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lunedì 29 luglio 2013

Evasione per necessità

Non sono tra quelli che, come Padoa Schioppa, fanno il panegirico  delle tasse. Quando parliamo di tasse dobbiamo andarci piano con le mozioni d’affetto perché parliamo pur sempre di una imposta che evoca con la sua stessa radice il concetto di imposizione di un balzello accettato obtorto collo e non certo con gioia.
Detto questo però riconosco il valore civico di una risorsa che permette di finanziare il patto tra cittadini. L’economia di uno Stato non può funzionare se non c’è il contributo di tutti i cittadini nella misura in cui ciascuno può. Chi si sottrae a quest’obbligo produce un danno all’economia della società e costringe gli altri cittadini ad un sacrificio maggiore ed ingiusto. Diciamolo pure, l’evasore non è niente altro che un delinquente il quale ruba ai suoi simili. Però non bisogna mai dimenticare che quando parliamo di contribuenti, parliamo di cittadini che devono avere i mezzi per contribuire e quando parliamo di Stato, parliamo di una entità oculata che, come un buon padre di famiglia,  ha il dovere di utilizzare con giudizio i tributi dei cittadini. Al dovere civico della contribuzione deve corrispondere il senso di responsabilità dello Stato. Questa riflessione è propedeutica ad una valutazione della recente dichiarazione di Fassina a proposito degli evasori per necessità, lontana dai parossismi che l’hanno accompagnata.
Se lo Stato è uno Stato scialacquone che sperpera il denaro dei contribuenti, li vessa con una tassazione predatoria e mette il cittadino nella condizione di dovere scegliere tra l’opzione di salvare la propria azienda negando una contribuzione al di sopra delle sue possibilità o quella di rifiutarsi di evadere condannando al collasso la propria azienda, sfido quanti danno fiato al giacobinismo ipocrita nei confronti di Fassina, a dire in coscienza per quale scelta opterebbero. Il salvataggio di una azienda ha un valore sociale esattamente uguale alla funzione sociale dei soldi pubblici, anzi un maggior valore se lo sperpero dei soldi pubblici vanifica la funzione sociale di essi.
Frederic Bastiat, pensatore liberale senza molte illusioni, interrogato sul significato di Stato, se ne uscì con un paradosso: “Lo Stato è la grande illusione attraverso la quale tutti sperano di vivere alle spalle degli altri!”. Se lo Stato incoraggia questa corsa all’espediente concedendo laute prebende ai fortunati possessori di privilegi e illusioni agli sfortunati rimasti fuori dalle corporazioni, finisce per rendersi responsabile di un vero e proprio raggiro, la tassa assume l’aspetto odioso di una estorsione e rischia di perdere  il diritto alla sua inviolabilità.

Padoa Schioppa va bene, ma la liturgia del lavacro tributario fino al sacrificio estremo, quella no.      

sabato 20 luglio 2013

Renzi

C’è stato un momento in cui avrei votato Renzi. Sono un vecchio liberale ma l’assenza di rappresentanza nella mia parte ideale mi aveva indotto ad essere tentato da questo giovanotto che diceva pane al pane e vino al vino ed elaborava concetti con i quali non si poteva non essere d’accordo. Niente di nuovo, per carità, ma sentir dire, seppure con un linguaggio ruspante o forse proprio per questo, che tante cose andavano cambiate e constatare che questi cambiamenti coincidevano con quello che il buon senso, e non il buon senso di destra o di sinistra ma il buon senso tout court, da tempo reclamava, consolava e spingeva ad una apertura di credito. Finalmente, ci dicevamo con alcuni amici, un politico che si fa comprendere e sembra sincero, soprattutto sembra sinceramente preoccupato dell’interesse comune.
Grazie a Bersani non ho avuto la possibilità di votare Renzi e sennò adesso sarei qui a mordermi le mani. Perché il Renzi delle ultime edizioni si è rivelato datato e ricorda tanto i vecchi arnesi della politica che non rimpiangiamo. Verboso e debordante, presenzialista fino alla nausea, corrivo anziché saggio, inflazionato e frusto, non passa giorno che non dica la sua anche quando non è il caso, anzi proprio perché non è il caso, rottama, per dirla con lui, il buon senso di cui aveva fatto mostra in passato e, assieme ad esso, i buoni propositi. E chi non è d’accordo mi spieghi perché il nostro scalpitante fiorentino che tanto aveva predicato di bene comune, adesso predica di sfascio, spingendo per una crisi di governo nel momento in cui una crisi di governo non ce la possiamo permettere se non a scapito dell’interesse comune e a vantaggio dell’interesse di Renzi. Diciamolo, Renzi è diventato prevedibile, non stupisce più, non intriga più, non fa più sognare.

Una maggiore sobrietà avrebbe dovuto suggerire al nostro di far valere invece dell’ impazienza di un Pierino petulante, la saggezza di un Cincinnato che presta l’orecchio alle notizie inquietanti che giungono da Roma e attende paziente di essere chiamato per correre a salvare le sorti della Patria.

mercoledì 17 luglio 2013

Il caso kazako

Non credo che Alfano meriti di essere crocifisso più di tanto per il pasticcio kazako. Come dice D’Alema, egli non può essere colpevole di non sapere. “Se non glielo dicono, non sa, e questo non è una colpa”. Intendiamoci, egli non sapeva del rimpatrio forzato dei familiari di Ablyazov, ma sapeva che l’ambasciatore del Kazakistan l’aveva cercato tanto da averlo indirizzato al suo capo di gabinetto Procaccini ed essere stato da questi informato dell’avvenuto colloquio e che l’ambasciatore era stato dirottato al prefetto Valeri. Non c’è motivo di ritenere che Procaccini menta e male ha fatto Alfano a negare in Parlamento la circostanza. Così come male ha fatto a incaricare Procaccini di ricevere l’ambasciatore. In quanto tale, il diplomatico andava invitato a rivolgersi al ministero degli esteri e Procaccini, informato dall’ambasciatore che era interessato alla cattura di un latitante kazako colpevole di reati comuni, avrebbe dovuto invitarlo a seguire le normali procedure, a rivolgersi alle autorità competenti. Gli ha invece riservato una corsia preferenziale affidandolo alle cure di Valeri, capo della segreteria del Dipartimento di pubblica sicurezza, e lanciando un messaggio inequivocabile. Da questo momento infatti i kazaki si sono potuti permettere un vero e proprio pressing nei confronti dei funzionari di polizia italiani che a loro volta hanno dimostrato una inusuale accondiscendenza nei confronti di richieste a dir poco anomale, sicuramente sulla base dell’accreditamento che i kazaki avevano avuto dalla presentazione di Procaccini. Insomma una storia di ordinaria raccomandazione che ha avuto conseguenze gravi di cui però non può essere ritenuto responsabile il ministro e tanto meno Procaccini. Quest’ultimo era fermo all’informazione avuta da Valeri e passata ad Alfano, che era stata effettuata una operazione di polizia che si era conclusa senza l’arresto del latitante, ma non che fosse stata avviata una procedura di rimpatrio. Di questa iniziativa sia Alfano che Procaccini non erano al corrente.
Tutto parte dalla raccomandazione, è vero, ma quello che è seguito ricade esclusivamente nella responsabilità delle forze di polizia. Doveva insospettire che un ambasciatore si scomodasse per un delinquente comune, doveva destare allarme la inconsueta attenzione riservata ai familiari di quello che veniva indicato come un delinquente comune, al punto da mettere a disposizione per l’espatrio un jet privato. Tutto questo avrebbe dovuto indurre ad una maggiore attenzione, ad approfondire le indagini sulla reale identità di madre e figlia destinati al rimpatrio, soprattutto ad informare il ministro. E invece niente, anzi i funzionari di polizia hanno dimostrato uno zelo particolare adottando la decisione del rimpatrio in tempi record e procedendo, secondo quanto afferma l’avvocato della signora Shalabayeva, ad una irruzione brutale nella villa di Casal Palocco.
La morale della favola è che siamo alle solite, siamo all’assenza della politica quando la politica serve come in questo caso in cui sono a rischio diritti umani, e lascia un vuoto che i burocrati si affrettano a riempire assumendo decisioni che non sono di loro competenza. Pochi giorni fa ho scritto dei gran commis, della casta autoreferenziale che ritiene di non dover dar conto del suo operato alla politica, di una consorteria che, in difesa di interessi consolidati e unita da legami comuni, decide in piena autonomia e senza controlli su materie nelle quali è la sola a raccapezzarsi. I fatti purtroppo si incaricano di confermare che nel fare come nel disfare questi signori fanno il bello e il cattivo tempo e costituiscono un vulnus per la democrazia nella misura in cui si sostituiscono alle decisione della politica e alla volontà popolare da essa rappresentata, avocando a sé un ruolo usurpato.

Alfano non ha colpa nello specifico ma, in quanto rappresentante del mondo politico, è responsabile della latitanza della politica e della deriva autoritaria della burocrazia.

venerdì 12 luglio 2013

L’ergastolo

Ho appena pubblicato il mio ultimo post in cui lamento la mancanza di pietà di noi italiani a proposito dell’ergastolo ed ecco che mi imbatto nella notizia che il Papa ha cancellato l’ergastolo dal diritto penale vaticano. Motu proprio, senza tante storie, una decisione solitaria e via!
C’è, come afferma Michele Ainis sul Corriere di oggi, da crepare di invidia per la determinazione di un Papa che preferisce alle parole i fatti mentre noi in Italia continuiamo a baloccarci con le parole mantenendo in vita, tra i pochi in Europa, una pena disonesta che infligge vendetta piuttosto che giusto castigo, che viola, oltre alla pietà, la Costituzione, che colpisce uomini i quali dopo tanti anni non sono più gli stessi di prima e non meritano più la pena originaria. Lo dice Veronesi e lo ha detto qualche secolo fa Beccaria.
Lo dicono anche le testimonianze di chi ha condiviso con gli ergastolani un dramma che svuota le menti. Ho già parlato di Calogero che, riconosciuto innocente dopo quindici anni, aveva intanto fatto in tempo a morire dentro tanto da ribellarsi al diritto della sua innocenza. E, se non temessi di urtare la sensibilità dei palati delicati, potrei parlare di tanti altri casi di dannati apolidi che si trasformano in relitti e si trascinano all’insegna di una disperazione che si è tramutata in ebetismo. Di uno mi ricordo in particolare che mi diceva: “Sa, io ho commesso il delitto per il quale sono stato condannato, ma la crudeltà della pena che mi è stata inflitta è superiore al male che ho fatto. Lo Stato mi punisce con gli interessi e sembra quasi provare un sadico compiacimento nel prolungare una sofferenza infinita, centellinata giorno per giorno, momento per momento, senza alcuna speranza che finisca se non dopo la mia morte, che ha il sapore di una vendetta ben più crudele della sofferenza che io ho inflitto alla mia vittima in una frazione di secondo. Dopo tanti anni sono io a sentirmi vittima di una pena che ormai non merito, perché oggi non sarei capace di ripetere i crimini del passato.”
Che dire, posso ripetere quanto ho già scritto in precedenza, ricordare che Renè Girard ne “La nausea della vendetta” ha affermato: “Cercare l’originalità della vendetta è una impresa vana nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”, e Gibran ammonisce: “ Il filo bianco e il filo nero sono tessuti insieme e, se il filo nero si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio”.

Invece di gingillarsi con le parole, il tessitore del telaio italiano dovrebbe prendere esempio dal Papa e provare a modificare il suo telaio. In fondo neri o bianchi, siamo tutti fili della stessa tela.

giovedì 11 luglio 2013

Gli intolleranti

Ritornano con ciclica puntualità tutte le volte che gli ormoni si sbarazzano della ragione. Sono gli intolleranti che, compresi della loro missione di sculacciare il mondo, siedono ai piedi del patibolo e rumoreggiano incitando al linciaggio fino a quando la vittima non penzola dalla forca. Li vediamo all’opera in rete mentre vomitano la loro shitstorm e issano la bandiera di un moralismo di maniera azzannando ai polpacci il malcapitato di turno dato in pasto dalla cronaca. Intransigenti contro il prossimo quanto sono indulgenti con sé stessi, i farisaici difensori della morale elastica tuonano contro il malaffare e la corruzione ma nascondono negli armadi della loro cattiva coscienza lo scheletro di condotte al servizio di quel che conviene e alla mercé della più smaccata piaggeria nei confronti dei potenti ai quali non si fanno scrupolo di chiedere la raccomandazione per sistemare il figlio o il nipote e sottrarre opportunità ad altri più meritevoli.
Conferiscono la monnezza davanti al cancello del vicino per non pagare dazio e tuonano contro la sporcizia altrui.
I nostri bravi censori non si sono curati di evitare la deriva che ci vede sul punto di esalare l’ultimo respiro, hanno incassato imperterriti il loro miserabile bottino e hanno continuato a guardare con ammirazione e indulgenza alla mafia paludata fatta di politici disonesti, di grand commis privi di scrupoli e della grande finanza spietata e senza volto, dando in compenso luogo a crociate tonitruanti  contro i ladri di polli e i mafiosi tradizionali, manovali di una criminalità ottusa e stracciona, stupida al punto da ostentare la propria oscena crudeltà votandosi alla rovina e offrendo ai criminali d’alto bordo nascosti nell’ombra il pretesto per abbandonarsi a fughe in avanti e distrarre l’attenzione dai loro crimini. Strepitano contro i mafiosi sanguinari, come è giusto, ma non sono capaci di indignarsi con uguale intransigenza contro mafiosi ben più pericolosi acquattati nelle pieghe della società che fanno autenticamente strame delle nostre vite. Il livore velleitario e sterile dei nostri censori d’assalto non scalfisce gli interessi dei veri grandi criminali in doppio petto che ci colpiscono con strumenti sofisticati la cui comprensione sfugge al nostro povero sapere.
L’intolleranza dei nostri pasdaran ci ha contaminati e ci ha consegnati ad una condizione di insofferenza e di odio. Ci è rimasto soltanto il rancore, il cieco furore che ci fa incartare su noi stessi e ci fa urlare contro tutto e tutti come cani impazziti, abbiamo chiuso il nostro cuore alla pietà, abbiamo perduto la nostra umanità.  Altro che italiani brava gente!
Esercitiamo una crudeltà che è la spia di una frustrazione covata nei cunicoli di complessi irrisolti e non siamo capaci di concepire empiti generosi verso uomini che soffrono, che, come nel caso dell’ergastolo, vivono la finzione di una vita senza speranza, l’inutile vendetta di un Stato che è debole con i delinquenti inattaccabili e severo ai limiti della tortura con i delinquenti figli di un dio minore che hanno sbagliato e stanno pagando il loro conto ma che dopo tanti anni sono gli avanzi dolenti e confusi di quello che erano, ricordano appena le loro origini, sono irriconoscibili e completamente nuovi rispetto agli uomini cui è stata inflitta la pena. Le carceri brulicano di uomini nuovi, ormai innocenti, ai quali va rimesso il loro debito.
Esercitiamo la nostra crudeltà contro gli ultimi ai quali contendiamo i resti di un pasto miserabile in una lotta tra poveri all’ultimo morso da cui è bandita la pietà.

Papa Francesco, vox in deserto clamans, da Lampedusa ci ricorda la pietà e Sergio D’Elia combatte la sua generosa battaglia per l’abolizione dell’ergastolo sollecitando la pietosa complicità della brava gente. Invocazioni destinate a restare inascoltate in un Paese in cui la pietà è ormai moneta fuori corso!