Tamara Chikunova, russa e madre di Dimitri condannato a morte e fucilato in Uzbekistan, si batte da tempo per l’abolizione della pena capitale nel mondo. La sua battaglia è stata premiata con l’abrogazione della condanna a morte prima in Kirghizistan nel 2007 e poi in Uzbekistan l’anno dopo ma non si ferma ed ha come prossimo scopo di far cancellare la pena capitale anche in Mongolia. Ospite al Giubileo delle donne che si tiene nel comune di Veroli, un paesino del frusinate, ha narrato la drammatica vicenda del figlio, giustiziato oltretutto da innocente, e ha evocato il ricordo incancellabile delle circostanze che l’hanno accompagnata. Ha parlato con voce rotta dall’emozione e ha lanciato un appello: “Fermatevi almeno un minuto, riflettete. La morte non rigenera la vita. Così si alimenta solo odio e vendetta”.
Questa cronaca letta sul Corriere mi ha ricordato il contenuto di due lettere ricevute da due miei compagni conosciuti in carcere. In una Giuseppe, che sta scontando una condanna all’ergastolo, riprendendo vecchi discorsi avuti durante le nostre passeggiate nel cortile di Pagliarelli, mi scrive: “Ritengo l’ergastolo una pena più crudele della morte. Esso è la condanna ad una parvenza di vita che parla solo a se stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino di uomini che fanno della finzione una realtà vissuta disperatamente progettando sogni e coltivando speranze, sbirciando fuori dalla propria emarginazione e aspettando un segnale d’interesse per la propria sorte, aspettando di percepire che a qualcuno importa della loro vita,che qualcuno li consideri e, per ciò stesso, perché sono considerati, esistono. Noi ergastolani ci sforziamo di vivere, imponiamo con rabbia le nostre esistenze rivendicando il diritto alle nostre intelligenze contro quelli che vogliono seppellire i nostri sogni e revocare in dubbio l’autenticità del nostro sentire infliggendoci, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osiamo. Siamo gli eredi di origini ormai lontane che, dopo decenni, stentano a ricordare, gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati dal rumore dei nostri passi, privi di relazioni vitali,ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile. René Girard ne “La nausea della vendetta” ha scritto: “Cercare l’originalità della vendetta è un’impresa vana. Nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”. Ebbene l’ergastolo come la vendetta è una tragedia senza fine in cui l’agostiniano tempo, assente nel nostro animo, diventa uno stillicidio senza passato né futuro, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un’unica fune, in cui, come scrive Gibran, “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio”. Gli uomini che sovrintendono alla nostra pena aspettano pazientemente che giungiamo a quell’appuntamento estremo che aleggia costantemente a fianco di noi ergastolani, il suicidio”. A questa lettera terribile ho risposto come ho potuto arrampicandomi sugli specchi di quello spietato principio di ispirazione cristiana che considera la vita un valore sacro con un senso ancora più compiuto se è vita di sofferenza, che accetta la volontà di Dio come causa prima ed ultima della nostra esistenza. Mi sono sentito un bastardo, ipocrita predicatore a buon mercato ma almeno ho dato una risposta. Nessuna risposta invece sono stato in grado di dare a quest’altra lettera scrittami da Antonio in regime di 41 bis: “Dopo i primi quindici minuti consentiti, il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me, incontrò il vetro e batté le mani contro di esso credendo in un gioco, sorrise ancora e ancora battè le mani, poi il sorriso si tramutò in singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere ancora più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi occhioni spalancati e sgomenti”.
Che dire? Ai nobili spiriti che si intestano nobili cause chiedo: è più giusto obbedire all’orgoglio dei principi e in nome di essi condurre la battaglia per l’abolizione della pena capitale o lasciarsi guidare dalla pietà e chiedere che l’ergastolo e il 41 bis siano tramutati nella condanna a morte?
Sembra, nel leggerla, che lei preferisca, alla giurisprudenza moderna, l'antica legge del taglione: dente per dente, occhio per occhio. Non accetta il lavoro della Magistratura e lo critica superficialmente, con argomentazioni soggettive e personali, tutt'altro che obiettive e serie. Si sente l'astio nelle sue parole. Invece di criticare il lavoro degli altri non sarebbe più civile e responsabile motivare scientificamente i propri dubbi invece che esporre le proprie opinioni. Oltretutto, se è ancora permesso esprimersi liberamente in questo paese alla deriva, mi sembra che lei e lei sue condanne parlate più per ripicca che per altro. Da qual pulpito la predica! Certo la libertà di espressione vale per tutti: ma per chi ha dei precedenti dovrebbe valere anche la dignità del silenzio, la serietà del "prima guardo ai mie problemi poi a quelli degli altri". O no?
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