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martedì 26 luglio 2011

La banalità del male

Non viviamo una gran vita e per giunta la viviamo in attesa di essere beffati dallo scandalo della morte!
Come con una consuetudine frustra, conviviamo con lo spauracchio di ciò che si nasconde dietro l’angolo, con la noia che condanna agli stessi gesti ripetuti giorno dopo giorno, con la solitudine delle nostre macerie, con il dolore latente che parla di affetti perduti, con la depressione sotto traccia, la nostalgia del passato che si affaccia prepotente rincorrendo i personaggi che hanno fatto parte della nostra esistenza e di cui ci affanniamo a fissare i volti mentre si dissolvono assieme a un pezzo della nostra vita, con i fantasmi delle notti insonni, con la sfida del solito mattino che ci presenta il conto dell’ennesima, maledetta giornata da vivere, con la nostra dimensione che diviene sempre più una estranea intollerabile, con la morte nel cuore di chi sa che non gli resta molto tempo e si affanna a guadagnare ogni barlume di vita, con la nostra miseria che si nutre di vite fallite e di necessità umilianti che spingono a scelte prive di pudore consumate da anime balbettanti, con la spietata normalità dei pochi tranquilli beneficiari di una vita blindata e impermeabile, con la supponenza dei maestri che pontificano di valori autentici e inattaccabili, con l’ipocrisia del sorriso ammiccante che nasconde l’insidia, con l’arroganza dell’opulenza priva di ritegno, con lo sguardo rassegnato di chi ha rinunziato a combattere, con l’indifferente ghigno di quell’autentica tragedia che è la nostra umanità perduta. Conviviamo con lo scempio inferto giorno dopo giorno alla nostra anima, con la mancanza di equità che ci fa ingiusti, con la crudeltà della nostra hobbesiana natura ferina che ci fa spietati, con l’intolleranza del gregge che si fa forte della sua viltà, col disgusto per la parte più inconfessabile di noi con cui facciamo i conti nel chiuso della nostra ridotta, con Calogero che fruga nel bidone dell’immondizia a conclusione della sua grigia vita d’impiegato del catasto, con Hamed che ha lasciato a Tangeri la sua fierezza per vestire nelle contrade della civiltà i panni del mendicante, con i figli senza padri e i padri senza figli perduti nelle stagioni della follia, con i confini della libertà negata, con l’ansia che ci deriva dal capriccio del tiranno di turno, con le certezze dei giudici che decidono delle vite altrui, che Dio li assista, con la pochezza di chi dispone dei nostri destini, con l’imbelle cattiveria di chi è baciato dalla fortuna, con le nostre domande irrisolte. Conviviamo con tutto questo e ci sembra d’avere conosciuto tutto il male possibile, finché una mattina non ci svegliamo con la notizia che un uomo nella lontana Norvegia ha ucciso 90 suoi simili. Riesce difficile concepire come si riesca ad uccidere 90 individui, uno per uno, con metodica ferocia, con certosino impegno, arrivando fino in fondo senza essere sfiorati da nessun dubbio, da nessuna pietà, e ci viene in mente quella che Hannah Arendt ha chiamato banalità del male, quella sua dimensione dozzinale, quel suo aspetto rassicurante che assume le sembianze di esseri comuni capaci persino di gesti teneri, che perpetrano la cattiveria come una normalità priva di perfidia, come una disarmante consuetudine, una banalità appunto. Cerchiamo risposte interrogando giganti del pensiero che col mistero del male si sono misurati a lungo, che, come S. Agostino, si sono sforzati di fornire una spiegazione di esso e scopriamo che una risposta è a portata di mano. E’ nella convivenza quotidiana con i nostri fantasmi, con gli incubi di un mondo maledetto che fa di ogni individuo un animale sociale intriso dei veleni iniettati dalla realtà esterna e ci presenta il conto attraverso l’esplosione di una follia che scaturisce dal disagio accumulato. Ma, grazie a Dio, una risposta ci giunge anche dalla dignità di un popolo, quello norvegese, che non ha replicato al male col male e con il suo premier, Stoltenberg, ammonisce: “ Sono fiero di vivere in un Paese che è riuscito a restare con la schiena dritta in un momento così critico. Quanto è accaduto è orripilante, Siamo una nazione piccola ma orgogliosa e non rinunceremo mai ai nostri valori.” E’ il segnale rassicurante che un popolo, seppure colpito a morte dal male, non ha rinunciato alla propria umanità, che la lotta è ancora aperta e l’esito tutto da scrivere.

sabato 23 luglio 2011

L’arresto di Papa

L’arresto dell’on. Papa è una delle tante pagine nere della nostra storia. E’ la sintesi di miserabili trame che nulla hanno a che fare con la giustizia e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte ad essa, con la capacità della politica di avvertire un sussulto di dignità e di infliggere a se stessa la stessa sorte che è solita toccare ai comuni cittadini, con la rinuncia a ripararsi dietro l’istituto dell’immunità parlamentare. Non ha la solennità del gesto catartico che riscatta la casta, la nobiltà di una scelta che per una volta sa abdicare alla consueta disinvoltura morale. Nulla di tutto questo, è il risultato ipocrita di maneggi spregiudicati che non si fermano neanche al cospetto di tragedie umane, è la decisione forcaiola di sacrificare una vittima purchessia allo scopo di far cassa, di far dimenticare privilegi e lanciare il messaggio che ai potenti non sono riservati trattamenti di favore. Il risultato, come ha scritto Pierluigi Battista, è che si è deciso di “distribuire l’ingiustizia del carcere preventivo anche nella casta dei privilegiati” oltre che nel ceto dei comuni cittadini.
L’arresto è una delle esperienze più drammatiche che può toccare ad un uomo ed è una misura che la società dovrebbe adottare come atto estremo a difesa della propria incolumità e come castigo per un reato effettivamente e definitivamente accertato. L’arresto preventivo è a maggior ragione drammatico e ingiusto perché parla di una afflizione imposta prima che sia stata accertata la colpevolezza. In Italia esso è diffuso a tal punto che, non solo è tollerato senza scandalo, ma spesso è addirittura invocato. E’ ancora più sentito contro le malefatte presunte o reali di una classe politica avverso alla quale è percepito un sordo rancore che suscita voglia di vendetta e un giacobinismo che ha tutti crismi dell’ordalia i cui esiti non sono facilmente addomesticabili. In genere essi nella loro furia iconoclasta finiscono per essere più disastrosi della causa che li ha determinati. Ci può stare che la voglia di far male appartenga ad una opinione pubblica che acquisisce la consapevolezza dell’ingiustizia perpetrata ai loro danni da una classe politica avida e incapace. Quando si ha il problema di far quadrare i bilanci familiari, quando tre milioni di italiani sono sotto la soglia della povertà e assistono alle indecorose condotte di un ceto politico che si consente privilegi sconosciuti in altri Paesi europei, quando la giustizia con il suo rigore non sempre giusto vale per i comuni cittadini e risparmia i titolari di immunità che si traduce in impunità, diventa difficile sottrarsi alla voglia di coltivare sentimenti di odio e di vendetta. La tentazione dei p.zzale Loreto e delle cacce alle streghe diventano sentimenti che inducono a linciaggi, e allora l’invocazione del carcere diventa un refrain che circola come un veleno nelle vene di un risentimento difficile da controllare. Ci sta meno che questo furore sia cavalcato da chi dovrebbe disinnescarlo. I nostri uomini politici, chiamati a costruire il nostro futuro e a dare esempi alla nostra coscienza, hanno il dovere di essere al di sopra di tentazioni insane quando sono chiamati a decidere della sorte di uomini specie se sollecitati dagli umori delle piazze esasperate dal disgusto per la politica. E’ in questi casi che i nostri uomini di potere devono sapere ritrovare la freddezza della mente lucida e l’onestà di scelte dettate da coscienze limpide, devono essere capaci di disobbedire a convenienze di parte e di non cavalcare derive che convengono a feroci calcoli politici, hanno il dovere di cogliere l’occasione per condurre battaglie degne come, in questo caso, quella per l’abolizione del carcere preventivo. Papa non può diventare lo strumento per inviare messaggi trasversali, per consumare vendette e far capire chi comanda e chi no, Papa e Tedesco non possono essere utilizzati come pedine di un gioco cinico dalla doppia morale condotto per gettare nel panico alleati e creare imbarazzo agli avversari, la frenesia forcaiola non può essere cavalcata ed esibita in maniera da informare la piazza che i suoi umori sono stati percepiti e accontentati. Va bene per i mestatori non per gli uomini di governo e Maroni e la Lega non hanno reso un buon servizio alla credibilità della politica. Il gelo calato sull’aula di Montecitorio dopo la consegna al boia di Papa la dice tutta sull’imbarazzo di Giuda ma non l’assolve dalla sua infamia.

lunedì 11 luglio 2011

La presunzione di innocenza

L’on. Carlo Vizzini, chiamato in causa dalla magistratura per una storia di tangenti, proclama la sua innocenza e lamenta di essere vittima di una montatura mediatica. Figuriamoci se non siamo solidali con chi ha la sventura di entrare nel mirino di una stampa famelica che, infischiandosi della presunzione di innocenza, sposa senza riserve le tesi della pubblica accusa pur di fare “ammuina” e vendere più copie. Conosciamo bene, per averlo sperimentato sulla nostra pelle, il cosiddetto potere creativo della stampa che sostituisce il diritto con l’arbitrio e indulge alla cannibalizzazione della giustizia per far posto allo spettacolo. Non pretendiamo di pronunciarci sulla fondatezza o meno delle accuse, ma non possiamo dimenticare che stiamo parlando dell’attività di indagine della magistratura requirente che ancora deve passare al vaglio di quella giudicante, che debbono essere esperiti i tre gradi di giudizio prima di giungere alla verità processuale e che, fino ad allora, l’on. Vizzini deve essere considerato innocente. L’uomo non è di quelli che suscitano le nostre simpatie, anzi, quando gli è accaduto di esternare sui diritti degli imputati distinguendosi per le sue posizioni forcaiole, ci ha procurato un istintivo senso di ripulsa. E’ famosa la sua affermazione che i mafiosi debbono morire in carcere e in povertà per il solo fatto di essere mafiosi teorizzando il principio secondo cui avere scontato la pena non basta a saldare il conto con la giustizia, che un certo tipo di imputato ha un conto infinitamente aperto con la giustizia in virtù del suo status di mafioso e che, al di là del fatto che commetta o meno reati, merita di finire, come ha sentenziato un epigono dell’on. Vizzini, i suoi giorni in un gulag. L’on. Vizzini ha cioè teorizzato il principio, che i cultori del diritto dovrebbero attentamente esaminare ed eventualmente inserire nel nostro sistema giudiziario, secondo cui lo status che non ha prodotto il reato, la potenza che non si è tradotta in atto tanto per scomodare Aristotele, basta a meritare la pena. Se passasse questo principio, le carceri non basterebbero a ospitare tutti gli stupidi che si “annacano” atteggiandosi a mafiosi! Ci complimentiamo con l’on. Vizzini per il suo acume giuridico e, nonostante dissentiamo dalle sue stravaganti incursioni nel campo dei diritti o meglio dei non diritti dei mafiosi, gli auguriamo ugualmente di far valere i suoi diritti, memori della lezione di Voltaire che si diceva disposto a lottare per garantire i diritti di chi la pensava in maniera diversa dalla sua. Ciò, nonostante l’imputazione di corruzione contestata a chi facendo politica e impegnandosi a servire la società piuttosto che a tradirla, è odiosa. Rivendichiamo dunque il nostro garantismo ma non riusciamo a sottrarci a un pizzico di perfidia constatando come il giacobino Vizzini abbia incontrato sul suo cammino un giacobino più giacobino di lui e sia caduto sul terreno di una intransigenza più pura della sua!

Lettera aperta a Felice Cavallaro

Caro dr. Cavallaro,
meriterebbe che La trascinassi in tribunale per diffamazione ed anche per soppressione di illusioni!
Ma come, ho fatto tanto per guadagnarmi il rango di mafioso e Lei che fa? Mi definisce loquace? Ho dato un’occhiata al dizionario e alla voce loquace trovo i sinonimi: ciarliero, garrulo, ciarlone, chiacchierino, chiacchierone, logorroico, verboso. E’ chiaro, Lei mi vuole rovinare. Lei vuole rovinare la reputazione di un uomo che si è guadagnato i galloni di mafioso di primo piano proprio attenendosi al sano principio del “niente sacciu” e, solo perché per una volta vi ho derogato non sentendomela di starmene muto mentre il sig. Campanella sbarellava dimentico dei sani principi mafiosi ai quali io l’ho educato, Lei mi sputtana? Mi capisca, dr. Cavallaro, a tutto c’è un limite, quando è troppo è troppo e non ce l’ho fatta ad accettare, facendo ricorso alla proverbiale imperturbabilità mafiosa, che il signor Campanella assumesse oltre alle sembianze di Paolo fulminato sulla via di Damasco, anche quelle di Santa Maria Goretti che ci distilla le sue verità con aria compunta. Vivaddio il personaggio è pur sempre quello che ha truffato un intero paese per milioni di euro senza pagare pegno, che sta godendosi la sua penitenza dorata a patto che continui a dire ciò che ci si aspetta da lui e però, se parla lui è credibile, se invece parlo io mi becco l’epiteto di loquace. Che facciamo, caro dr. Cavallaro, ce ne stiamo zitti e non disturbiamo il manovratore solo perché un mafioso non ha il diritto di tenere un blog e se ne deve stare relegato nella sua brava riserva indiana, perché un mafioso è figlio di nessuno e può essere tranquillamente preso di mira con ironia e disprezzo, perché è impensabile e sconcio che un mafioso dica la sua? Non è Lei il solo che si scandalizza della mia loquacità, prima di Lei ci ha pensato un suo collega, l’egregio signor Bolzoni che, bontà sua, mi ha gratificato della sua attenzione e del suo tempo con l’aria, come Lei, di chiedersi: ma chi si crede di essere questo Mandalà, come osa uscire dai panni del mafiosaccio con la lupara a tracolla? Increduli e scandalizzati non per quello che scrivo ma perché scrivo, mi osservate col sopracciglio inarcato e mi liquidate con un: “loquace”.
Fortunatamente Lei mi fa riguadagnare l’onore dopo avere rischiato di farmelo perdere, dandomi del boss e del padrino, la reputazione è salva! Certo mi è caduto un mito, quello del Cavallaro giornalista sobrio e misurato che in passato non si è mescolato alla canea mediatica che mi ha attribuito tutto e il contrario di tutto, che mi ha fatto il processo in piazza consegnandomi all’opinione pubblica nelle vesti di mafioso di prima grandezza, che, reificando le proprie convinzioni, mi ha attribuito ruoli e responsabilità che neppure la magistratura mi ha attribuito senza preoccuparsi di guardare le carte processuali e scoprire che il mio unico e vero reato è quello di avere generato mio figlio Nicola. A tutto questo Lei in passato non si è mescolato ma ha rimediato adesso per una buona causa: restituirmi la reputazione di mafioso dopo averla incrinata dandomi del loquace.

lunedì 4 luglio 2011

Il garantismo in Italia

Siamo alla solita sceneggiata delle prefiche che si strappano le vesti perché in Italia la difesa nei processi penali non ha le stesse garanzie dell’accusa. E’ la scoperta dell’acqua calda strillata con candore ipocrita da quanti, facendo il paragone con l’amministrazione della giustizia negli USA in occasione della vicenda Strauss-Kahn, lamentano che da noi, al contrario che negli Stati Uniti, i diritti della difesa non sono adeguatamente tutelati. Negli Stati Uniti, esattamente come succede in Italia, Strauss-Kahn è stato sottoposto ad un gogna mediatica spietata. E’ vivo il ricordo dell’uomo potente che ha dovuto esporsi alla mortificazione della passerella in manette, un tributo al calvinismo ringhiante della società americana alimentato dalla solita stampa che non si è fatta scappare l’occasione per cavalcare il mostro. Né più e né meno che da noi, ma contrariamente che da noi, appena sono affiorati dubbi sulla solidità dell’impianto accusatorio, l’accusa ha riconosciuto i propri errori e a Strauss- Kahn è stata restituita la libertà. Non propriamente come da noi! Ancora non c’è la certezza dell’innocenza dell’imputato ma è esemplare che il primo a riconoscere la debolezza dell’impianto accusatorio sia stato proprio il procuratore Vance e che si sia giunti a un risultato prossimo ad essere definitivo nel giro di poche settimane. Tutti ricordiamo la vicenda Tortora e sappiamo che la pubblica accusa ha potuto costruire l’impianto accusatorio con colpevole approssimazione, negando l’evidenza di contraddizioni, confidando nelle accuse improbabili di pentiti che narravano di scellerate complicità con Tortora, pur essendo evidente che non avevano la statura morale per relazionarsi con lui, perseverando anche quando l’impianto accusatorio è apparso chiaramente compromesso, non mostrando alcun ravvedimento, non rendendo l’onore delle armi ad un uomo ingiustamente accusato non per un errore di valutazione ma per fedeltà ad un teorema al quale l’orgoglio impediva di rinunciare. Tortora per quella vicenda ci morì, non risulta che i magistrati che hanno commesso l’errore ne abbiano risentito nella costruzione delle loro carriere. Purtroppo vicende che riguardano nomi noti suscitano emozioni, code polemiche, proclami scandalizzati fini a se stessi e per un Tortora che riguadagna l’onore grazie alla sua notorietà, vi sono innumerevoli Carneade di cui è disseminata la mala giustizia, che rimangono marchiati a vita. Agli indignati a orologeria che si svegliano solo quando deflagrano vicende clamorose, voglio chiedere di essere meno tonitruanti, di usare maggiore sobrietà e di coltivare il loro amore per la giustizia indagando sulle storture che si annidano nei percorsi del processo penale in Italia. Scopriranno che non esiste il tanto strombazzato giusto processo, che i diritti della pubblica accusa e della difesa non sono uguali, che la pubblica accusa può contare su una potente macchina da guerra per condurre le indagini, su tempi e strumenti utilizzati in largo anticipo rispetto alla difesa e che in questa fase può manipolare circostanze secondo i suoi interessi e indirizzare l’indagine a suo piacimento, mentre la difesa nella maggior parte dei casi dispone di poveri mezzi e, anche quando dispone di mezzi adeguati, può utilizzare i risultati ottenuti tra mille difficoltà in un clima che l’espone al sospetto di voler fare dell’ostruzione e della strumentalizzazione per danneggiare il sacro lavoro dell’accusa. Scopriranno che nel nostro sistema giudiziario gli avvocati vengono mortificati dallo strapotere dei Pubblici Ministeri e alcuni di essi si muovono con cautela non osando andare oltre il confine che la consuetudine ha loro imposto, che le vicende giudiziarie possono senza scandalo durare una buona parte della vita di un uomo e distruggerne la reputazione senza indennizzi che bastino a risarcire, perché non tutto è risarcibile, che l’indegna vergogna della detenzione preventiva colpisce uomini che possono risultare innocenti, che la detenzione in carcere è invivibile, che le vite sono spezzate da quella che Ostellino chiama “voglia di macelleria” della stampa, che ci si muove, e si può immaginare come, in una realtà consolidata da anni di consorteria corporativa tra magistrati giudicanti e requirenti che provengono dallo stesso ambito, continuano frequentare lo stesso ambito, si sposano tra di loro, transitano indisturbati dalla funzione requirente alla funzione giudicante portandosene appiccicata addosso la cultura, che il libero convincimento del giudice non supportato da prove certe può tranquillamente essere esercitato e non sempre confutato da un coraggioso giudice a Berlino che lo smentisca, che il pregiudizio ha la prevalenza sul giudizio, che all’imputato si impone di piegarsi alla verità dell’accusa in un clima e in una condizione che ne indebolisce le capacità di resistenza, e, mi scuso per l’autocitazione fatta non per amore di esibizione ma a scopo esemplificativo, che anche un vecchio in disarmo come me è sottoposto a misure cautelari che gli impongono di dimorare esclusivamente entro il perimetro della città, corre il rischio che, a 72 anni, possa ancora tornare in carcere, ha già scontato lunghi anni di detenzione preventiva pur non essendo stato ancora, dopo tredici di processo, dichiarato colpevole e da tutti è considerato tale perché questo è il messaggio che ha trasmesso una certa letteratura che si occupa di mafia e la vulgata innescata dal lungo itinerario processuale. Quanti strillano allo scandalo solo in occasione di vicende come quelle di Strauss e Tortora, si incazzino veramente per l’anomalia tutta italiana della nostra malandata giustizia, siano la coscienza del Paese, gli “uomini d’oro” di platoniana memoria, si trasformino in pungoli intransigenti e brandiscano la loro statura morale contro i tentativi dello Stato di tradire il patto sociale, si ricordino dei paria delle nostre carceri che in carcere ci muoiono suicidi perché non ne tollerano le condizioni o vengono “suicidati”, fissino nel cuore l’immagine di relitti perduti nei loro deliri onirici, abbiano il coraggio di gridare che non è tollerabile che il 60% dei detenuti in Italia è costituito da imputati in attesa di giudizio, sappiano opporsi all’arroganza di magistrati che si ritengono unti dal Signore allo stesso modo in cui riconoscono i meriti dei magistrati che fanno il loro lavoro improbo con sobrietà, spirito di sacrificio, coscienza e in silenzio, soprattutto diano sulla voce a certi forcaioli che ritengono che gli imputati di mafia, in virtù del loro marchio d’infamia, debbano finire i loro giorni in un gulag, come auguratomi da un coraggioso blogger protetto da nickname, o non abbiano diritto a garanzie e possono essere lasciati morire per sempre e poveri in carcere, e pazienza se hanno già scontato la pena per i delitti commessi, come auspicato da un noto ( più o meno ) parlamentare che, guarda caso, si è imbattuto in qualcuno più puro di lui che ne ha chiesto l’incriminazione. Combattano questa battaglia con caparbietà, stanando e incalzando gli altarini, scrivendo di loro senza complici genuflessioni, denunciando ogni giorno che Dio manda in terra i torti perpetrati dallo Stato con la stessa puntualità con cui denunciano i torti perpetrati dai comuni cittadini, urlando la loro rabbia di uomini giusti. Il panorama di macerie della nostra giustizia che ci fa regredire allo stato pre-civile, in cui i diritti appartengono solo a chi ha santi in paradiso e non ai figli di un dio minore privati del loro status di cittadini, deve essere lo sprone che li induca a combattere una violenza che nel momento in cui è consumata nei confronti della parte più debole della società, è consumata nei confronti del diritto e quindi nei confronti di ciascuno di noi.