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mercoledì 24 febbraio 2016

La gogna

Ho assistito alla presentazione di un libro su Pasolini, “Pasolini, massacro di un poeta” di Simona Zecchi, e ne ho ricavato una profonda emozione, sicuramente per l’evocazione della figura di un poeta che amo ma non solo per questo. Ho rivissuto le circostanze drammatiche della morte di Pasolini attraverso la lettura che la deliziosa autrice ne propone narrando il clima inquietante in cui il delitto si è consumato e l’infamia che ha accompagnato il poeta sia in vita che dopo la morte. E’ noto che a Pasolini non è stata perdonata l’onestà intellettuale con cui ha combattuto l’ipocrisia delle verità omologate e la dittatura del massimalismo etico di una certa sinistra bacchettona che si è intestata l’esclusiva della superiorità morale. Pasolini è stato ucciso da Pelosi, o non si sa da chi, ma è stato ucciso soprattutto dalla gogna dei censori seduti sul trespolo dell’intransigenza che ne hanno punito lo spirito libero con la calunnia, bollandolo quale corruttore dei giovani, e col silenzio, condannandolo all’oblio della damnatio memoriae. E’ la storia di sempre, è la storia dei Gide che oggi si ripete ad opera dei guru radical-chic del pensiero unico che decidono che cosa è politicamente corretto e cancellano le voci fuori dal coro nell’indifferenza di una società liquida priva di ideali e di memoria. Senza alcuna pretesa di scomodare la cultura o di fare accostamenti impensabili ma giusto per dare una testimonianza, so cosa significa patire la gogna e il silenzio per averli sperimentati sulla mia pelle. La gogna quando la macelleria mediatica si è avventata sulla mia vicenda giudiziaria con il furore di chi non deve rendere conto della propria ferocia e può tranquillamente imperversare senza pagare pegno, il silenzio quando mi sono proposto come scrittore ed era politicamente corretto ignorarmi in ossequio al pregiudizio che mi accompagna. In verità qualche voce si è levata, giusto per strillare indignata: ”Come si permette questo mafioso? A chi la vuole dare a bere?”. Di questo si discuteva nella serata della presentazione, tra un vecchio arnese libertario senza patria come il sottoscritto e gli onesti, fieri, disillusi figli di una ideologia che non ha perduto il vizietto della mistificazione. Partendo da posizioni ideali agli antipodi, ci siamo ritrovati accomunati dalla consapevolezza della sconfitta.

mercoledì 17 febbraio 2016

Il paradiso perduto

Quando Dio cacciò l’uomo dal Paradiso e rifletté sui castighi ai quali destinarlo, sicuramente decise che uno di essi dovesse essere l’inferno delle nostre strade lastricate di relitti umani. Non è infatti altro che un inferno la realtà con cui si misurano i volontari che fanno la ronda nei vari Bronx insediati nel cuore della nostra civiltà, dove vite alla deriva si trascinano senza più voglia di niente altro che non sia la fine della loro esistenza. E’ la condizione infame nella quale versa una fetta della nostra umanità, una condizione che è un atto d’accusa contro la società patinata dei bravi cittadini i quali, al riparo della loro indifferenza, si girano dall’altra parte infastiditi dallo squallore che li sfiora e sordi ai timidi vagiti della loro coscienza. Proviamo a proporre a queste coscienze schizzinose la galleria degli orrori che lambiscono le nostre isole del benessere.
Angelo. Fino a pochi mesi fa era un dignitoso piccolo borghese appartenente alla schiera di quanti stentano ad arrivare a fine mese, uno dei tanti, uno di noi ai confini della povertà che stringono i denti e la cinghia e non si possono permettere il rischio dell’inciampo. Purtroppo per lui, Angelo è inciampato, ha perduto il lavoro, ha superato il confine che lo separava dalla povertà ed è caduto senza alcun paracadute nell’abisso. Assieme al lavoro ha perduto l’affetto dei familiari che non gli hanno perdonato il fallimento, ha perduto un tetto sotto il quale dormire, ma soprattutto ha perduto la voglia di lottare. All’inizio si, all’inizio ha tentato di resistere, poi è scivolato sempre di più nel vuoto della sua volontà. Avvolto in una coperta di fortuna su un giaciglio all’addiaccio nei pressi della Stazione Centrale, la barba candida che contrasta con il nero degli occhi baluginanti, Angelo rifiuta di farsi aiutare e attende paziente che giunga la fine.
Cristina e Giorgio. Li puoi trovare sui gradini della chiesa di San Michele, abbracciati teneramente, con un sorriso perenne errante sulle bocche sdentate, a dispetto della loro condizione. Loro no, loro non hanno perduto la speranza e il decoro, si amano e tanto basta, si tengono mano nella mano guardandosi negli occhi con tenerezza, non c’è acredine nei loro volti distesi. Sorreggendosi a vicenda, scattano in piedi dai materassi matrimoniali che hanno acconciato sotto le stelle, accolgono i volontari con gentilezza, come si fa con degli amici in visita, ricevono i doni che ricambiano con la gratitudine dipinta negli occhi, ringraziano compunti e cerimoniosi, scambiano un abbraccio con i loto benefattori, rimandano al prossimo appuntamento. In piedi salutano gli amici, poi tornano al loro giaciglio perdendosi l’uno nello sguardo dell’altra.
Sergio. Dorme in macchina. Sbuca fuori dal suo appartamento mobile all’arrivo dei volontari e stupisce col suo parlare forbito. Ha trentadue anni Sergio e potresti scambiarlo per tuo figlio, uno dei tanti figli che Palermo ha ripudiato e che, non disponendo di ammortizzatori familiari né di un lavoro, né del coraggio per cercare altrove opportunità di vita, si è abbandonato alla precarietà di una esistenza che si è arresa prima ancora di dispiegarsi. Ha studiato, si è laureato, così dice, in filosofia, si vanta di vivere come Diogene in una botte pur di non abbandonare l’amata Palermo. L’amata Palermo, la matrigna, lo ha invece abbandonato e lo ha lasciato alla mercé di espedienti con cui sopravvive per il tempo necessario a ricevere l’aiuto della prossima ronda.
Selvaggia. Selvaggia di nome e di fatto, ha vissuto la sua precarietà con la residua rabbia degli ultimi, combattendo la sua battaglia contro la sfrontatezza dello Stato oltre che contro la miseria. Ha resistito fino a quando ha potuto contro il tentativo di sfratto dall’automobile in cui viveva e che le solerti forze dell’ordine hanno sequestrato, poi si è arresa. Lo si è capito quando è mancata all’appuntamento con i volontari. La legge ha trionfato!
Omar. Lo si può trovare nei pressi di Piazzale Ungheria accampato a terra in compagnia della sua frustrazione. Da vent’anni in Italia, narra della moglie e della figlia partiti per la Germania inseguendo il diritto ad un dignitoso rifugio che in Italia non sono riusciti ad ottenere. Omar, tunisino, li seguirà quando potrà, quando avrà raccolto le elemosine che gli consentiranno di pagarsi il viaggio in Germania e patirà il secondo dolore del distacco dal suo nuovo Paese che ha imparato ad amare. Perché Omar ama l’Italia e gli italiani e, con gli occhi colmi di gratitudine, ci dice quanto deve a questo popolo generoso , capace di slanci che non si trovano altrove, quale sarà il suo dolore quando dovrà lasciare i suoi amici di strada, i suoi fratelli. Non riesce a trattenere le lacrime con cui piange sulla propria sorte e sulla nostra inadeguatezza.
Cristina e Giorgio. Giungono al dormitorio comunale reduci dalla messa pomeridiana cui hanno assistito nella vicina chiesa di Santa Lucia. Mischiati alla moltitudine dei fedeli domenicali, con i loro abiti decorosi, non li immagineresti mai mendicanti della solidarietà altrui. Anche perché hanno ancora una loro fierezza con cui dissimulano il loro stato e si ostinano a sentirsi parte di una comunità di cittadini che non debbono chiedere nulla ma che sono stati costretti ad abbandonare poche settimane fa. Dialogano con i confratelli come nulla fosse, si intrattengono con loro parlando con disinvoltura del più e del meno, forse chissà delle vacanze che stanno progettando o dei figli con i quali sono stati a pranzo. Si accomiatano con la compitezza che non hanno ancora perduto, sostano un po’ in attesa che la folla si diradi, si guardano attorno furtivi, poi si avvicinano guardinghi al furgone dei volontari, incassano il pasto serale e si rifugiano nel dormitorio.

Il resto alla prossima puntata, e comunque chi vuol mettersi in gioco può andare di notte in giro per la città, basta avere lo stomaco forte. Avrà pane per i suoi denti.

domenica 7 febbraio 2016

Bernard-Henri Lévy

Bernard-Henri Lévy, voce autorevole dell’élite intellettuale francese, non manca mai l’appuntamento con la provocazione. L’ultima è che la missione degli ebrei è di capire, non di credere. In un estratto del suo libro che sta vedendo la luce in questi giorni, L’esprit du judaisme, ci racconta come nasce il libro e ci fornisce alcune anticipazioni su come va declinata la fede degli ebrei, o, meglio, su come non va declinata. Scrive infatti: “….se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare”. Al netto della sua prosa per iniziati, il nostro in buona sostanza ci dice che “il pensiero ebraico è ostile al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosità”, e ammonisce contro “il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, all’indiscrezione nei confronti del divino la precedenza alla sollecitudine verso il prossimo”. Quale campione di sollecitudine verso il prossimo, cita Giona, il suo profeta di riferimento, che parla al popolo più lontano, il più ostile, che predica agli abitanti di Ninive ammonendoli sul pericolo della punizione divina, che mette sull’avviso i nemici e li salva. Ma, ci chiediamo, forse che Giona, pur col suo carattere inquieto che lo tenta alla ribellione nei confronti di Dio, non si arrende alla fine e predica a Ninive obbedendo al comando divino e dunque compiendo un atto di fede? Ancora il nostro filosofo ricorre ad una citazione scomodando Maimonide per affermare che la conoscenza è il primo dei comandamenti, rimandando “per questa storia del credere ad un’altra storia, quella della fede che salva, tipica dei cristiani”. Ma, ci chiediamo ancora, forse che Abramo non si accinge a sacrificare il figlio Isacco perché glielo chiede Dio, senza cercare di capire, e Mosè non accetta le tavole della legge solo perché dettate da Dio, anche lui senza domandarsi se sono giuste? E lo stesso Bernard-Henri Levy che ha mosso i suoi primi passi nel mondo dell’esistenzialismo il quale con Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche ha rinunciato alla ragione quale cuore della realtà e l’ha sostituita con qualcosa di misterioso, con l’irrazionalismo che parla di fede, di volontà di vivere e di volontà di potenza, come mai, proprio lui, ci parla di capire anziché di credere? Come si fa a capire il mistero se non credendo ciecamente col “terribile cadere nelle mani di Dio vivente laddove l’acqua ha la profondità di settantamila piedi” ( Kierkegaard )? Non ha forse ragione Jean Luc Marion quando afferma che la ragione si deve arrestare sulla soglia del mistero, zona nella quale l’unico modo per capire è credere?