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venerdì 29 novembre 2013

La decadenza dello stile

La decadenza di Berlusconi si è consumata in un clima che il New York Times ha definito da “melodramma politico”. In effetti, quanto a melodrammi, noi italiani non ci facciamo battere da nessuno.
La vicenda del decadimento di Silvio Berlusconi da senatore poteva avere un epilogo sobrio  e invece non ci siamo fatti mancare la solita pagliacciata.
I meriti sono dell’una e dell’altra parte.
Berlusconi avrebbe potuto uscire di scena ( si intende istituzionale ) in maniera più dignitosa, accettando il principio etico ancora prima che normativo, che un condannato per un reato così grave non è compatibile con una carica pubblica. Anche perché l’esito era già scritto nella sentenza di condanna al di là della pronuncia del Senato. Solo in un Paese come il nostro c’è bisogno del benestare del Parlamento in presenza di una sentenza della magistratura. Se il Senato non avesse votato la decadenza, cosa sarebbe accaduto? Ci saremmo imbarcati in un conflitto fra poteri dello Stato il cui esito sarebbe stato peraltro scontato?
E, allora, perché Berlusconi non si è dimesso prima evitando la mortificazione dell’espulsione, terribile per chiunque e in particolare per un uomo che, bene o male, ha rappresentato l’Italia nelle massime istituzioni e doveva avere rispetto oltre che per sé anche per i propri elettori? Mistero!|
Il Senato non è stato da meno. Lo ha espulso truccando le carte, ricorrendo al voto palese invece del voto segreto da sempre utilizzato quando si vota sulla persona. Ha dato l’impressione che il ricorso al voto palese fosse un espediente per blindare il risultato e sbarazzarsi, senza correre rischi, di un personaggio scomodo. Roba da magliari!
Ma la storia ci insegna che i conti senza l’oste non tornano e certo non torneranno i conti di chi si illude di avere “sbiancato” definitivamente il caimano. L’uomo ha sette vite come i gatti e lo ha dimostrato e, in più, ha ricevuto una grossa mano dai suoi avversari, è stato consegnato alle sue truppe e all’opinione pubblica con le stigmate del martire, e questo avrà delle conseguenze. Vedremo alle prossime elezioni quale sarà il dividendo che incasserà Berlusconi.

Intanto guardiamo al risultato che abbiamo guadagnato nella considerazione del mondo intero che ci osserva come se fossimo degli alieni, leggiamo le corrispondenze della stampa estera e vergogniamoci.

lunedì 25 novembre 2013

Fiducia nello Stato

Ci sono mille motivi per non coltivare più illusioni su questa Italia. Ciascuno ha sicuramente un suo cahier de doléances da sfogliare e magari ci rinuncia vinto dalla rassegnazione.
Ed è proprio un sentimento di rassegnazione quello che ho percepito nelle parole di un mio ex compagno di detenzione col quale mi sono incontrato pochi giorni fa.
Mi ha raccontato di essere stato scarcerato perché riconosciuto innocente dall’accusa di omicidio, dopo avere scontato parecchi anni di detenzione e la gogna mediatica cui il clamore della vicenda e la notorietà del suo nome lo hanno esposto.
Si lamentava della disinvoltura con cui era stata sostenuta l’accusa, del carcere scontato, della cattiveria dell’opinione pubblica pronta a trasformarsi in carnefice, ma soprattutto si lamentava della lunghezza del processo.
Il mio ex compagno ha una sua cultura che ha avuto il tempo di maturare in carcere e mi ha impartito con competenza una lezione di diritto. Mi ha parlato di Beccaria e di come l’illustre giurista sostenesse che una sentenza, perché sia giusta, deve avere il requisito dell’immediatezza, affinché appaia evidente il rapporto di causa ed effetto tra reato e pena. Mi ha parlato di Veronesi e di come questi affermi che, dopo anni, l’uomo non è più lo stesso uomo di prima perché col tempo egli ha modificato il suo cervello e con esso il suo modo di pensare e di sentire, che per questo motivo una sentenza che tarda ad arrivare finisce per colpire un uomo completamente diverso dall’imputato originario ed ormai estraneo al processo.
Lamentava che i limiti previsti dalla legge per arginare la lunghezza del processo non valgono per tutti nella stessa misura. Si rammaricava il mio colto ex compagno, di come il nostro stupefacente Stato riesca a contraddire sé stesso e i principi costituzionali su cui si fonda, di come  la legge non è uguale per tutti e si incammina su binari diversi a seconda del suo destinatario. C’è, per esempio, il binario della prescrizione per gli imputati comuni, che si arresterà nella stazione che l’inefficienza dello Stato gli assegnerà, e c’è un binario al quale l’inefficienza statale non assegnerà mai alcuna stazione dove fermarsi e che si snoderà all’infinito attraverso le vite degli imputati di serie inferiore per i quali il diritto viene sospeso, il binario che nega la prescrizione ai reietti titolari di imputazioni mafiose.
Per questi il tempo non scade mai, di questi lo Stato terrà sotto scacco la vita impunemente e infinitamente, condannandoli non alla pena per le loro colpe ma al purgatorio per la propria insulsaggine. Con tanti saluti per l’art. 3 della Costituzione.
Appariva veramente provato il mio ex compagno e, ringhiando di rabbia, mi ha sibilato di non volere più riconoscere a questo Stato che gli ha fatto un torto irreparabile, a questo Leviatano indecente e illegittimo ( si è espresso proprio così ), il diritto di svolgere per suo conto le funzioni di rappresentanza e di garanzia, di volersi dimettersi da italiano e cercare altrove una nuova patria nella quale rifugiarsi.

L’ho visto allontanarsi curvo sotto il peso di ricordi che non lo abbandoneranno mai eppure ancora capace di sognare, e ho invidiato la sua innocenza, io che ho perduto ormai da tempo la capacità di coltivare illusioni. 

martedì 12 novembre 2013

Vuoti a perdere

E’ di qualche giorno fa la notizia che, dopo parecchi anni, due vicende giudiziarie si sono concluse con l’assoluzione degli imputati. La notizia è stata accompagnata da  interviste, da commenti indignati sul lungo calvario degli imputati, da lettere degli interessati ospitate generosamente sulle più importanti testate, da articoli sulla inciviltà della carcerazione preventiva, dalla descrizione del dramma vissuto e accompagnato da tentazioni estreme.
Come mai tanta enfasi in relazione a notizie, tutto sommato banali, che rientrano nella normale dinamica delle vicende giudiziarie ma che in genere vengono ignorate? Perché in questi due casi tanto clamore? Semplicemente perché questi casi riguardano illustri personaggi, l’ex sindaco di Firenze Domenici e l’ex governatore della Campania Bassolino. Anche l’indignazione ha le sue logiche inesorabili, a chi tanto, a chi niente! Lo dice lo stesso Domenici quando chiude la sua lettera ammettendo che “molti vengono stritolati senza neppure potere far sentire la propria voce”.  
Scusate se sono incontentabile ma non riesco a fare salti di gioia perché finalmente Domenici è stato folgorato sulla via di Damasco e, solo dopo avere vissuto sulla sua pelle l’esperienza di una vicenda giudiziaria dolorosa, ha maturato la sensibilità necessaria a scoprire che “delle inchieste si fa un uso cinico, che il sistema giudiziario italiano funziona male, che per la loro lunghezza i processi si svuotano di contenuto e alterano l’applicazione del principio di giustizia” e denunciare “l’impatto politico-mediatico delle inchieste e il ruolo del Pubblico Ministero”. Bravo Domenici, giusta la sua indignazione, ma le chiedo: perché insorge solo adesso e, soprattutto, si è mai chiesto se il mondo al quale lei appartiene è indenne da colpe per lo sfascio che denuncia?
Bassolino a sua volta è essenziale, lui non ha nulla da denunciare e si limita a raccontarci di come, provato dall’esperienza della sua vicenda, ha accarezzato l’idea del suicidio mentre era in vacanza sulle Dolomiti. Dunque l’on. Bassolino ha rovinato le sue vacanze pensando al suicidio, un vero e proprio dramma! Solo che la sua lacrimevole captatio benevolentiae, caro on. Bassolino, non convince, non la assolve dalle sue responsabilità politiche ed è un insulto all’idea della morte che accompagna autenticamente disgraziati costretti ad aspettare per anni l’esito della loro vicenda, non in comodi resort ma nel chiuso di una cella, con all’orizzonte lo spicchio di cielo consentito dalle gelosie anziché i cieli sterminati delle dolomiti, e che al suicidio molto spesso giungono realmente.
E mentre la piaggeria di una stampa attenta al tornaconto delle tirature, enfatizza miserabili sceneggiate tentando di coinvolgerci nella pietà per la sorte del potente in disgrazia, nessuno che si sporchi le mani, che scenda negli inferi dove si consumano vite umane, che, reprimendo il disgusto che sale alla gola, narri le storie spietate di uomini a perdere e denunci lo schifo che ci assedia. Agli uomini a perdere tocca fare i conti con la spietatezza dei cacciatori di taglie che nei loro confronti teorizzano soluzioni finali e pretendono, oltre al seppellimento del fisico e della coscienza, anche la damnatio memoriae.
La morale è che può accadere che la giustizia abbia un lapsus, dimentichi che essa ha a cuore solo l’interesse del più forte e colpisca inopinatamente anche i potenti, ma a questi ultimi concede la riparazione di una ribalta costernata e contrita, ai figli di nessuno solo la gogna e l’oblio.





   

mercoledì 6 novembre 2013

Don Rigoldi

Don Gino Rigoldi è un personaggio che non si discute. La sua storia parla per lui e ci dice che è un missionario delle carceri, da sempre impegnato a fianco di chi soffre.
Si può discutere invece il contenuto della lettera che ha indirizzato al Corriere della Sera in difesa del ministro Cancellieri. In essa egli afferma di stare dalla parte del ministro perché non ritiene scandaloso che questi si sia interessato a una donna ricca né che i ricchi possano avere amicizie su cui contare. E, quasi a teorizzare il valore assolutorio della competenza, aggiunge che “abbiamo finalmente un ministro concreto e competente, impegnato con grande determinazione a migliorare le incivili condizioni di vita dei detenuti italiani” con iniziative quali la cosiddetta legge svuota carceri, lo studio di pene alternative, di lavori di pubblica utilità, con la proposta delle celle aperte, con visite frequenti dentro le carceri e dialogo con i detenuti. Una sensibilità indiscutibile della quale va dato atto di contro a comportamenti di segno diverso di quanti l’hanno preceduto e che hanno esercitato il loro ruolo in chiave esclusivamente punitiva. Ma questo non vuol dire che la sensibilità del ministro si debba spingere fino a iniziative improprie. Non è scandaloso che “i ricchi  abbiano amicizie”, il fatto è che i ricchi hanno amicizie con i potenti che i poveri non si possono permettere, e anche questo non è scandaloso, ma quando i ricchi attivano le loro amicizie per ottenere ciò che altri non possono ottenere, questo è scandaloso. E il ministro che ha il diritto anche lui di coltivare affetti e amicizie, non ha il diritto di riversare su di essi il peso del potere che gli deriva dalla sua funzione pubblica e di privilegiare l’uno anziché l’altro. Quando Don Gino, a commento della frase del ministro ai familiari di Ligresti: “Contate su di me”, afferma che si tratta di una innocente espressione di umanità che lui stesso ha tante volte pronunciato per rassicurare i parenti dei detenuti, sembra dimenticare che, mentre egli mette in campo gli strumenti del suo cuore che appartengono solo a lui e li offre indifferentemente a tutti, il ministro ha utilizzato nella fattispecie un potere di tutti a favore di un singolo. E seppure non ha interferito nelle decisioni della magistratura, come credo, ma si è limitato ad allertare il DAP sullo stato di salute della signora Ligresti, è ugualmente venuto meno al doveroso distacco che il suo ruolo gli imponeva.
Tutto questo però non toglie nulla ai meriti di una donna che sta facendo tanto e che non merita la gogna che gli è piovuta addosso. Ne avessimo di ministri così preparati e appassionati, e la richiesta di dimissioni avanzata dalla opposizione la dice tutta sull’uso strumentale che si vuol fare di questo incidente anche a costo di danneggiare l’interesse comune privando la cosa pubblica di un suo rappresentante finalmente decente e all’altezza.

Il ministro deve continuare la sua opera meritoria imbrigliando le tentazioni familistiche della sua generosità e facendo di essa un’arma formidabile di tutela erga omnes. Come ha dimostrato di saper fare.

lunedì 4 novembre 2013

Il diritto a buon mercato


Affrontare la vicenda del voto con cui in Senato si deciderà della decadenza del sen. Berlusconi, è un esercizio rischioso perché si incappa puntualmente nell’accusa di essere berlusconiani per il solo fatto di intestarsi una battaglia che richiama al buon senso e al rispetto delle regole. Se c’è di mezzo Berlusconi, anche se le regole non vengono rispettate, non si può protestare se non si vuole correre il rischio di essere considerati manigoldi e suoi complici. Accetto questo rischio e vengo al dunque.
Nella Giunta per il regolamento si è deciso che la votazione per la decadenza di Berlusconi debba avvenire con voto palese. Da sempre al Senato, quando la votazione ha riguardato la persona, si è proceduto a scrutinio segreto perché si vuole garantire la tutela del singolo e la libertà di coscienza dei parlamentari. L’avere cambiato questo principio sancito dal regolamento e dalla prassi perché conviene ad una parte, significa piegare il diritto alle esigenze del caso per caso, in questo caso all’esigenza di far fuori Berlusconi, con tanti saluti per il valore universale della legge. Naturalmente le facce di bronzo autori della bella impresa, si sono precipitate a sproloquiare di trasparenza, di separazione tra vicenda giudiziaria e politica e, per bocca del sen. Zanda, di “votazione che non riguarda la persona ma i requisiti minimi di dignità degli eletti”. Sorvoliamo sulla disinvoltura del sen. Zanda e chiediamoci: ma la trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica è un totem al quale si deve sacrificare il rispetto della legge frutto della volontà popolare espressa attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, e siamo certi che la separazione tra vicende giudiziarie e politica è stata salvata nel momento in cui proprio una vicenda giudiziaria è stata utilizzata nell’interesse di una parte politica e per far ciò non si è esitato a piegare il diritto alla bisogna?
Il cinismo politico va bene ma non fino a questi livelli di spudoratezza che pretendono di trattarci da cerebrolesi.
Anziché di cinismo dovremmo parlare di lungimiranza politica e chiederci a chi giova lo sfascio creato da questa guerra senza esclusione di colpi. Il PD non ignora che c’è una grossa ( forse maggioritaria ) fetta della nostra società che non riesce ad avere una sua rappresentanza credibile. Ha tentato con Berlusconi e abbiamo visto come è finita. Frastornata e delusa essa rischia di finire tra le braccia dei tribuni del tanto peggio tanto meglio. Una democrazia non rappresentata pienamente è una democrazia incompiuta e giocare sporco mettendo in difficoltà i moderati dello schieramento opposto che hanno avuto il coraggio di emanciparsi da una tutela padronale e stanno tentando di intestarsi quella rappresentanza proponendosi in maniera ragionevole e costruttiva, è un danno per tutti. Il PD, se ha il senso del bene comune, non dovrebbe ignorarlo.
E passiamo ad un altro bell’esempio di logica di parte fornitoci dalla signora Cancellieri. La guardasigilli, raggiunta da una telefonata dalla compagna di Salvatore Ligresti, si mostra dispiaciuta per gli arresti di quest’ultimo e delle sue figlie, e fin qui nulla di male. Lei è amica della signora Fragni da sempre ed è legittimo che, in nome dell’amicizia, manifesti la propria solidarietà. Un poco meno legittimo e sicuramente meno opportuno è che il ministro di Grazia e Giustizia a proposito dell’arresto dica che “c’è modo e modo”, che “non è giusto”, che è “la fine del mondo”, si dichiari disponibile ( “qualsiasi cosa io possa fare tu conta su di me” ) e dimostri la sua disponibilità allertando due vicedirettori del Dipartimento penitenziario sullo stato di salute della signora Giulia Ligresti. Imbarazzante se poi apprendiamo che il figlio del ministro è stato dipendente dei Ligresti per un anno, giusto il tempo per maturare una liquidazione di 3,5 milioni di euro.

Ora di casi dolorosi sono piene le vicende giudiziarie del nostro Paese. Si potrebbe stilare un elenco infinito di drammi che si consumano in carcere, di disperati che convivono con il pensiero onirico latente del suicidio e non possono contare sulle premure del vice direttore del DAP allertato dal ministro, di ottantenni rassegnati a morire in carcere perché non riescono ad ottenere misure alternative, di disgraziati che rischiano la vita in preda a patologie che la struttura carceraria non si preoccupa di monitorare come è necessario, di ostaggi della infernale macchina giudiziaria inchiodati a decenni di calvario che giungono alla conclusione della loro vicenda per apprendere che sono innocenti oppure che sono colpevoli ma, nonostante ciò, hanno ugualmente diritto ad essere considerati innocenti perché sono ormai persone completamente diverse rispetto a quelle che hanno intrapreso, quindici anni prima, il loro viaggio kafkiano nel pianeta giustizia e in questi anni hanno coltivato una nuova vita alla quale vengono strappate per essere catapultate, spesso in età canonica, verso un inferno che non le riguarda più, di presunti innocenti che vengono riconosciuti definitivamente innocenti dopo avere pagato con la carcerazione preventiva una pena non dovuta, di paria che vivono una carcerazione ignobile, di familiari che hanno dimenticato il volto dei loro cari perché non hanno i mezzi con cui permettersi il lusso di un colloquio in carceri lontane. Mi fermo qui perché mi disgusta la retorica del pietismo, ma chiedo al signor Ministro: se non si è Mancino e non si può contare sul rapporto privilegiato con il Presidente della Repubblica per ottenere, sia chiaro, nel massimo rispetto della legge un interessamento da parte del suo consigliere, se non si è Ligresti e non si può contare sul rapporto amicale con il ministro di Grazia e Giustizia per ottenere, per carità nel massimo rispetto della legge, un attenzione particolare del Dipartimento Penitenziario, se si è dei signori nessuno, può Ella avere la gentilezza, signor Ministro, di fornire a questi carneadi l’indirizzo del potente al quale rivolgersi per ottenere di volta in volta una attenzione particolare su ciascun episodio di malagiustizia di cui proprio il dicastero da Lei guidato è il maggiore responsabile?