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lunedì 24 maggio 2010

La legge sulle intercettazioni


Il disegno di legge sulle intercettazioni che sta per essere approvato in Parlamento è figlio dell’arroganza che vede contrapposti alcuni poteri in Italia ed ha come unica vittima il cittadino comune. Si scontrano da una parte l’esecutivo che risolve in maniera rozza e spicciativa alcune anomalie di costume e obiettive aberrazioni della legge in vigore, dall’altra i giornalisti e la magistratura che non accettano gli uni di essere imbavagliati e gli altri di essere privati di un efficace strumento di indagine. Diciamo subito che, se può essere condivisa la preoccupazione per le limitazione che dalla nuova legge derivano all’attività d’indagine della magistratura, non sono invece tollerabili le intercettazioni così dette a strascico. Sono intercettazioni invasive che sanno tanto dell’orwelliano Grande Fratello e confliggono con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che dovrebbe riguardare solo il momento in cui si ha conoscenza del reato e non qualsiasi momento della nostra vita scandagliata impietosamente a caccia di streghe. Per non parlare poi del metodo “copia e incolla” con cui i magistrati emettono ordini di cattura senza una verifica e una interpretazione delle intercettazioni i cui brogliacci si limitano a trascrivere per filo e per segno.
Per quanto riguarda poi i giornalisti, diciamo pure che se la sono voluta!
Il diritto-dovere di informare infatti deve conoscere dei limiti deontologici che i giornalisti spesso dimenticano. Li dimenticano quando riportano notizie pruriginose che non danno alcun contributo alla conoscenza dei fatti ma hanno il solo scopo di titillare la malsana curiosità della gente con grave danno per la incolpevole vita privata, li dimenticano quando, pur riferendo fatti veri e di interesse pubblico , si esprimono in maniera tendenziosa. E dimenticano persino il rispetto della legge quando pubblicano atti coperti dal segreto istruttorio come nel caso di pubblicazione di intercettazioni appena fatte e informano in diretta il destinatario dell’indagine prima che egli riceva un avviso di garanzia. Ora si può capire il sacro fuoco dell’informazione alimentata dal nobile intento di servire il lettore o suscitata, per dirla con Ostellino, da istinti “macellai perché più sangue scorre più copie si vendono”, ma se si è intransigenti in tema di libertà di stampa, si devono mettere in conto le conseguenze che ne possono derivare se non si rispettano le regole. Il divieto di pubblicare atti coperti dal segreto investigativo è previsto già adesso dall’articolo 684 del Codice penale con la sanzione dell’arresto fino a trenta giorni e dell’ammenda fino a 258 euro, tuttavia si può capire che il giornalista obbedisca ai precetti del suo mestiere pubblicando ciò di cui è venuto a conoscenza secondo quanto previsto dall’articolo 21 della Costituzione e celando la fonte delle sue informazioni, però è un fatto che a monte c’è una fuga di notizie, che questa è un’anomalia che sconfina nel reato e questo reato, oltre a coinvolgere la responsabilità di chi è custode delle notizie riservate, trova nel giornalista una disponibilità complice. E allora, se ci si presta alla disinvoltura, non si può lamentare la disinvoltura altrui, non si può rivendicare il diritto alla libertà quale diritto all’impunità e non ci si può scandalizzare strepitando contro una legge liberticida se non si è capaci di pretendere da se stessi comportamenti virtuosi. Quando Ferruccio De Bortoli, in polemica con Piero Ostellino, lamenta che il diritto di cronaca sia messo a rischio dalla legge voluta dal governo Berlusconi, pone un problema vero ma mostra di non avere compreso la preoccupazione di Ostellino. Ostellino non mette in discussione il diritto di cronaca, ci mancherebbe, e tanto meno ha dubbi da che parte stare, egli semmai pone il problema del modo in cui viene esercitato il diritto di cronaca, delle conseguenze della diffusione delle intercettazioni che trasmettono all’opinione pubblica il punto di vista accusatorio, della piaggeria di certa stampa che pubblica le veline della Procura e dunque della difficoltà dell’indagato di difendere la propria immagine demonizzata al cospetto di quel mostro che è la piazza incitata al linciaggio. Altro che “diritto fondamentale degli indagati a difendersi davanti all’opinione pubblica” come sostiene la Sarzanini, semmai la gogna pubblica e la condanna in piazza prima che nelle aule di un tribunale. E d’altronde proprio il Corriere della Sera non sfugge alla tendenza forcaiola considerando che è di pochi giorni fa il servizio di un suo cronista giudiziario il quale ha tacciato di boss un imputato di mafia che ancora oggi non ha subito una condanna definitiva e dunque può considerarsi innocente.
Si è arrivati a tanto perché non si è stati capaci di sedersi al tavolo del buon senso e individuare che cosa è bene per la collettività, si è preferito invece lasciare esplodere un conflitto di interessi corporativi che, difendendo rendite di posizione, ha lasciato sul campo, come dicevamo all’inizio, una sola vittima, il cittadino comune. E ha offerto il verso al signor Breuer sottosegretario alla giustizia USA, di passaggio per Roma, di pontificare su una materia che non conosce e di dire sciocchezze.

martedì 18 maggio 2010

La corruzione in Italia

I casi di corruzione che stanno emergendo suggeriscono, pur con le doverose cautele che un’indagine agli albori impone, amare riflessioni su un’Italia inguaribile che non perde il vizietto di rubare e non limita la sua vocazione all’illegalità alla sola politica, ma l’estende all’intero tessuto sociale. Purtroppo quando parliamo di un’Italia ladrona parliamo di un virus che attraversa l’intera società, di un universo che ha fatto della rinuncia alla legalità la scelta del suo rapporto con lo Stato e non ha saputo cogliere il giusto mezzo aristotelico tra il troppo grande profitto personale e il troppo piccolo tributo alla collettività, di un popolo marcio non tanto e non solo perché corrotto ma perché ha coltivato l’abitudine alla corruzione facendone il suo abito mentale, ammirando i furbi che corrompono e sognando di imitarli. Se la punta dell’iceberg costituita da politici, da grand commis di stato, da imprenditori ammanigliati è quella che si libra sui cieli del grosso malaffare, l’humus nel quale alligna il malaffare è la diffusa indifferenza al civismo e al senso del bene comune. E, quel che è peggio, chi delinque a quei livelli sa di potere contare sull’impunità che gli deriva dalle relazioni coltivate e dall’enormità degli interessi in ballo che fanno sistema e garantiscono un atterraggio morbido. Quando Galli della Loggia afferma che “le carceri italiane sono piene quasi soltanto di poveri diavoli, perché se si è un borghese facoltoso, come in genere sono coloro che incappano in un reato di corruzione (e cioè con un buon avvocato e buone relazioni), è rarissimo vedersi condannati in via definitiva a pene che non siano simboliche o quasi”, dice cosa giusta ma bisogna intendersi sul senso di “poveri diavoli”. Abbiamo la tendenza a considerare poveri diavoli i ladri di galline, gli ultimi di una società che non ha saputo offrire loro alternative, frutto della inadeguatezza dello Stato a prevenire e a redimere, che quindi suscitano il nostro senso di colpa. Rimoviamo il senso di colpa denunciando l’ingiustizia che colpisce i più deboli, anche se non siamo capaci di opporci all’intransigenza del ministro dell’interno che boccia il decreto cosi detto svuota carceri negando la possibilità di scontare l’ultimo anno di carcere agli arresti domiciliari o in affidamento ai servizi sociali, e così mettendo a posto la nostra coscienza . Ma i poveri diavoli non sono solo i ladri di galline, lo sono a maggior ragione i dannati dei circuiti dell’alta sicurezza affidati al regime di leggi speciali e dimenticati da una società che ha nei loro confronti la stessa indifferenza che ha nei confronti della legalità, affidati a condizioni infami che offendono gli elementari diritti dell’uomo da solerti forcaioli che vogliono far dimenticare con fughe in avanti i loro scheletri nell’armadio. I ladroni in guanti bianchi sono il contraltare della dabbenaggine di questa genia di poveri diavoli che non ha capito come va il mondo e le cui vite continueranno ad essere date in pasto ad un opinione pubblica incitata al linciaggio allo scopo di distrarre l’attenzione dalle ruberie dei quartieri alti del malaffare.

mercoledì 12 maggio 2010

Il boss

Sul Corriere della Sera di ieri il signor Alfio Sciacca mi ha definito boss di Villabate. Nonostante io non sia stato condannato con sentenza definitiva ed abbia dunque diritto alla presunzione di innocenza, il signor Sciacca, beato lui, non è sfiorato da alcun dubbio circa la mia mafiosità, per lui sono un boss!
Sarà che un imputato di mafia è carne da macello su cui si può tranquillamente e impunemente imperversare, che può essere dato in pasto all’opinione pubblica e condannato definitivamente in piazza, sarà che, allo stesso modo in cui lo Stato mi tiene da undici anni sulla graticola con un processo che ancora arranca in secondo grado, un giornalista può con altrettanta disinvoltura lasciarsi guidare da impulsi liquidatori nei confronti di un uomo a perdere come il sottoscritto, tutto può essere dato, ma è un fatto che il signor Sciacca l’ha “scafazzata”.
Io che posso fare? Potrei fare una querela ma sono scoraggiato dall’esito, anzi dal mancato esito di due querele presentate un anno fa contro il Giornale di Sicilia e la Repubblica e ancora fermi in Procura. Non mi resta dunque che sperare nella sensibilità del signor Sciacca il quale, prendendo atto dell’abbaglio, magari, chi lo sa, potrebbe chiedermi scusa. Ma senza tante illusioni: sono pur sempre un imputato di mafia!

sabato 8 maggio 2010

La legge "svuotacarceri”

Il ministro Maroni dal Cairo, dove è andato per discutere di immigrazione, ci ha fatto conoscere il suo punto di vista sul ddl governativo che consente ai detenuti di scontare l’ultimo anno di carcere a casa. Egli ha dettato all’Ansa un comunicato che suona così: “Abbiamo una valutazione negativa sull’impatto del cosiddetto disegno di legge svuota carceri che è peggio di un indulto visto che gli effetti non sarebbero una tantum ma per sempre”. Il disegno di legge che allarma tanto il ministro dell’interno ha l’obiettivo di smaltire una parte dell’esubero dei detenuti che in numero di 67.000 sono ammassati in carceri che ne possono ospitare 44.000 ed è stato votato dal nostro all’unanimità con i suoi colleghi nel consiglio dei ministri del 13 gennaio.
Che cosa ha spinto il ministro a cambiare idea?
Egli sostiene che 10.000 nuovi detenuti ai domiciliari provocherebbero un collasso dei controlli dal momento che la polizia non ha un organico sufficiente per assicurarli, tranne che non si instauri il sistema dei braccialetti elettronici che però non darebbero sufficienti garanzie. Il ministro omette di riferire che, a parte le insufficienti garanzie, il braccialetto elettronico costa l’ira di Dio. Ed omette anche di avanzare una proposta alternativa a quella del ddl che non sia il sempre annunciato e mai realizzato piano carceri.
Per lui è importante che i detenuti stiano al sicuro in carcere e non turbino la quiete dei cittadini e pazienza se vivono pigiati come in una stia. Ma è poi vero che più carcere vuol dire maggiore sicurezza? E se è un problema di sicurezza, come la mettiamo con i detenuti che, dopo avere scontato l’intera pena in carcere, tornano in libertà? Li arrestiamo di nuovo perché non siamo in grado di controllarli? Se invece facessimo altre valutazioni rispetto a quelle fatte dal ministro, giungeremmo a conclusioni diverse. La verità è che non sempre il carcere vuol dire più sicurezza e che il problema va affrontato con un approccio diverso da quello unicamente repressivo. Non vogliamo fare proclami su progetti di redenzione del detenuto che, per come sono strutturate le nostre carceri, sappiamo senza speranza, ma limitarci a un minimo di comunissimo buon senso che ci aiuterebbe a risolvere un problema di dignità senza troppi costi e rischi, anzi con una ricaduta positiva.
Sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella scrive: “Solo 4 detenuti su 1000, fra coloro che espiano almeno una parte della loro pena in una delle misure alternative al carcere sotto l’egida dei servizi sociali, commettono un reato in questa delicata fase. Non solo: una volta esaurita la pena, mentre i detenuti che l’hanno scontata tutta in carcere tornano a delinquere nel 67% dei casi, quanti invece hanno espiato parte della pena fuori dal carcere ricommettono un reato in misura tre volte più bassa, attorno al 19% dei casi.”
Meno carcere dunque, più pene alternative, maggiore sicurezza e, come conclude Ferrarella, “se la politica non se la sente di prendere atto dell’insostenibile situazione delle persone “dentro”, almeno potrebbe farlo nell’interesse della sicurezza di quelle “fuori”.

“La legge "svuotacarceri”

martedì 4 maggio 2010

Di Fini e della destra moderna

Nello scontro tra Fini e Berlusconi il primo ha rivendicato la sua aspirazione ad una destra moderna non spiegandoci però che cosa intende per destra moderna ed anzi distinguendosi per assenza di contenuti nell’azione di contrasto a Berlusconi.
Sia chiaro che si possono comprendere i motivi di un dissenso epidermico con un modo di fare politica, il cosiddetto berlusconismo, che suscita perplessità e urtica la sobrietà di chi dalla politica si attende fatti e stile. Ma, ripetiamo, qual è il contributo di Fini in termini di proposte concrete e alternative al populismo affabulatorio di Berlusconi?
Ricordo l’entusiasmo per le aspettative che F. I., al suo nascere, suscitò in tanti liberali da sempre orfani di una rappresentanza sulla scena politica italiana.
C’erano anche i i reduci della diaspora socialista in cerca di una nuova casa e i furbi che fiutavano il vento favorevole, ma c’erano soprattutto loro, i liberali di formazione anglosassone che si ispiravano al liberalismo empirico degli Stuart Mill, alla tolleranza dei Locke, alla passione che muove la ragione degli Hume, alla logica di mercato che non obbedisce all’etica della giustizia sociale ma a ragioni di reciproca convenienza e di sano egoismo dei contraenti che, per i risultati che producono, si fanno etiche anche se rifuggono da comportamenti morali. Quel liberalismo, per intenderci, che fonda i suoi valori sulle scelte della coscienza individuale la quale, a sua volta, non muove da astrazioni ideologiche ma dalla constatazione di ciò che serve fare non per realizzare il maggior bene in assoluto ma per eliminare il ”disagio” che di volta in volta ci affligge, per attuare ciò che è possibile, per consentire a ciascuno di raggiungere la propria felicità, di esercitare la libertà negativa intesa come libertà dal bisogno piuttosto che la libertà positiva che crea la giungla dei diritti, provoca la bulimia delle aspettative da soddisfare ad ogni costo e schiaccia la capacità di iniziativa soppiantata dall’attesa del beneficio mendicato, che oppone la dottrina sociale a quella della responsabilità e l’uguaglianza alla libertà, che rischia di “trasformare i desideri particolari in diritti universali” (Ostellino).
Si fronteggiano due visioni della vita, l’una, quella liberale dei Berlin e degli Hayek, del riformismo graduale e concreto, convinta che la realtà sia perfettibile ma senza illusioni circa la realizzazione di una società perfetta, l’altra, velleitaria, che si rifà allo scientismo razionalistico ed è protesa verso la realizzazione di una realtà utopica in cui tutto è consentito pur di centrare l’obiettivo, persino la creazione di uno Stato etico e autoritario in nome di una pretesa superiorità morale e politica.
La prima concezione ha i suoi epigoni nella politica inglese dei Brown, dei Cameron, dei Clegg, l’uno laburista, l’altro conservatore,l’altro liberale, i quali, pur nella diversità delle rispettive posizioni, sono accomunati dalla consapevolezza di ciò che è utile per il Paese, dalle scelte che il momento impone senza preclusioni di carattere ideologico e dalla chiarezza nella proposizione di programmi concreti contenenti l’elenco dei progetti e delle loro modalità di realizzazione che ciascuno offre agli elettori. La seconda concezione ha trovato piena realizzazione in Italia dove consociativismo, assistenzialismo, statalismo, dilatazione della spesa pubblica, parassitismo, oppressione fiscale, corporativismo e poteri forti, il giacobinismo di leggi eccezionali che offendono gli elementari diritti dei singoli, affliggono da sempre la nostra società e si saldano al populismo degli ultimi anni.
Ci piacerebbe sapere a quale partito si iscrive Fini, soprattutto conoscere che cosa egli intende per destra moderna e quale è il progetto che ad essa si ispira, sì da essere messi nelle condizioni di capire il senso del suo dissenso.