati di sangue, ad allargare il fossato tra sempre più ricchi e sempre più poveri, a corrompere, a condannare il nostro Paese ad arrancare in coda alle nazioni europee, a uccidere vite e speranze e liquidare quel che resta della nostra civiltà. In verità a doversi lamentare di essere confusi con siffatti gentiluomini, dovrebbero essere proprio i mafiosi che al confronto fanno la figura dei dilettanti e degli utili idioti buoni per tutti gli usi, soprattutto buoni, grazie alla stupidità della loro ferocia che fornisce l’alibi adatto alla bisogna, per fungere da espediente con cui distrarre l’attenzione dall’autentico flagello della Nazione, il malaffare dei furfanti in marsina che falcidia gli spiriti vitali dell’organismo sociale e, grazie a complicità ai massimi  livelli, ottiene il salvacondotto dell’impunità all’insegna della regina di tutte le battaglie, l’unica che conviene combattere anche con mistificazioni e depistaggi, quella contro la mafia. Un bell’esempio di ipocritamente corretto.