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domenica 24 dicembre 2017

Natale e non sentirlo


Natale e non sentirlo, perché quella nascita di 2000 anni fa è stata tradita e Dio è morto nel cuore degli uomini. Privi dei dubbi e paghi delle nostre conquiste ci sentiamo Dei noi stessi, rinunciamo al fascino di quell’avventura che Platone chiamava eros, la scalata dell’uomo verso il trascendente, e ci areniamo nelle secche di una immanenza dozzinale dal respiro corto. Sentiamo solo le verità che ci vengono propinate dal politicamente corretto nell’enorme agorà digitale, la rete che ha trasformato l’interlocuzione in un dialogo tra sordi, un vaneggiamento intriso d’intolleranza, un deserto desolante dove  le relazioni si fondano su fonti senza controllo piuttosto che sulla nostra conoscenza diretta, su opinioni e pregiudizi di altri che decidono per noi senza che ne abbiamo consapevolezza, sul rancore e le frustrazioni che si autoalimentano entro i confini di un mondo autistico chiuso ad ogni verifica e proteso verso crudeltà gratuite. Vi navighiamo in mezzo zigzagando indolenti e ci giriamo dall’altra parte sordi alla sofferenza che ci circonda, incapaci di leggere dentro il nostro cuore mentre precipitiamo nel baratro alla mercé dei maitres à penser che colonizzano le nostre menti e generano schiere di zombi  in marcia verso il nulla. Patiamo il nostro malessere e non lo percepiamo mentre scava nel vuoto della nostra coscienza. Che resterà di noi quando le élite che ci governano saranno fagocitate dall’intelligenza artificiale, il mostro che hanno creato? A Natale celebriamo il funerale della nostra umanità e il sacrificio degli scarti della società che la nostra cattiva coscienza ha confinato nelle ridotte degli appestati. Quest’anno l’emblema della nostra perduta umanità è il sindaco di Como impegnato nella crociata contro i clochard in difesa del decoro cittadino. Buon Natale a lui e pazienza se nelle nostre pingui città i reietti all’addiaccio tirano le cuoia, come è accaduto in questi giorni a Palermo, buon Natale ai bravi cittadini impegnati a festeggiare l’annuale appuntamento  col rito pagano della crapula, e pazienza se un numero sempre maggiore di paria conosce la nuova condizione di povertà che li ha artigliati infischiandosi del clima festivo, se i figli di un Dio minore vivono il loro calvario sparsi nei luoghi della sofferenza, lambiti dall’eco lontana dell’empio frastuono natalizio.

mercoledì 13 dicembre 2017

Credere nella giustizia


Con il suo solito senso d’umanità Totò Cuffaro ha preso posizione sulla vicenda Dell’Utri stigmatizzando il trattamento riservato dallo Stato all’ex senatore ma non mancando di dichiarare che continua ad avere fiducia nella giustizia. Il dottore Cuffaro non me ne voglia, ma ho l’impressione che egli si sia avvitato in una sorta di cortocircuito ossimorico. Come può infatti egli dichiarare di avere fiducia nella stessa giustizia che dichiara di contestare? E’ una contraddizione in termini. Continuare a credere nella giustizia così come è amministrata da questo Stato, dottore Cuffaro, nonostante la vicenda Dell’Utri e la tragedia di tanti disgraziati finiti nell’inferno del 41 bis, continuare a credere in questa giustizia avendo come costante compagno il ricordo del mio dirimpettaio di cella privo di tutte e due le gambe amputate a causa di un diabete maligno che gli aveva eroso le ossa, e tuttavia costretto ad arrancare in carcere nella sedia a rotelle, continuare a credere nella giustizia di questo Stato e pensare ad Enrico affetto da AIDS che trascinava quello che era rimasto del suo povero corpo in attesa di morire, o a Vincenzo che con la sua bocca sdentata e il suo sguardo mite mi rivolgeva una muta domanda per capire il motivo della sua detenzione a ottant’anni, lontano dall’ultimo affetto che gli restava, una figlia allo sbando, continuare a credere nella giustizia e sentire echeggiare nella mia mente le urla disumane di un uomo che ha gridato invano il suo dolore per cinque interminabili notti fino a che non è stato  condotto in ospedale giusto in tempo perché il suo cuore scoppiasse, continuare a credere nella giustizia nonostante sia rimasto immobilizzato e senza cure nella branda della cella per 10 giorni con una polimiosite devastante che ha messo a rischio la mia vita fino a quando, invece di ricoverarmi d’urgenza, non mi hanno trasferito in quelle condizioni da Pagliarelli a Voghera e lì mi hanno salvato grazie alla esterrefatta pietà del medico di quel carcere, credere nella giustizia nonostante il ricordo degli spazi angusti in cui ero costretto in compagnia di una umanità che mescolava le proprie miserabili esigenze senza il pudore di una pur minima dignità umana, nonostante i mille casi Dell’Utri che non vengono allo scoperto perché i loro titolari non hanno la notorietà del senatore? E’ questa giustizia? No dottore Cuffaro, riesce difficile avere fiducia in una giustizia che pratica la tortura e rende attuale, a distanza di millenni,  il pessimismo di Trasimaco al quale Platone fa dire che la giustizia è l’interesse del più forte, un universo spietato dove persino alla sofferenza è riservato un trattamento diseguale a seconda del censo. Se ne è avuta la prova proprio con la vicenda Dell’Utri che ha visto insorgere i soliti sepolcri imbiancati dalla doppia morale che, mentre piangono per la sorte di quello che sentono come uno di loro, ignorano la sofferenza dei tanti infelici senza santi in paradiso, per i quali anzi invocano pene più severe. Anche questa, dottore Cuffaro, è ingiustizia.  Avrei voluto dirle tutto ciò in occasione della presentazione del suo libro lunedì al Don Bosco ma ho desistito perché mi sono reso conto che il contesto non si prestava e perché, lo debbo confessare, non me la sono sentita di affrontare le narici fumanti della straripante folla dei suoi amici in platea.                                                                                    

lunedì 11 dicembre 2017

La sindrome dell'emergenza


Lo Stato ha vinto la lotta contro la mafia, il giocattolo si è rotto. Quanti hanno condotto la giusta battaglia avendo anche come obiettivo collaterale una visibilità che li proiettasse verso carriere altrimenti impensabili, si debbono rassegnare, con la vittoria hanno realizzato anche una sconfitta, quella delle loro ambizioni. Ed è inutile praticare la respirazione bocca a bocca a un cadavere agitando lo spettro di una emergenza che non c’è e ricorrendo per questo scopo a mistificazioni. E’ un pessimo servizio alla verità far passar per mafiosi malecarni che sono solo le grottesche controfigure degli autentici mafiosi, esemplari della bassa manovalanza criminale improbabili nelle vesti di mammasantissima che però, grazie a questa operazione di maquillage, tornano utili per tenere viva la sindrome dell’emergenza mafiosa. Nessuno mi può convincere che quei quattro scappatidicasa incappati nelle ultime retate, in palese crisi di una identità che cercano di recuperare annacandosi, siano gli eredi di quella che fu Cosa nostra. Un altro pessimo servizio alla verità è il modo in cui è stata declinata la vicenda delle esternazioni di Riina intercettate in carcere.  Appare evidente a chiunque che lo sproloquio di Riina era lo sfogo rabbioso di un uomo in gabbia e ormai fuori gioco che ruggiva senza avere i denti per addentare. A chi poteva far pervenire la sua voglia di uccidere il dottore Di Matteo il capo dei capi? Ristretto in regime di 41 bis, come faceva a superare le maglie di una delle censure più severe al mondo e far giungere un suo messaggio all’esterno?  Appare chiaro che, se fosse rimasto confinato entro le mura del carcere, quello sfogo non avrebbe costituito alcun pericolo, un pericolo lo è diventato nel momento in cui è stato propalato e ha rischiato di diventare un messaggio per gli  accoliti di Riina. Il dottore Di Matteo deve quindi ringraziare gli zelanti cultori dell’emergenza per il servizio che gli hanno reso, agitando per puro calcolo lo spettro di un pericolo che in partenza non esisteva e mettendo, loro si, a rischio la sua vita pur di cavalcare un redditizio clima d’allarme. L’accusa di Sgarbi secondo cui la vicenda è stata montata ad arte per promuovere l’immagine del dottore Di Matteo, appartiene alla sua convinzione e ne risponde solo lui, ma non c’è dubbio che il clima preoccupa. Dal governo dei filosofi di Platone passando per la volontà generale di Rousseau, siamo arrivati alla repubblica dei magistrati. I magistrati, guardiani della democrazia, si propongono quali protagonisti di essa in un conflitto di interessi che fa coincidere il controllore col controllato. Ci sono tutte le avvisaglie di questa deriva e chi ha a cuore la sorte del nostro futuro democratico, ha il dovere di combattere il  pericolo di una dittatura del Grande Fratello che fa dell’etica il suo fine e tutto scruta con sospetto (il sospetto, si sa, è l’anticamera della verità), su tutto vigila, presumendo la colpevolezza di ciascuno fino a prova contraria e candidando tutti a vestire prima o poi i panni di imputati.                                                            

domenica 26 novembre 2017

La caccia ai satiri

In seguito alla vicenda Weinstein, è esplosa una inarrestabile girandola di accuse che denunciano violenze e abusi sessuali in un crescendo dovuto per lo più ad una maggiore presa di coscienza della donna che adesso più di prima ha il coraggio di denunciare ma che declina la propria rabbia con un lessico da resa dei conti che non può non preoccupare. E’ chiaro che non ci possono essere indulgenze nei confronti di chi si macchia di un reato odioso quale è l’abuso contro una donna, quando esso è accertato, ma la  severità nei confronti delle molestie sessuali non può tramutarsi in una caccia all’orco, in una sorta di crociata che opera una demonizzazione di genere e incita all’odio contro l’uomo.  La criminalizzazione dell’uomo e la santificazione della donna sono ormai diventati gli ingredienti ricorrenti nella narrazione del rapporto tra uomo e donna così come ci viene proposta da un manicheismo che vede il male solo da una parte. In verità mi riesce difficile percepire come delle sante  la signora che al semaforo mi ha apostrofato con un perentorio “Muoviti coglione” solo perché non sono stato pronto a scattare all’apparire del verde, o l’altra signora della buona borghesia che sempre al semaforo mi ha altrettanto perentoriamente intimato di “farmi i cazzi miei” solo perché, preoccupato per la sua incolumità, mi ero permesso timidamente di avvertirla che stava attraversando col rosso, o le maestre che terrorizzano i bambini affidati alle loro cure. Parlare di santità è impegnativo in una società in cui persino il dramma dell’abuso subisce un secondo abuso da parte di chi lo strumentalizza in nome della donna per consumare esecuzioni sommarie sulla scorta di accuse ancora da provare e sull’altare di un giustizialismo strumentale che sazia la sete di sangue dell’opinione pubblica. L’uomo e la donna da sempre hanno convissuto all’insegna di una solidarietà complice fatta d’amore, di tolleranza, della saggezza necessaria a superare le asperità che insorgono nel cammino di una coppia, una complicità progenitrice di affetti consolidati che non può essere messa in discussione dalla follia di alcuni sciagurati. Fare un salto nel buio e sperimentare una società nuova basata sul conflitto di genere non credo giovi a nessuno, mentre è invece il caso di rimboccarsi le maniche e riannodare i fili di una rapporto tra uomo e donna all’insegna del legame d’amore che ha dato inizio alla loro storia, della capacità di dialogare e naturalmente dello sforzo dell’uomo di superare certi schemi mentali e schierarsi senza riserve. Donna e uomo assieme devono condurre la comune battaglia contro la violenza senza rancorose contrapposizioni, la donna non prestando il fianco al clima avvelenato e, consapevole dei suoi diritti e del giusto mezzo per farli valere,  denunciando in tempo gli episodi di cui è vittima, affidandosi alla sobrietà di un’aula di tribunale e resistendo ai richiami delle sirene di un qualunquismo becero, l’uomo ponendosi fermamente al suo fianco e facendosi difensore primo di diritti che non riguardano solo la donna ma l’intera umanità e dunque se stesso. E allora va bene punire severamente e in maniera esemplare i colpevoli, purché ciò avvenga nelle sedi competenti, senza linciaggi in piazza e senza semplificazioni frettolose  per il puro gusto del coup de théatre e per interessi di bottega di un moloch mediatico che ha perduto il senso del limite. Non dimentichiamo poi che assieme ai presunti colpevoli ci sono i loro familiari, vittime al pari delle donne abusate dei danni collaterali di una violenza cieca che non ha rispetto per la loro sofferenza.

giovedì 2 novembre 2017

Lucia Annunziata


Lucia Annunziata, si sa, è un tipo fumantino a tal punto da risultare a volte sgradevole. Quel suo viso perennemente corrucciato sembra volere rimproverare al prossimo l’incapacità di sintonizzarsi con le sue corde intransigenti, e spesso la sua malmostosità dirompe in reprimende velenose da maestrina insofferente. Pazienza, ognuno ha il carattere che si ritrova e  può tranquillamente abusarne sempre che lo faccia in ambiti privati, non certo in ambiti in cui si gestiscono risorse pubbliche e si impone il rispetto delle dovute regole, tra cui la misura. Queste considerazioni ovvie sembrano sfuggire alla signora Annunziata la quale conduce la trasmissione “In ½ h” come fosse cosa propria, con una intolleranza che rasenta la malagrazia quando l’ospite  non l’aggrada. Allora utilizza il suo ruolo che, non dimentichiamolo, è pagato col canone pubblico, come un’arma impropria e fa della trasmissione il luogo delle sue incursioni emotive. Guai al tapino che incorre nelle sue sfuriate. Ne sa qualcosa Roberto La Rosa, candidato a governatore della Sicilia, il quale, per essersi lamentato di non avere potuto usufruire dello stesso tempo concesso agli altri ospiti, si è sentito apostrofare: “Lei è talmente piccolo che avremmo anche potuto non invitarla”. Ben gli sta al signor La Rosa che si è permesso di mancare di rispetto a donna Lucia e di ledere la sua maestà osando protestare, la prossima volta, se una prossima volta ci sarà, eviterà di azzardare uscite improvvide.  Da dove derivi l’albagia della signora Annunziata non sappiamo, probabilmente dal suo appartenere alla cordata giusta o forse dal suo complesso di superiorità che la induce ad equivocare sulla sua reale dimensione e a dimenticare che l’umiltà è una forma di intelligenza. Il malo carattere è un lusso che si possono permettere solo i geni e non è certo il caso della signora Annunziata, il suo caso va ascritto unicamente alla sua arroganza.

mercoledì 18 ottobre 2017

La società giudiziaria


In una sua lectio magistralis Luciano Violante si è detto allarmato perché “ in Italia sta nascendo una società giudiziaria e che ci deve preoccupare questa concezione autoritaria per cui il Codice penale è diventato la Magna Carta dell’etica politica. Si tratta di un segno di autoritarismo sul quale penso valga la pena riflettere”. A questa lamentazione Massimo Fini su Il Fatto Quotidiano ha replicato sostenendo a sua volta che “ una società giudiziaria non significa assolutamente niente, è una pura tautologia. Ogni società nel momento in cui assume la forma-Stato è giudiziaria perché in uno Stato il cittadino rinuncia alla violenza e ne conferisce il diritto allo Stato che ne assume il monopolio”. E naturalmente non ha perduto l’occasione per denunciare un attacco alla magistratura. Tanto per cambiare la solita contrapposizione ideologica perde di vista il cuore del problema, e il cuore del problema non è tanto il rischio che in Italia si instauri uno Stato autoritario quanto il fatto che la società giudiziaria siamo tutti noi, divenuti il luogo dell’intolleranza giacobina in cui ogni condotta, anche se non se ne è ancora provata l’illiceità, è sottoposta al giudizio insindacabile del magistrato della porta accanto che si arroga il diritto di indossare la toga e condannare la reputazione del vicino di casa sulla base degli spifferi che fuoriescono dalle segrete carte delle procure, una società in cui il sospetto è il sestante dei rapporti sociali e il campanello d’allarme che fa scattare la caccia al colpevole in un clima da macelleria messicana. Certo lo Stato ci mette del suo grazie alla disinvoltura di una certa magistratura che, muovendosi sul terreno del fideismo piuttosto che su quello degli elementi concreti, inchioda l’indagato ad una responsabilità non provata offrendolo in pasto ai forcaioli, complice un giornalismo sensazionalistico che si presta all’operazione di linciaggio trasformando l’avviso di garanzia in uno strumento di mascariamento e consegnando il “colpevole” agli onori della prima pagina quando ancora si è lontani dalla certezza della sua colpa. Se dalla presunzione di innocenza siamo passati alla presunzione di colpevolezza, dobbiamo ammettere che qualcosa non funziona e qualche domanda dobbiamo porcela. Perché si è giunti a tanto? Indubbiamente vi si è giunti  perché noi cittadini ci facciamo guidare dagli impulsi delle viscere piuttosto che dalle categorie della mente e incoraggiamo crociate moralisteggianti in un clima da stadio chiedendo la testa dell’indagato, ma anche perché alcuni magistrati non si fanno pregare indulgendo alla fascinazione populista e interpretando ad libitum la legge invece di applicarla, per perseguire obiettivi ideologici. E’ così che si rischia un corto circuito dalle conseguenze devastanti per la vita delle persone la cui unica garanzia è l’onore di un potere indipendente che non risponde a nessuno tranne alla coscienza delle proprie truppe e ad un organo di autogestione quale è il Consiglio Superiore della Magistratura. Se un siffatto potere perde la bussola e si trasforma in autoreferenzialità percepita non come servizio ma come esercizio di una discrezionalità arbitraria ancella di interessi che nulla hanno a che fare con l’amministrazione della giustizia, allora invece della giustizia si realizza l’ingiustizia e con essa un attentato alla democrazia che non riesce a garantire il cittadino. In Italia purtroppo questo rischio è incombente tanto è che il vice presidente del CSM Legnini ha sentito il bisogno, condiviso  dal Presidente della Repubblica, di invitare i magistrati ad una maggiore sobrietà. Non credo che l’appello verrà ascoltato e la tendenza a scambiare l’applicazione della legge con l’applicazione di una personale convinzione ideologica è destinata a perpetuarsi e a crescere, con quali conseguenze è facile immaginare. Grazie a Dio la nostra è una repubblica solida e non corre rischi ma è giunto il tempo di meditare sugli aggiustamenti da apportare alla gestione dell’attività giudiziaria, continuando a garantire l’indipendenza della magistratura, ma al contempo garantendo maggiormente il cittadino.