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lunedì 28 maggio 2018

L'occasione mancata


I 5 Stelle e il Carroccio sono arrivati a un passo dal governare ma non sono riusciti a varcare la soglia di Palazzo Chigi a causa di un nome, quello di Paolo Savona. Attorno a questo nome, proposto da Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio incaricato, per la poltrona di ministro dell’economia, e bocciato dal Presidente Mattarella, si è consumata la frattura fra quest’ultimo e Di Maio e Salvini che hanno fatto della candidatura di Savona  un punto irrinunciabile per il varo del governo. Come è possibile che per un nome si sia arrivati a tanto? La verità è che dietro lo scontro sul nome si nasconde uno scontro su una diversa visione politica. Il programma dei nuovi aspiranti a governare prevede un programma economico che desta perplessità sul piano della disciplina di bilancio con progetti realizzabili attingendo a risorse pubbliche e facendo crescere il debito pubblico. Chi contesta questo programma sostiene che con la sua realizzazione si determina una eterogenesi dei fini, poiché la crescita del debito pubblico produce il risultato di fiaccare la nostra economia a scapito proprio dei più deboli che con quei progetti si vogliono tutelare. E teorizza che, se si vogliono veramente realizzare progetti solidali, non si  può che puntare su una maggiore crescita ottenibile riducendo, non aumentando il debito pubblico, e liberando le risorse necessarie a promuovere le attività produttive e garantire un pur modesto ammortizzatore sociale. Lo scenario dipinto da chi muove queste critiche lascia intravedere addirittura il pericolo che una politica di spesa non sostenuta dalla crescita possa condurre alla bancarotta. Questi timori, seppure non così apocalittici, sono condivisibili ma onestà vuole che siano condivisibili anche le riserve di Salvini e Di Maio nei confronti di una Europa la cui intransigente politica di austerity definita da Francesco Forte “arroganza del razionalismo tecnocratico”, gestisce il sogno europeo piegandolo agli interessi dei più forti e tradendo la vocazione solidaristica che l’ha fatto nascere. In questa direzione l’Italia deve far sentire la sua voce ma per farlo deve avere le carte in regola.  Certamente i nostri conti in disordine e il programma di Salvini e Di Maio non sono un buon viatico. Detto questo rimane il fatto che con tutte le loro contraddizioni i 5 Stelle e il Carroccio erano legittimati a governare. A questa legittimazione fa da contraltare la legittimazione del Capo dello Stato al quale è assegnata dalla Costituzione la prerogativa di nominare i ministri che gli vengono proposti e quindi anche di bocciare quelli che non condivide. Nel caso del professor Savona, il Capo dello Stato ha ritenuto che le posizioni euroscettiche di quest’ultimo ( e, sospetta chi scrive, i programmi di Salvini e Di Maio ) potessero spaventare gli investitori e farli fuggire dagli investimenti in Italia facendo mancare risorse indispensabili a tenere in piedi la macchina dello Stato. Lo ha detto chiaramente, temeva un aumento del debito pubblico, un aumento degli interessi per i mutui, un pericolo per i risparmi degli italiani. E temeva anche l’uscita dell’Italia dall’euro con le conseguenze che è pleonastico elencare. Alcune avvisaglie si erano cominciate a palesare con lo spread in salita e i mercati in picchiata. L’allarme del Presidente dunque si può capire e la sua decisione appare legittima sul piano istituzionale perché fa riferimento ad una prerogativa prevista dalla costituzione e si preoccupa degli interessi del Paese, ma desta perplessità sul piano della opportunità in chi vede nella sua decisione una invasione di campo. Due posizioni, come si vede, altrettanto legittime anche se attestate su visioni diverse, che avrebbero dovuto essere conciliate con senso di responsabilità, e che invece sono state avvelenate da accuse reciproche. I 5 Stelle e il Carroccio accusano Mattarella di obbedire ai diktat di alcune cancellerie europee e di avere indebitamente impedito un legittimo percorso democratico intervenendo a gamba tesa su una decisione politica di chi ha vinto le elezioni, il Presidente sostiene di avere esercitato una sua correttissima prerogativa e di avere messo sull’avviso per tempo sulla sua decisione contraria al nome di Savona, senza ricevere obiezioni, offrendo la sua disponibilità a prendere in considerazione un altro nominativo e dimostrando così di non avere voluto ostacolare la formazione del governo.  Nell’entourage del Presidente della Repubblica si guarda con stupore e amarezza al mistero della strana intransigenza di Salvini sul nome di Savona che da molti viene letta come uno stratagemma per fare saltare il banco e andare a elezioni anticipate. Da una parte dunque l’accusa che il Capo dello Stato non abbia fatto gli interessi dell’Italia, dall’altra il sospetto che si sia cercato il casus belli per meschini calcoli elettoralistici, ma, diciamolo chiaramente, quello che sgomenta è l’arroganza e la mancanza di rispetto che viene riservata alla più alta carica dello Stato  e l’assenza del senso di responsabilità, nel momento forse più delicato della nostra storia repubblicana, da parte di chi si riempie la bocca con proclami sull’interesse della collettività. Come si vede un bel quadro in cui la sola a fare le spese è l’Italia precipitata in una crisi politica e, con la richiesta di impeachment, in una crisi istituzionale. Non c’è che dire, siamo in buone mani

martedì 22 maggio 2018

Il linciaggio, nuova frontiera della giustizia


Nei giorni scorsi sono stati celebrati gli anniversari  delle morti di Enzo Tortora e del commissario Calabresi, due date tragiche che evocano due casi analoghi di linciaggio giudiziario e mediatico. Tortora fu giustiziato moralmente dal PM Marmo che lo accusò di collusione con la camorra ottenendone la condanna in primo grado sulla base delle dichiarazioni dei pentiti Barra e Pandico alle quali non si preoccupò di trovare riscontri oggettivi. Come finì  lo sappiamo tutti,  per Tortora con l’assoluzione piena e definitiva dopo un  calvario di diversi anni che lo condusse alla morte prematura per crepacuore, per Marmo in modo inglorioso, con la smentita del suo impianto accusatorio ma soprattutto con il peso di quella terribile affermazione da lui fatta durante la requisitoria quando chiamò Tortora “cinico mercante di morte”. Il caso Tortora non è il solo svarione nel quale è incorso il PM Marmo visto che fu ancora lui a sostenere l’accusa per traffico di stupefacenti contro il soldato Raiola il quale fu assolto ma non poté evitare che la sua vita andasse a rotoli prima che venisse riconosciuta la sua innocenza. L’arrembante disinvoltura non ha impedito al giudice Marmo di fare carriera in magistratura senza che i superiori organi si preoccupassero di disinnescare questa mina vagante.
Caso pressoché analogo quello del commissario Calabresi vittima del giornalismo manettaro e ideologicamente schierato che non esitò ad accusarlo della morte dell’anarchico Pinelli  consegnandolo al mirino dei militanti di Lotta Continua che punirono la sua presunta responsabilità  assassinandolo. Anche in questo caso sappiamo come finì, Calabresi fu riconosciuto estraneo alla morte di Pinelli e le icone giornalistiche dell’epoca non mostrarono di avere alcun soprassalto di coscienza né di nutrire alcun dubbio sul ruolo salvifico del loro giacobinismo. Epigoni di quell’intellighenzia supponente che ha dominato la cultura del dopoguerra, questi campioni della superiorità morale che Pareto chiamava “virtuisti”, hanno continuato a imperversare e, per dirla sempre con Pareto, hanno preteso  di “raccontarci che solo un uomo disonesto può avere un’opinione contraria alla loro”, lasciandoci in eredità discepoli  livorosi e intransigenti che, seduti sulle loro certezze, ripercorrono ancora oggi la strada dei cattivi maestri. Ancorati al dogma della primazia della morale questi rampolli esagitati, figli del furore etico, negano al diritto qualsiasi ragionevolezza, alla giustizia la prudenza, all’applicazione della legge l’attenzione necessaria a evitare, per quanto è possibile, l’errore sempre in agguato e, obbedendo alla loro vocazione forcaiola, sentenziano che il cittadino raggiunto da un avviso di garanzia è presuntivamente colpevole.
Quando ci esibiamo nei soliti rituali che accompagnano anniversari tragici, non una voce si leva a denunciare il farisaismo dei sepolcri imbiancati che continuano a pontificare stritolando la vita delle persone, forti della loro impunità e dei poteri che rappresentano.

venerdì 18 maggio 2018

Libertà e uguaglianza


La Costituzione italiana all’articolo 1 recita: ”L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” . La dizione risente di una impostazione ideologica che connota lo Stato in base all’identità di una parte sociale piuttosto che a quella dell’intero tessuto sociale. L’idea del lavoro come fondamento della democrazia assume in questo modo le sembianze di un discrimine che cozza contro il principio sancito proprio dalla Costituzione che all’articolo 3 recita: ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Ed è una impostazione che si scontra con il pensiero liberale da sempre assertore del principio secondo cui un’autentica democrazia debba fondarsi sulla libertà senza disparità e senza limitazioni che non siano quelle previste dalla legge, principio solennemente proclamato già nel lontano 1789 nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che è il testamento della nostra civiltà moderna e che all’articolo 2 pone in testa all’elenco dei diritti fondamentali, appunto, la libertà. Libertà e uguaglianza sono dunque i due principi in base ai quali tutti i cittadini hanno la possibilità di esercitare i loro diritti in condizioni di parità, ma ciascuno in base alle proprie capacità, e di affrontare nel giusto modo le disuguaglianze che la natura, assai meno equanime della legge, decreta assegnando doti diverse e spesso diseguali. La libertà fa di queste disuguaglianze delle opportunità se lo Stato permette alla libera iniziativa di dispiegarsi, non imponendo dall’alto l’omologazione artificiosa di una uniformità che finisce per realizzare la più iniqua delle disuguaglianze, non opponendo alla creatività delle idee l’ineluttabilità della materia che relega gli elementi ideali nella soffitta della sovrastruttura (materialismo storico), non negando a nessuno il diritto di starsene alla finestra a guardare o invece di sprigionare i propri spiriti animali, l’estro, la fantasia, l’ingegno, di sfidare i rischi per proprio conto e produrre maggiori opportunità per gli altri. Il profitto di chi si mette in gioco reinvestito in attività produttive assume la funzione di propellente della crescita e dell’occupazione piuttosto che le sembianze della farina del diavolo, e il lavoro con le ricadute in termini di giustizia sociale si rende possibile non per decreto ma grazie al talento creativo legittimamente espresso che obbedisce alla propria vocazione e al contempo col suo dinamismo promuove i diritti dei meno dotati.  Allo Stato spetta il compito di vigilare affinché le diversità non diventino privilegi  gratuiti, non si creino sacche di impunità e caste voraci, il profitto non diventi selvaggio, e di esercitare la giusta rappresentanza delle istanze dei cittadini come si conviene ad una autentica democrazia. La democrazia liberale, è bene ricordarlo, ha reso possibili le conquiste di cui godiamo ed è un patrimonio prezioso da tutelare contro le tentazioni qualunquistiche di quanti scrivono libri dei sogni facendo promesse impossibili da realizzare. Il pragmatismo che ha preso per mano il liberalismo contemporaneo e lo ha accompagnato verso la realizzazione di un riformismo sociale sostenibile, è uno strumento che non possiamo mandare in soffitta.