Il destino del Sud
Nell'articolo apparso sul Corriere della Sera del 26 ottobre,"Classe (per nulla) dirigente", il professore Panebianco non risparmia critiche all'inefficienza della classe dirigente meridionale. Sono critiche condivisibili perché non si può non essere d'accordo con lui quando scrive che "il vero dramma del Mezzogiorno non consiste nei gravi problemi che lo attanagliano ma nel fatto che le sue classi dirigenti siano incapaci di cercare soluzioni e rimedi". Niente da obiettare, i disastri sono sotto gli occhi di tutti ed anche le colpe di noi meridionali.
E non si può non essere d'accordo anche quando egli scudiscia il nostro vittimismo: "non perdono un colpo quando si tratta di accusare Roma, lo Stato, di avere abbandonato il Sud: un'espressione che testimonia di uno stato di minorità, psicologica e culturale (sono i minori quelli che non si possono abbandonare)" e ancora quando denuncia la tendenza al ricatto di un Sud che pone sul piatto della bilancia il suo potere contrattuale di bacino di voti senza i quali non si vincono le elezioni nazionali, per bussare a cassa.
Tutto vero e lo sottoscrive un uomo del Sud come me che non vuole nascondere dietro il dito del vittimismo i vizi di un popolo e anzi rincara la dose. Il nostro “stato di minorità” si manifesta persino nel senso d’ospitalità esagerata con cui accogliamo chi viene dal Nord e che altro non è se non un inconscio complesso di inferiorità e la voglia di ingraziarsi un ospite sentito come l’illustre paradigma di ciò che vorremmo essere. Si manifesta quando, dopo pochi giorni di soggiorno a Milano o a Torino, adottiamo il dialetto del Nord riconoscendogli dignità di lingua autentica e ritenendo il grottesco scimmiottamento che ne deriva la conquista di una identità emendata del peccato della nostra appartenenza originaria. Tutto vero, siamo un popolo che non ha trovato in se gli strumenti per rivendicare il titolo di maggiorenni capaci di gestire il proprio destino. Detto questo ( non dico nulla sugli sforzi che l’Italia ha o non ha compiuto per agevolare l’emancipazione della classe dirigente meridionale, per essere tacciato di fare del vittimismo), va però aggiunto che non possiamo limitarci ad una analisi così riduttiva. Tutto parte da lontano e ci riporta a come nasce l’Italia, su che cosa essa si fonda e a quale è stato l’humus in cui sono allignati i mali del Sud. Senza giungere a condividere quanto scritto da Mancuso secondo cui “una delle condizioni perché in Italia possa sorgere una religione civile è che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune”, perché ritengo che la fede abbia uno scopo meno banale e che la religione civile si rifaccia a un Dio non solo cattolico, non c’è dubbio che la religione civile ha a che fare col senso di appartenenza comunitaria e che ha ragione Jean Jacques Rousseau quando pone a base del contratto sociale il legame che annoda gli individui con l’identità collettiva e li assoggetta alla volontà generale intesa come primato dell’interesse comune sacralizzato fino al punto da ancorarlo alla pena delle sanzioni divine in caso di sua disattenzione. Ebbene dove si è manifestata la religione civile quando si è fatta l’Italia? O non è invece avvenuto il contrario e cioè che essa è stata ignorata , anzi avversata laddove ha fatto capolino, come per esempio in quella religione laica di Mazzini che aveva come fine l’unità d’Italia in uno spirito ideale che la sentiva come una missione? Alla religione civile si è sostituita la religione politica che ha diviso gli italiani e ha prodotto quest’Italia che ci ha regalato il fascismo, la guerra civile e la guerra di posizione tra schieramenti arroccati su ideologie inconciliabili e che non finisce di farsi del male regalandoci una classe politica nazionale che fa il paio con quella meridionale e statisti come Berlusconi e Prodi, campioni di un Paese incapace di rifondare la Nazione ormai in caduta libera (in proposito l’articolo di Tullio Gregory sul Corriere di giorno 27), frutto delle tante imposture che hanno attraversato la nostra storia, non ultima quella sull’unità d’Italia.
Perché senza fare l’apologia del regno borbonico che il professore Panebianco attribuisce ai meridionali, non possiamo però neanche tessere le lodi dei Savoia sovrani che già nell’Ottocento facevano a gara di impresentabilità con i Borboni e che in futuro si sarebbero distinti, sappiamo come, nelle vicende italiane. Senza volere trattare “Cavour e Garibaldi come criminali di guerra” e “liquidare la storia d’Italia unita come il frutto di un’odiosa colonizzazione”, non possiamo ignorare ciò che è stato fatto ai contadini di Bronte fucilati come briganti (in che cosa differisce questo episodio dal trattamento riservato dalle nostre truppe d’occupazione agli insorti nelle colonie somale e libiche?), non possiamo fare finta di niente ignorando che gli interessi del Sud sono stati sacrificati a quelli del Nord ed enfatizzare l’unità d’Italia come un’epopea popolare quando invece essa fu la realizzazione di un sogno minoritario portato a compimento come uno di quei miracoli che ogni tanto la storia ci regala e che fu reso possibile, tanto per cambiare, dalla inconsistenza identitaria della popolazione meridionale che non si smentì neanche allora e non ebbe coscienza di ciò che stava avvenendo non partecipando né in un senso né nell’altro all’edificazione del proprio destino che si limitò a subire.
Nessuna autoassoluzione ma anche nessuna mistificazione.
Ho dato una scandagliata al suo blog e sono rimasto affascinato dai suoi contenuti.
RispondiEliminaAnch'io mi ritrovo a vivere un'infamia come quella del suo "post" intitolato "Giovanni". Tuttavia, per restare nel tema di questo post, non concordo minimamente nelle valutazioni che si danno al popolo meridionale e specialmente a quello siciliano. Sono convinto che queste valutazioni autolesioniste fatte da noi siciliani, siano il frutto di un'identità smsrrita da 150 anni di colonizzazione accompagnate da costanti e infami campagne di propagande mediatiche e mistificatorie per nascondere o giustificare repressioni razziali al nostro popolo che non ha mai avuto uno Stato "vero" ma una Patria matrigna.
Caro Nino Mandalà,
la moderna scienza psichiatrica insegna che una donna violentata subisce il coinvolgimento psicologico dell'infamia subita. E come se lei si sentisse in colpa per il torto subito. Infatti, le tue analisi sono il frutto di un uomo che è figlio di 150 anni di soprusi e sfruttamenti.
Paolo Faraone
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RispondiEliminaMi dispiace per la sua vicenda e spero che essa si risolva favorevolmente per Lei. Per quanto riguarda il merito del post su cui dibattiamo, è possibile, anzi è sicuro che abbiamo subito dei torti ma non per questo dobbiamo piangerci addosso e rinunciare alla nostra capacità di guadagnarci una vita più cristiana. Ancora auguri.
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