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mercoledì 29 maggio 2013

La condanna del cronista

E’ di pochi giorni fa la notizia che tre giornalisti sono stati condannati per diffamazione.
Uno di loro ci racconta il suo stato d’animo, la perdita del suo aplomb, dell’aria di sufficienza che ha sempre assunto nei confronti dei condannati che professavano la loro innocenza, lui che adesso si ritrova a vivere l’esperienza di una condanna. E’ dura, lo sappiamo.
Prendiamo atto del suo stato d’animo e ci domandiamo: possiamo sperare che la perdita dell’aria di sufficienza del nostro cronista si accompagni al rifiuto dell’acquiescenza ( speculare alla sufficienza ) finora avuta nei confronti della inflessibilità dei suoi amici pm, che gli ha fatto condividere e raccontare a caratteri cubitali la verità processuale da essi declinata e relegare in poche righe di una pagina interna la diversa verità processuale emersa dalle sentenze?
Possiamo insomma contare su una sua presa di distanza dalla macelleria mediatica ( lo dice Ostellino ) che dà in pasto le vite umane condannate in piazza e non si scandalizza del fatto che, dopo 15 anni di processo, ci sono ancora imputati in attesa della sentenza definitiva?
E sulla fiducia nella giustizia anche quando condanna“il diritto di scrivere un articolo”, cosa ci dice? Ci dice che è lecito scrivere con licenza di impunità e, quando l’impunità non è garantita, ci dice che,“se ci fosse un altro clima, sulla giustizia, non ci sarebbero nemmeno certe vicende”?
A scanso di equivoci il nostro cronista precisa che non hanno ragione “quelli li”, gli imputati che continuano a professare la loro innocenza anche dopo la sentenza definitiva, ma ha ragione lui quando afferma che c’è del marcio in Danimarca se non è riconosciuto il suo diritto di diffamare. Vuoi mettere l’ imputato comune e l’imputato che si trova dall’altra parte della barricata dopo una lunga militanza nelle truppe del giustizialismo? Bella ricompensa!
Ma è la giustizia, bellezza, quella che i Robespierre hanno predicato ai piedi del patibolo, quella amministrata dagli uomini, magistrati ai quali abbiamo affidato la nostra vita nonostante uomini e dunque soggetti anche loro a sbagliare in buona fede e qualche volta, perché no, in mala fede.

Ci rimane il diritto di dissentire e ai giornalisti la decenza di essere un poco meno supponenti, ché tanto la giustizia e la mala giustizia sono uguali per tutti.

martedì 21 maggio 2013


La testimonianza del Presidente della Repubblica

La richiesta della Procura di Palermo di sentire il Capo dello Stato come teste nel processo sulla trattativa Stato-mafia, ha fatto, come prevedibile, scalpore e suscitato pareri contrastanti. E’ la prima volta che un Capo dello Stato è convocato da una Procura e viene naturale chiedersi se c’era motivo per giungere a tanto.
Si può dire senza tema di esagerare che la figura del Capo dello Stato ha una sua sacralità che deriva dall’essere egli in sommo grado custode delle nostre garanzie costituzionali e rappresentante dell’unità nazionale. Proprio per l’alto ruolo che egli svolge ha diritto al riguardo obbligatorio nei confronti del massimo organo istituzionale. Specie poi se il Capo dello Stato è un uomo come Napolitano.
D’altronde è la stessa Costituzione che sancisce la sua peculiarità quando afferma che egli non risponde degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni tranne in caso di alto tradimento e di attentato alla Costituzione. Tutti i cittadini sono sudditi della legge e uguali di fronte ad essa ma il Capo dello Stato è più uguale degli altri cittadini, e qui entriamo nel merito della richiesta della Procura di Palermo.
Il codice di procedura penale all’art. 205 prevede che il Capo dello Stato possa essere sentito in qualità di teste ma obbligatoriamente nel suo ufficio, e, se egli si rifiuta di testimoniare, non subisce l’accompagnamento coatto riservato agli altri cittadini. Uno dei caratteri della norma, la coazione, non ha valore nei confronti del Capo dello Stato e dunque egli non è obbligato a rendere testimonianza. Sono convinto peraltro che nello specifico la sua testimonianza sia superflua perché non possono esserci dubbi sul fatto che, se egli avesse appreso dal dr. D’Ambrosio notizie utili alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, ne avrebbe riferito spontaneamente alle autorità competenti. Ritengo perciò che la richiesta della Procura di Palermo non fosse così imprescindibile da dovere essere formulata anche a costo di creare imbarazzo al Capo dello Stato e che la foia egalitaria non debba valere per lui.
Purtroppo la guerra in atto tra pezzi dello Stato non risparmia il suo simbolo più alto e a tutti noi la sgradevole sensazione di essere orfani di certezze istituzionali.

martedì 14 maggio 2013


La giustizia

Si suole dire che le sentenze vanno accettate. E’ questa una affermazione pleonastica perché non si può scegliere di non accettare le sentenze senza contravvenire alla legge. Uno dei caratteri della norma è la sua coazione che ci obbliga a scontare la pena.
Si dice anche che le sentenze non vanno commentate e qui si esagera come succede sempre quando si vuol fare professione di zelo impegnandosi in esercizi di piaggeria nei confronti di un tabù che non si osa mettere in discussione.
Già mi figuro la reazione di chi fa le pulci a queste considerazioni ritenendole frutto del mio malanimo contro una giustizia che con me non è stata tenera. Chi conosce le mie vicende giudiziarie potrebbe dirmi che non ho motivo di lamentarmi perché, tutto sommato, mi è andata bene: su tre procedimenti ho incassato due assoluzioni ormai definitive e una condanna che ancora deve passare al vaglio della Cassazione. In effetti non mi lamento delle assoluzioni, ci mancherebbe, mi lamento però del fatto che, per ottenerle, ho dovuto sottostare, con costi che non mi sono mai stati rimborsati e ansie che hanno minato la mia serenità, a due processi ai quali non si doveva arrivare.
E mi lamento della sentenza di condanna riportata in primo e secondo grado perché la ritengo ingiusta nel merito e frutto di pregiudizio, ma anche perché essa ancora dopo quindici anni non è giunta a conclusione definitiva e quando vi giungerà, se sarà confermata, punirà un innocente che non è più lo stesso uomo di quindici anni fa e che ha pagato un conto salato quanto e più della pena in essa contenuta, l’emarginazione durante questi lunghi, interminabili anni nel ghetto dei cittadini immeritevoli. A tutto ciò si aggiungano sei anni di carcere preventivo già scontati prima di sapere se sono veramente colpevole. Si può ben dire che il mio è un caso di malagiustizia che va ad aggiungersi ai tanti casi, e sono la maggioranza, che costellano il panorama giudiziario italiano.
Quando diciamo “lex dura lex sed lex, intendiamo che tutti siamo sudditi della legge, che essa è cogente nei confronti dei cittadini colpevoli che ne subiscono la pena ma anche nei confronti dei giudici che hanno l’obbligo di applicarla con onestà ed equità. Ma, ahinoi, la positività della legge è nelle mani degli uomini, risente dei limiti dell’azione umana e per questo motivo non sempre i nostri giudici sono all’altezza del loro compito, ubbidendo spesso a pulsioni che con il rigore della legge non hanno nulla da spartire e ne mettono in crisi la credibilità. Può accadere che, compresi della loro funzione terribile e solitaria, essi trasformino la loro indipendenza in delirio d’onnipotenza, si convincano che a loro è affidata la missione di salvare il mondo, si adagino su ancoraggi ideologici che ne minano l’equidistanza, diventino cattivi giudici.
Bisogna allora avere il coraggio di denunciare l’ipocrisia della sacralità di alcune sentenze quando, al di là dell’onesto errore umano, in esse si annida una disonestà intellettuale ( in presenza della quale riesce difficile non condividere con Capogrossi la considerazione che il principio di effettività avalutativo è una mera esaltazione di forza ), che è sorda al richiamo del vincolo morale e al contempo vi ricorre facendo proprie valutazioni etiche per condannare la reputazione anziché la colpa. Non è ammissibile che il positivismo giuridico prescinda dalla legge di natura che Locke teorizzava quale presidio della libertà dell’individuo e si traduca in assolutismo e arbitrio, che all’autonomia del magistrato manchi la coscienza morale di una Antigone che rivendichi il primato dei valori etici, beninteso non contro l’autorità della legge ma contro l’autoreferenzialità di una corporazione arroccata in un fortilizio consortile e indifferente alle garanzie dell’habeas corpus.
A proposito dei magistrati Calamandrei diceva: “Il vostro potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate legittimati a esercitarlo”, umiltà che, in alcuni casi, è mancata.
Basta frequentare le aule dei  tribunali  per imbattersi in giudici dall’aspetto malmostoso e l’aria di chi ha in odio il mondo e lo vuole redimere riversando nelle sentenze la propria furia giacobina.
Il problema è che in gioco ci sono delle vite umane.