La parola evoca la nascita di un
Profeta che duemila anni pagò un tributo terribile al suo amore per
l’uomo e ci lasciò in eredità la sua sofferenza. Col Natale
celebriamo un messaggio di speranza misurandoci al contempo con il
male che ci accompagna nelle sue forme più crudeli. La sofferenza
del Nazareno infatti si perpetua offrendoci lo spettacolo di vite
disseminate nei marciapiedi delle nostre città o racchiuse nelle
carceri senza speranza di redenzione, come fossero scarti della
società, dell’olocausto di Aleppo, delle carneficine di innocenti
immolati sull’altare del fanatismo, dei migranti strappati alle
loro case, dei nostri figli sradicati dai loro affetti e costretti a
cercare altrove opportunità di lavoro, della solitudine degli
anziani, di una povertà economica sempre più diffusa che si traduce
in povertà dello spirito, dei sepolcri imbiancati che vediamo
sfilare impettiti e impudichi mentre accarezzano le guance innocenti
delle loro vittime, degli arroganti detentori delle nostre vite che
esibiscono il loro potere imponendoci l’ordalia di una casta che
risponde solo a se stessa, della inadeguatezza dei nostri governanti
che hanno pregiudicato il nostro futuro e continuano a imperversare
imperterriti, della rassegnazione di un popolo che sembra condannato
alla irredimibilità. Andiamo per le strade e annusiamo l’odore
nauseante del nostro disfacimento e tuttavia festeggiamo il Natale
perché ci sentiamo eredi di un messaggio che, perpetuatosi grazie
alla Chiesa di Cristo, ha edificato la nostra dignità durante i
secoli ed è giunto fino a noi per essere ripreso e tradotto nella
eredità dei lumi. Se oggi esiste una enclave di civiltà che guarda
ai diritti fondamentali dell’uomo e combatte l’oscurantismo dello
spirito con le ragioni della pietà e della buona causa, ciò si deve
a quel messaggio. Il viaggio nella sofferenza è anche un viaggio
dello spirito che nessuna sofferenza potrà mai cancellare. Buon
Natale.
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sabato 24 dicembre 2016
giovedì 1 dicembre 2016
Gli eccessi verbali
Ha ragione Dacia Maraini quando,
commentando l’infelice sortita del governatore De Luca contro l’on.
Bindi, denuncia gli eccessi verbali contro le donne, ha torto quando
individua nelle sole donne le vittime di questi eccessi. Purtroppo
l’aggressione verbale è un costume diffuso che prende di mira
indiscriminatamente e proviene da ogni parte, (basta navigare in rete
per imbattersi in invettive di tutti contro tutti), anche da parte
della donna che, messasi in gioco, si è vista costretta a sporcarsi
i calzari. Come sostiene Cazzullo, essa “erediterà la terra” ma
in acconto alla terra promessa ha già ricevuto in eredità il
rancore di chi si è sentito scippato e le ha presentato il conto
facendola oggetto di violenze fisiche e morali, e continuerà anche
in futuro a non perdonarle la sfida da lei portata. La donna che si
mette in gioco si vede costretta a rispondere colpo su colpo,
scendendo su un terreno in cui l’intolleranza è una compagna
insidiosa e nel quale deve sapersi muovere con intelligenza, non
cedendo di un millimetro sulla difesa della propria dignità ma al
contempo affrontando col giusto atteggiamento i timori che suscita la
sua discesa in campo, indagando tra le pieghe di un disagio che
nell’uomo nasce dalla scoperta di una fragilità e di un declino
che lo spaventano, senza indulgenze per la brutalità che spesso ne
deriva ma senza spicciative demonizzazioni che liquidano
sprezzantemente sempre e comunque il maschio. Nel clima avvelenato
che vede al centro il dibattito sul ruolo della donna, non è dunque
facile tenere a freno l’intolleranza. L’uscita del governatore
della Campania, “un infame da uccidere”, è una imprecazione più
che una incitazione ad uccidere, peraltro proferita “fuori onda”,
ma ciò non toglie che essa è la spia di una inaccettabile
beceraggine intellettuale ed è pericolosa perché, al di là delle
intenzioni dell’autore, può innescare dissennate reazioni nel
momento in cui raggiunge menti fragili. L’ignobile mattanza delle
donne non è forse frutto dell’insensatezza e della labilità
psichica di uomini frustrati? Non si può dunque concedere nessuna
attenuante all’incontinente governatore. Ma, pronunciata questa
doverosa condanna, dobbiamo avere l’onestà di non trarre
conclusioni ideologiche colorando di una unica tinta l’intolleranza.
L’intolleranza è di casa dovunque venga superata l’asticella del
rispetto nei confronti dell’altro, senza distinzioni di genere,
come dimostra proprio la battagliera on. Bindi la quale, come un
qualsiasi banalissimo uomo, si abbandona qualche volta ad
esternazioni che, seppure felpate nel più puro stile democristiano,
sono anche esse delle autentiche aggressioni. Ha bacchettato il
prefetto Caruso accusandolo di delegittimare l’impegno antimafia,
per avere questi messo in guardia contro le derive della dottoressa
Saguto ben presto indagata proprio per i motivi denunciati dal
prefetto. Non è questa arroganza ideologica che sacrifica un
funzionario onesto pur di difendere un santuario intoccabile? Ha
inoltre definito impresentabile De Luca risultato successivamente
estraneo alle accuse per le quali la Bindi lo aveva definito tale.
“Nelle liste del PD non ci sono candidati impresentabili tranne il
candidato della Regione Campania” commentò la Bindi a ridosso
delle elezioni regionali in Campania. Roba da ammazzare un bue. De
Luca, come dice Giannini in un suo editoriale su Repubblica, è
indifendibile per mille motivi, ma questo autorizzava l’on. Bindi
ad etichettarlo come impresentabile, e cioè indegno, prima della
pronuncia della magistratura? Di questi scivoloni l’on. Bindi è
giusto che renda conto perché è Presidente della Commissione
Parlamentare Antimafia ed è tenuta ad un rigore e ad un equilibrio
dai quali non può prescindere al riparo della sua inattaccabilità
di genere.
venerdì 18 novembre 2016
L’onestà intellettuale
Ho partecipato alla presentazione di un
libro e ho ascoltato l’introduzione dell’autore. Lo conoscevo per
averlo letto e apprezzato nella sua veste di giornalista che sa
stare, come si suole dire, sul pezzo e, ascoltandolo nella veste di
romanziere, ho avuto la conferma della sua onestà intellettuale. E
uno che non si nasconde dietro un dito e ha il coraggio di fare le
pulci anche in casa sua senza fisime da casta. E’ inoltre un
profondo conoscitore del fenomeno mafioso ma ne parla con laica
cautela mettendo in guardia contro le facili semplificazioni di chi
ricorre a stereotipi scontati mettendo tutto il bene da una parte e
tutto il male dall’altra. Parla di un fenomeno complesso che va
analizzato passando attraverso l’esame di quella che egli chiama
cultura mafiosa annidata nelle pieghe della zona grigia che indulge a
un certo fascino perverso. Giustamente sostiene che, se la mafia si
limitasse solo ad una accolita di criminali priva di ancoraggi con la
cultura diffusa che la sostiene, sarebbe già stata sconfitta da
tempo, e si rammarica perché ad essa si oppone un’antimafia di
maniera che si produce, con i suoi tic giustizialisti, in linciaggi
di piazza appollaiandosi su rendite di posizione. Lamenta il
pressapochismo di certi suoi colleghi che sposano comode verità
senza preoccuparsi se reputazioni più o meno innocenti vengono
sporcate a causa di quella che qualcuno, non ricordo chi, ha definito
macelleria mediatica. Denuncia inoltre il lassismo delle istituzioni
che, negando una carcerazione dignitosa a chi è in carcere e non
offrendo chances a chi esce dal carcere e ha bisogno di essere
aiutato a non ricadere nella recidiva, vanificano ogni tentativo di
recupero. Parafrasando Brecht, si rammarica del fatto che la nostra
democrazia abbia bisogno di misure d’emergenza crudeli quali il 41
bis. Lamenta l’incapacità della cosiddetta società civile di
cogliere certe sensibilità sincere che provengono da quel mondo
terribile e complesso. Competente e onesto non è però
consequenziale. Perché se è vero ( ed è vero ), come egli
sostiene, che da quel mondo arrivano dei segnali, arriva l’eco del
travaglio di coscienze confuse che si interrogano sulle proprie colpe
e danno voce a testimonianze di un percorso pieno di insidie che
aspira alla redenzione, che descrivono come possono un contesto
drammatico e sbirciano nella speranza di stringere una mano che si
protenda verso di esse, è altrettanto vero che il nostro onesto e
sensibile giornalista ( sia detto senza ironia ) non ha mai provato a
tendere quella mano.
sabato 12 novembre 2016
Referendum Si, referendum No
Perché votare Si al referendum
costituzionale del 4 dicembre è considerato dai sostenitori del No
l’anticamera di una deriva autoritaria solo perché esso prevede il
rafforzamento del potere dell’esecutivo? Forse che la volontà del
popolo espressa attraverso un referendum indetto secondo le regole
costituzionali, è un attentato alla Costituzione, ed è al contrario
onesto il tentativo di manipolare la realtà prospettando scenari
improbabili? Non è vero invece che la nostra Costituzione, ingessata
da 60 anni, blinda i privilegi di alcuni mentre condanna
all’irrilevanza il ruolo del Presidente del Consiglio costretto ad
arrancare in balia di limiti che gli impediscono di essere padrone
persino a casa sua ( non può neanche licenziare i suoi ministri ), e
degli umori di parlamentari inadeguati? La verità è che la pretesa
dei poteri dominanti, campioni di una intransigenza a difesa dei loro
interessi, di attestarsi su volontà ideologiche e fare del
terrorismo abbandonandosi a proclami apocalittici e condannando
attraverso interpretazioni arbitrarie qualsiasi tentativo di
modificare lo status quo, nasconde la paura di perdere il potere
conquistato grazie alla “Costituzione più bella del mondo”, la
stessa Costituzione nata da accordi consociativi, che ha permesso
l’erezione di santuari inviolabili e vede riaffiorare in difesa
della sua inamovibilità le antiche diverse anime che l’hanno
fondata. Una buona volta dobbiamo avere il coraggio di dire, senza
temere di essere tacciati di conservatorismo, che c’è un tentativo
di dare la libertà individuale in pasto alla dittatura del pensiero
unico che non tollera dissensi e si appalta in esclusiva il diritto
di stabilire cosa è giusto e cosa non lo è. L’arroganza di esso è
all’origine del disamore della gente comune nei confronti delle
istituzioni, della voglia di abbattere tutto, della reazione
istintiva di chi si mette sulla difensiva come può contro la potenza
di fuoco di chi ha le armi per affermare la propria supremazia, e
reagisce mettendo in quarantena la ragione e buttando a mare assieme
all’acqua sporca il buon senso. Perché solo l’assenza di buon
senso può spiegare il paradosso di una crociata che vede affiancati
sulle stesse barricate il diavolo e l’acqua santa, personaggi
emergenti dalle retrovie della prima repubblica, beneficiari delle
incrostazioni stratificatesi negli anni e contestatori dell’ultima
ora nelle cui vene sono stati inoculati a loro insaputa i valori dei
primi, tutti assieme appassionatamente all’insegna di una battaglia
che nel nome del nuovo conserva il vecchio. E’ il qualunquismo
suicida di coscienze confuse e avvelenate che, per paura e spirito di
vendetta, scelgono il tanto peggio tanto meglio e si abbandonano a
scelte avventate, come è accaduto in Inghilterra con la Brexit e
negli Stati Uniti con l’elezione di Trump.
domenica 23 ottobre 2016
Gli sciacalli
Il recente terremoto nel Lazio e nelle
Marche, ci ha proposto i soliti, disgustosi episodi di sciacallaggio
di cui ci indigniamo a maggior ragione perché perpetrati a spese di
popolazioni innocenti che non meritano certo l’oltraggio dell’uomo
dopo avere subito l’oltraggio della natura. Non proviamo invece
uguale indignazione tutte le volte che lo sciacallaggio viene
perpetrato nei confronti di una umanità meno innocente verso la
quale non nutriamo alcun senso di pietà e tolleriamo crudeltà
gratuite. Esso viene perpetrato molto più spesso di quanto non ce ne
rendiamo conto, e non ce ne rendiamo conto perché lo consideriamo la
giusta pena per una genere che abbiamo deciso di considerare
colpevole e meritevole di qualsiasi infamia. Nei confronti di esso
non è dovuto l’obbligo dell’onestà e anche un’azione estrema
come lo sciacallaggio è considerata moneta corrente senza che desti
scandalo. A questa umanità appartengo io, titolare di una notorietà
che non ritengo di meritare ma che mi è stata, mio malgrado,
imposta. La macelleria mediatica ha fiutato la preda e individuato
nel sottoscritto il personaggio su cui costruire pagine suggestive e
infedeli rispetto alla mia reale dimensione. Ricordo un episodio. Fui
avvicinato da un cronista giudiziario che va per la maggiore e che mi
propose una intervista. Rifiutai la proposta e con mia sorpresa il
mio interlocutore non insistette più di tanto, anzi mi diede
l’impressione di avere accettato il mio diniego con un sospiro di
sollievo. Mi spiegò egli stesso che, dopo essersi procurato
l’appuntamento con me, si era documentato sulla mia vicenda
giudiziaria e aveva scoperto la modestia delle mie imputazioni
rimanendo spiazzato. Mi confessò che non capiva il motivo di tanto
clamore attorno alla mia figura a fronte di uno spessore criminale
tutto sommato irrilevante. Il buon cronista in verità non capiva di
essere rimasto vittima di se stesso o, meglio, del mondo cui egli
appartiene. I cacciatori di streghe prima di lui avevano sparato su
di me ad alzo zero senza verificare la reale portata delle mie
“malefatte”, avevano creato il personaggio senza curarsi di
accertarne l’autentica consistenza e lo avevano dato in pasto
all’opinione pubblica consegnando all’immaginario collettivo il
falso mito di cui lo stesso mio scrupoloso interlocutore era rimasto
vittima. Di cosa disponeva infatti egli che valesse la pena di
raccontare? Può interessare un mediocre personaggio di seconda fila
del panorama mafioso condannato ad appena 7 anni e 8 mesi per mafia
senza neanche l’aggravante di esserne un capo, mentre invece nel
serraglio dei mammasantissima che affollano il mondo delle grandi
storie mafiose fioccano ergastoli o, bene che vada, decine e decine
di anni di detenzione? Non un’accusa di omicidio, non un’accusa
di traffico di droga, non un’accusa di estorsione, o, meglio,
un’accusa di tentata estorsione conclusasi con un’assoluzione
piena, non l’accusa di avere intrattenuto rapporti con personaggi
di grosso calibro della Santa Chiesa, anche se i mestatori della rete
mi attribuiscono un ruolo nella cura della latitanza addirittura di
uno dei dioscuri che hanno fatto la storia della mafia in Sicilia. Ma
allora perché tanto accanimento? Sicuramente un motivo va fatto
risalire alle attenzioni che la Procura di Palermo mi ha riservato.
Essa infatti, pur in presenza di una sentenza che mi ha condannato,
è vero, per associazione mafiosa ma ha escluso un mio ruolo di
vertice, e di due sentenze, una del Magistrato di Sorveglianza di
Spoleto e una del Tribunale per le Misure di Prevenzione di Palermo,
che hanno respinto la richiesta di misure di prevenzione a mio carico
non ritenendomi pericoloso, si ostina ad agitare lo spauracchio del
mafioso stella di prima grandezza nel firmamento mafioso, non
perdendo l’occasione per leggere ogni mio comportamento, anche il
più innocente, con la lente del sospetto, in base non a prove di una
mia reale pericolosità ma ai vaneggiamenti di un teorema che le
riesce difficile archiviare. Il povero cronista nelle mie carte
giudiziarie non trovò nulla che meritasse l’onore di un servizio
in prima pagina, disponeva solo della carta straccia di una mitologia
farlocca costruita dalle grandi firme dell’impostura al servizio
della Procura. Che cavolo di personaggio ero? Che cosa avrebbe dovuto
raccontare il cronista alla gente se io, lusingato dalle sue
attenzioni e in cerca di visibilità come i tanti affetti da malattia
mediterranea che si annacano, avessi accettato l’intervista?
Dell’intervista non se ne fece niente ed io continuo ad assaporare
il gusto amaro dello sciacallaggio che imperversa contro di me in
certa letteratura d’appendice spacciata per coraggiosa denuncia
contro la mafia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e li pago
sotto forma di linciaggio o, bene che vada, di rimozione da parte dei
benpensanti che boicottano tutto ciò che nasce da me. I frutti della
mia vena vengono demonizzati ancor prima di essere gustati e basta
andare in rete per leggere le idiozie di uno stuolo di carneadi
indignati che protestano contro la mia pretesa di propormi come
autore, di cui non conoscono l’opera che però demoliscono ab
origine, per il solo fatto che è scritta da un condannato per mafia.
Per non parlare poi dei maitres à penser, di quelli cioè che
determinano il successo o l’insuccesso secondo una logica ferrea
che esclude gli estranei al circuito magico, figuriamoci gli
appestati come me. Sollecitati dal mio editore ad una lettura
purchessia, anche critica, del mio romanzo, hanno opposto un ostinato
silenzio. Ho preso il coraggio a due mani e un paio di essi li ho
persino affrontati (non con atteggiamento mafioso, lo giuro)
chiedendo il motivo del loro ostracismo nei confronti di un evento
alla cui presentazione erano stati invitati, risposta: mi mandi il
libro, lo leggerò e le farò sapere. Risultato: anche in questo caso
silenzio assoluto. Chi invece ha perduto una buona occasione per
stare zitto, è stato un assessore comunale che, distrattosi, mi ha
concesso l’utilizzo di una struttura pubblica per la presentazione
del mio libro e che, accortosi quando ormai era troppo tardi, che il
beneficiario della concessione ero io, ha strepitato protestando di
essere stato ingannato. Anche lui ha confessato di non aver letto il
mio romanzo e che dunque parlava di ciò che non conosceva, ma questo
importava poco al nostro amministratore, non gli importava d’avere
permesso con la sua decisione lo svolgimento di un dibattito
culturale, anzi se ne rammaricava, quello che gli rodeva era non
avere potuto cogliere anche lui l’occasione per issare la sua brava
bandiera antimafia di maniera, come i tanti che ne fanno un uso
improprio pur di guadagnare uno straccio di visibilità.
lunedì 3 ottobre 2016
Le delusioni d Ilaria Capua
In una lettera indirizzata al Corriere
della Sera Ilaria Capua ripercorre il suo calvario di indagata per
associazione a delinquere finalizzata a corruzione e traffico di
virus. Nientemeno! Una scienziata apprezzata in tutto il mondo
trascinata in una storiaccia così squallida! Certo, il censo non può
essere motivo di impunità e dunque se c’erano gli estremi la
signora Capua andava indagata. Ma c’erano gli estremi ed erano essi
tali da sfidare la statura di un simile personaggio? L’indagine è
una garanzia per l’indagato innocente perché l’esito lo
scagionerà e dissolverà qualsiasi dubbio sulla sua moralità, ma in
un Paese come l’Italia dove il sospetto è l’anticamera della
verità, un avviso di garanzia si traduce in un atto d’accusa e
l’indagato viene esposto all’onta del mascariamento. Questo è
quello che è accaduto alla signora Capua risorsa preziosa di una
Italia migliore, la cui credibilità avrebbe dovuto far nascere
qualche dubbio sulle accuse che le venivano rivolte, e il cui
prestigio andava maggiormente tutelato. Nei suoi confronti, vista la
sua levatura morale, si sarebbe dovuto adottare una maggiore cautela,
evitare di darla in pasto alla solita stampa famelica, e, una volta
archiviata l’indagine con il suo totale proscioglimento, si sarebbe
dovuto accertare se si era proceduto con avventatezza nel sostenere
l’accusa e, in caso positivo, presentare il conto a chi di dovere.
Vale per qualsiasi cittadino ma vale in particolare per la signora
Capua in considerazione della sua notorietà internazionale e
dell’eco che la vicenda ha avuto in tutto il mondo esponendoci ad
una figuraccia. Nessuno invece ha pagato o meglio, a pagare sono
state la signora Capua e l’Italia. Perché indurre una tale
scienziata a lasciare l’Italia e mettere a disposizione di un altro
Paese il suo sapere, indurre una parlamentare che avrebbe potuto
promuovere in questa veste iniziative a favore della ricerca, a
dimettersi, è una sofferenza gratuita per l’incolpevole Capua e un
danno incalcolabile per il Paese che essa è chiamata a servire. Che
delusione non sentire una sola voce di solidarietà levarsi a favore
della signora Capua ad opera di un qualsiasi rappresentante delle
istituzioni, non percepire alcun sussulto di indignazione e di
rammarico proveniente dalla politica per le conseguenze disastrose di
una vicenda che un minimo di decenza avrebbe dovuto scoraggiare,
nessuna denuncia contro la disinvoltura di un’accusa che si è
rivelata priva di riscontri! I responsabili di questo danno, i soliti
a caccia di notorietà a spese del personaggio di turno, andrebbero
messi nelle condizioni di non nuocere e invece no, come nel caso
Tortora, come nel caso Cucchi, come nei tanti casi di giustizia
allegra, nessun responsabile è individuato e punito, e il proposito
di Ilaria Capua di aprire un fronte del suo impegno sul versante
della giustizia in Italia, ora che ne ha conosciuto le delizie, le fa
onore ma è destinato a restare una illusione.
mercoledì 28 settembre 2016
Il discrimine
L’ingiustizia in Italia dà il peggio
di sé quando marca la differenza tra la sorte degli ultimi che
pagano fino in fondo il fio delle loro colpe e quella dei
privilegiati che navigano nel mare dell’impunità. L’elenco dei
casi di potenti che, nonostante condanne pesanti, si sottraggono alle
pene grazie al censo che permette loro di imboccare costose
scorciatoie, si spreca, come si spreca la lista dei poveri cristi che
affollano le patrie galere. A parole sono in molti a denunciare
questa evidente disparità, mostrando di ispirarsi a principi di
equità e producendosi in esternazioni accorate con un’enfasi pari
alla sfrontatezza con la quale alcuni di essi difendono la loro
impunità. E’la doppiezza morale di sempre denunciata da Trasimaco
quando definisce la giustizia l’interesse del più forte, non
immaginando che persino nella stesura dell’elenco dei colpevoli
vessati dai rigori della legge avrebbe fatto capolino una buona dose
di classismo. Quanti infatti insorgono in difesa di Caino facendo un
discrimine tra chi merita misericordia e chi no, operano una
distinzione classista nel mondo di disperati che non fa alcuna
considerazione di merito. Gli emigranti, gli spacciatori, i
delinquenti di piccolo cabotaggio che non possono contare sulle
scorciatoie riservate ai potenti, possono contare sulla solidarietà
dei sacerdoti del politicamente corretto perché si prestano ad
essere pretesto di un buonismo a buon mercato esibito più che
sentito sinceramente, giusto per lustrare il pedigree del buon
samaritano. E’ una solidarietà pelosa espressa per lo più da
cialtroni in marsina che si riempiono la bocca con proclami
inneggianti a nobili concetti puntualmente traditi sull’altare
dell’interesse personale, una solidarietà nella quale non trovano
posto mafiosi e affini, merce avariata inutilizzabile per
masturbazioni moraleggianti. Persino il Papa che ha fatto della
misericordia la cifra del suo apostolato, li discrimina. Ad essi
tocca d’essere confinati nel recinto dei reietti dove non valgono
le regole, d’essere considerati ectoplasmi privi dei diritti
fondamentali nell’indifferenza della cosiddetta società civile.
Relegati nel girone degli orrori, oggetto del disprezzo della gente,
godono in compenso dell’attenzione dello Stato che su di loro
infierisce con spirito di vendetta. E’ il tramonto dell’epica
sciagurata della mafia costretta a subire il discrimine persino
rispetto ai malacarne di bassa lega, ma è anche l’eclissi dello
Stato di diritto che ha rinunciato ai propri principi fondanti in
nome della sicurezza, e delle coscienze libere che hanno rinnegato la
lezione dei lumi decidendo chi ha diritto o meno ad essere
considerato uomo.
domenica 18 settembre 2016
I gattopardi
In un suo editoriale di qualche tempo
fa sulla Sicilia Aldo Cazzullo lamentava la condizione in cui versa
l’isola, interrogandosi su come sia possibile che una terra che ha
dato i natali a Verga, Pirandello, Sciascia e altri straordinari
protagonisti che hanno connotato quasi per intero la letteratura
italiana del Novecento, sia la stessa terra che ha dato i natali a
Lombardo, Crocetta e Cuffaro. Non riusciva a darsi una spiegazione.
Una spiegazione invece se l’è data Ernesto Galli della Loggia
quando anche egli, in un articolo di fondo apparso sul Corriere, ha
denunciato lo stato comatoso in cui versa il Sud. In questo articolo
egli descrive il quadro desolante di una realtà in disfacimento
caratterizzata da una classe dirigente e politica imbarazzante (porta
l’esempio del penoso intervento dell’onorevole Barbagallo
nell’aula dell’Assemblea Regionale Siciliana), dall’assenza di
prospettive di sviluppo, dall’elevatissimo tasso di disoccupazione,
dalla carenza di servizi e infrastrutture, dall’inefficienza
dell’elefantiaca burocrazia e naturalmente dalla presenza invasiva
della criminalità organizzata. La causa di questo sfascio è dovuta,
secondo Galli della Loggia, ad una antica indigenza, a secoli di
malgoverno ma soprattutto alla latitanza dello Stato. Lo Stato in
verità, secondo la sua analisi, ha tentato di correggere questa
tendenza facendo da omogeneizzante culturale e sociale, favorendo lo
scambio fecondo delle diverse sensibilità, conoscenze, usi, culture,
idee che hanno arricchito il tessuto sociale dell’intera Nazione e
l’hanno reso più coeso. Purtroppo, dopo gli anni 70, per una serie
di motivi legati al mutato quadro politico e sindacale, è venuta
meno questa funzione collante e lo Stato ha fatto un passo indietro
rinunciando al suo ruolo di guida del Paese in settori strategici,
delegando alle istituzioni periferiche una serie di prerogative
importanti e lasciando campo libero all’autarchia, al familismo, al
clientelismo, ai miserabili interessi localistici, in definitiva ai
guasti che affliggono il Sud. La causa dei mali del Sud secondo Galli
della Loggia è dunque da attribuire alla sopravvenuta latitanza
dello Stato, non certo a “qualche malformazione genetica dei nostri
concittadini di quelle regioni”. Dice proprio così, “concittadini
di quelle regioni” e “quelle regioni” danno la misura della
distanza che l’autore percepisce inconsciamente da terre lontane
abitate da una umanità di cui fatica a decifrare l’indole. Se
Galli della Loggia avesse consapevolezza di come siamo fatti
veramente noi meridionali e i siciliani in particolare, eviterebbe
giudizi frettolosamente assolutori, saprebbe che è vero il contrario
di quanto egli afferma, che siamo irrimediabilmente malformati. Lo
siamo da quando, alle prese con gli eventi che hanno attraversato la
nostra storia, abbiamo dovuto fare i conti con essa e schivarne le
insidie in un contesto in cui già allora latitava un potere centrale
garante dei diritti di ognuno, da quando abbiamo dovuto imparare a
contare solo su di noi e siamo diventati per questo motivo
individualisti privi di illusioni, asociali guardinghi e sospettosi,
levantini, padreterni alle prese col nostro smisurato ego, in guerra
con tutto ciò che interferisce con esso. E’ così che ci siamo
formati, con i molti vizi e le poche virtù che sono diventati il
nostro patrimonio genetico. Prigionieri dei nostri geni, animali
bradi privi di un sentire comune, rifiutiamo qualsiasi tentativo di
inclusione. Ci è mancato uno Stato nel quale identificarci, e di
conseguenza il senso dello Stato, e sbaglia, a mio avviso, Galli
della Loggia quando afferma che lo Stato ha rinunciato a svolgere il
suo ruolo negli anni 70. Lo Stato dalle nostre parti è sempre stato
assente, persino in tempi recenti, quando una parvenza di unità ce
ne ha regalato uno patrigno contro il quale abbiamo coltivato
diffidenza e rancore. Capaci di dare il peggio di noi persino nelle
grandi battaglie ideali che riusciamo a insozzare con secondi
miserabili fini o, bene che vada, di esprimere personaggi patetici
come l’onorevole Barbagallo, andiamo incontro al nostro destino
senza sforzarci di imboccare la via per evitarlo, tranne che non
prendiamo il largo dalle acque limacciose del nostro brodo di coltura
e guadagniamo l’antica via dell’esilio. A mio figlio che si è
visto costretto a riporre i suoi sogni nel cassetto e ha dovuto
emigrare in Francia col cuore colmo dell’amore per la sua terra e
il proposito di tornarvi, ho raccomandato di scordarsi di Palermo e
non permettere a questa città infelice di sporcargli l’anima.
mercoledì 7 settembre 2016
Charlie Hebdo
Le popolazioni colpite dal terremoto
nel Lazio e nella Marche sono costrette a subire non solo l’affronto
della natura ma anche quello dell’uomo allorché questi si impegna
in una delle azioni più ripugnanti, lo sciacallaggio. E non parlo
solo degli sciacalli che si aggirano tra le macerie cercando di
rubare le povere cose che si sono salvate, parlo soprattutto di
quanti, in nome della libertà di espressione, esercitano impunemente
il diritto all’indegnità. Mi riferisco a Charlie Hebdo che non ha
esitato a sfregiare il buon gusto ancor prima che il buon senso,
ironizzando sulla vicenda del terremoto che avrebbe prodotto, secondo
il discutibile humour del vignettista Felix, italiani disegnati quali
“penne al pomodoro”, “penne gratinate” e persino “lasagne”
in forma di corpi ammucchiati a strati e grondanti di salsa-sangue.
Si sono scatenate, come era prevedibile, reazioni pro e contro la
vignetta di Charlie Hebdo e, pur definendola infelice, in tanti
l’hanno difesa nel nome della libertà di satira e del diritto di
ciascuno di dire anche le cose più infami. Giusto, la libertà di
pensiero è sacrosanta e quindi va bene il diritto di Charlie Hebdo
di sproloquiare, ma è altrettanto sacrosanto il diritto di
dissentire e di chiamare chi è capace di esprimere schifezze del
genere col nome che merita: farabutto. E non solo perché come in
questo caso il farabutto offende il senso estetico ed etico, ma anche
perché è disonesto. Infatti di rimando alle critiche di cui è
stato oggetto, Charlie Hebdo ha pubblicato una seconda vignetta con
la quale ha chiamato in causa la mafia. La toppa peggiore del buco,
perché credo si possa dire che nel caso specifico la mafia c’entra
come il cavolo a merenda. Se infatti è vero che le esperienze
passate ci hanno abituato a forme di corruzione e ci fanno temere che
esse si possano ripetere anche nella ricostruzione di Amatrice,
Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, è altrettanto vero
che parliamo appunto di corruzione, un fenomeno nel quale noi
italiani certamente eccelliamo ma che prolifera sotto tutte le
latitudini ed è chiamata col suo nome senza scomodare la mafia. In
Italia invece no, la corruzione, secondo Charlie Hebdo, è mafia e
dunque non solo ci becchiamo l’epiteto di “lasagne”, “penne
gratinate e al pomodoro”, ma veniamo spicciativamente liquidati
come mafiosi, secondo l’equazione abusata che ci vuole tali in
quanto italiani e perciò capaci di esprimerci solo obbedendo a
categorie criminali. Per questa miserabile semplificazione che non è
esagerato definire razzismo, sappiamo chi ringraziare. Se i campioni
della morale a buon mercato che proliferano in casa (non “cosa”)
nostra e che hanno fatto della lotta alla mafia una professione
redditizia non facendosi scrupolo di barare, fanno sventolare il
vessillo di un Paese in cui il peggio è riconducibile sempre e solo
alla mafia e propongono teoremi improbabili secondo cui se in Alto
Adige abbattono un camoscio, se quattro gaglioffi si fanno complici
in attività corruttive nel comune di Pizzighettoni, se a Orgosolo
rubano una mandria di pecore, dietro ci sono interessi mafiosi ma
ignorano e, in alcuni casi, addirittura coprono patologie molto più
gravi nel cui elenco interminabile svetta al primo posto, appunto, la
corruzione che ci affligge da sempre e non certo grazie alla mafia
che semmai se ne serve come qualsiasi cittadino disonesto, non ci
dobbiamo poi lamentare se Charlie Hebdo maramaldeggia sulla nostra
mafiosità. La mafia è un bubbone che affligge il corpo della
società italiana e va combattuta, senza però dilatarne la portata e
inflazionarne il termine secondo la logica totalizzante del
politicamente corretto che erige il feticcio e se ne serve per
confondere le acque con forme di sciacallaggio che sono fuorvianti e
costituiscono un pericolo serio quanto quello della mafia.
domenica 28 agosto 2016
Il terremoto
Le vittime del terremoto, quelle che
hanno perduto la vita e quelle che in vita sono rimaste ma sono alle
prese col dolore e con la costernazione di una esistenza devastata,
sono costrette a subire l’oltraggio di una retorica melensa con cui
certa stampa declina la loro sofferenza e dei soliti proclami con cui
si esibiscono i politici. I soli che obbediscono a un minimo di
sobrietà sono i volontari i quali, silenziosi e pieni di
abnegazione, ci dimostrano di che pasta è fatta una certa Italia
quando è chiamata a gesti di solidarietà. Purtroppo l’esperienza
passata non ci dà molte speranze che le promesse di affrontare e
risolvere gli enormi problemi delle popolazioni terremotate siano
rispettate. Si è visto cosa è successo a L’Aquila, nel Belice e
in altre zone in cui la terra ha tremato e non c’è motivo di
essere ottimisti in questa circostanza. Bravi ad affrontare
l’emergenza, siamo invece incapaci di affrontare il problema della
ricostruzione laddove occorre progettualità, trasparenza,
efficienza, fantasia e quant’altro serve a realizzare fondamenta
solide che non si sbriciolino al primo appuntamento con l’ulteriore
terremoto. Per prima cosa ci dobbiamo dotare di una legislazione che
vincoli le costruzioni a regole ben precise e preveda sanzioni severe
nel caso in cui esse non siano rispettate, e ci dobbiamo impegnare a
ricostruire le case esattamente dove sono state distrutte perché è
lì che sono state seppellite le storie di tanta gente ed è lì che
bisogna farle rinascere. E poi occorre porre mano ad un nuovo
approccio nella cura delle nostre opere d’arte. Siamo un Paese ad
alto rischio sismico e quando dobbiamo fare i conti col terremoto di
turno, in ballo non ci sono solo vite umane e beni privati che,
cancellati dal sisma, rischiano di mettere in ginocchio l’economia
della zona, in ballo ci sono opere d’arte che appartengono
all’umanità e che abbiamo il dovere di tutelare. Lo dobbiamo al
mondo intero ma lo dobbiamo soprattutto a noi stessi, alle infinite
opportunità e alle ricadute positive che questo patrimonio ci offre.
In un Paese normale le vestigia antiche disseminate su tutto il
territorio dovrebbero costituire la prima industria con cui risolvere
problemi annosi di disoccupazione e di sviluppo. Si pensi a cosa
significherebbe per tutti una maggiore cura delle innumerevoli opere
d’arte che possediamo e di cui non abbiamo rispetto né contezza,
quali opportunità di lavoro procurerebbero a maestranze, artisti,
restauratori, imprenditori edili, il ripristino e la messa in
sicurezza di opere esposte agli accanimenti del tempo e della natura
e di quelle seppellite nei nostri scantinati che finora non hanno
visto la luce, una maggiore cura dei siti archeologici, una maggiore
promozione dell’immensa ricchezza che abbiamo e che dovrebbe farci
attestare al primo posto assoluto nel circuito turistico mondiale.
Questo disastro ci offre l’occasione di voltare pagina, e voltare
pagina significa correre in soccorso delle popolazioni disastrate con
un impegno più concreto delle solite parole al vento, ma significa
anche correre in soccorso di tutti i beni di interesse pubblico, fare
un censimento di essi, monitorarne le condizioni, restituirli allo
splendore che meritano, amarli e proteggerli avendo cura che non
vadano in pezzi al primo tremore della terra, aprire cantieri
pulsanti di vita. Sarebbe il modo migliore per soccorrere l’economia
collassata delle zone colpite dai terremoti in ogni angolo d’Italia
e per dare risposte ai tanti in cerca di lavoro, e sarebbe
soprattutto il modo migliore per onorare i nostri morti. Da qualche
parte ho letto che una operazione così massiccia non è fattibile
con le risorse finanziarie di cui dispone l’Italia e che essa può
essere resa possibile solo nell’ambito di una cooperazione europea
che dovrebbe contribuire in termini finanziari e chiudere un occhio
sul nostro debito pubblico. Da ogni angolo dell’Europa ci son
giunte attestazioni di solidarietà e belle parole, parole che ci
commuovono e aprono il cuore alla speranza ma che non devono restare
vuoti esercizi retorici, i nostri governanti facciano si che esse si
traducano in fatti, vadano a Bruxelles non col cappello in mano come
dei questuanti ma con la forza di un progetto credibile, sbattano i
pugni se necessario, ricordino che l’arte italiana è l’arte
dell’Europa e pretendano che essa si comporti da patria comune. L'Europa ci chiede di crescere, bene, il terremoto può essere l’occasione per sperimentare una sorta di terapia della crescita, ed è anche l'occasione per dimostrare che oltre a quella dei volontari esiste
un’altra Italia degna dei nostri morti.
venerdì 19 agosto 2016
Il politicamente scorretto
Il politicamente corretto imperversa
incurante della decenza e ci fa venire voglia di respirare l’aria
ruspante del politicamente scorretto il cui linguaggio rozzo fa
giustizia del fariseismo annidato nel linguaggio lindo e attento alla
forma che col suo conformismo linguistico sublima i problemi anziché
risolverli. Il politicamente corretto gioca molto spesso sul tavolo
truccato del doppiogiochismo combattendo a parole battaglie in difesa
dei diritti dei più deboli con lo stesso impegno con cui si accuccia
ai piedi dei più forti. Campioni come i nostri intellettuali radical
chic non hanno niente da spartire con l’umanità infelice che
fingono di difendere e mostrano di che pasta sono autenticamente
fatti quando dal buen retiro di Capalbio frignano perché il loro
eden è messo a rischio dall’arrivo dei migranti, o quando fanno
della signora Hillary Clinton la loro icona sorvolando sul fatto che
questa signora rappresenta Wall Street e la grande finanza, le grandi
multinazionali, la upper class americana, grossi interessi
corporativi e, nonostante ciò, con una faccia tosta degna di miglior
causa, ci dà a bere la panzana dei grandi ideali, della giustizia
sociale, dei diritti delle donne e degli omosessuali, del
multiculturalismo, dei diritti dei lavoratori, quegli stessi
lavoratori schiavizzati nei Paesi dove i colossi imprenditoriali
americani producono le loro merci. Il glorioso Partito Democratico
colpito e affondato nel nome dei soliti concretissimi interessi di
bottega mascherati da nobili ideali. Tutto all’insegna del
politicamente corretto! Sembra di vederli i nostri intellettuali
della sinistra mentre dall’alto dei loro privilegi tuonano contro
le disuguaglianze sociali andando a braccetto con chi queste
disuguaglianze produce e alimenta. Arroccati in circoli esclusivi e
club à la page, ci impongono la loro tirannia ideologica, ostentano
le stellette del potere con cui condizionano la vita del Paese,
demonizzano chiunque osi deviare dai canoni da loro imposti, guardano
con preoccupazione alle possibili contaminazioni del loro mondo,
tremano all’idea di rischiare di mescolarsi con gli ultimi, in
grisaglia e cachemire, col sopracciglio arcuato, osservano dall’alto
gli scarabei che razzolano nei loro escrementi e allo stesso tempo
salgono sul pulpito strepitando contro le disuguaglianze sociali e le
discriminazioni della cui perpetuazione sono i primi complici ma che
denunciano col cinismo di chi non si fa scrupolo di strumentalizzare
quegli escrementi per fertilizzare il proprio orticello. Si
indignano, si, ma un conto è concionare nobilmente dei diritti dei
cenciosi, un altro conto è averli in casa! Averli in casa significa
misurarsi concretamente con la disperazione, significa convivere con
le storie di ordinaria follia magistralmente descritte da Bukowski,
significa toccare con mano e condividere la miseria dei reietti ai
margini della società, scendere in mezzo a loro e maneggiare lo
schifo che la nostra opulenta società ha prodotto. E invece questi
signori dall’aria ispirata, schizzinosi e più o meno consapevoli
sacerdoti del pensiero unico, allevati a caviale e champagne, si
ritraggono schifati, hanno il terrore della miseria, strillano come
delle mammolette impazzite se appena il loro benessere è scalfito, e
in più ci rifilano l’insulto della loro spocchia morale e ideale,
senza provare alcuna vergogna!
venerdì 29 luglio 2016
Il terrorismo nostrano
In questa estate infuocata dal caldo e da eventi drammatici
che sembrano aver fatto smarrire la ragione alla razza umana, balbettiamo
incapaci di uno scatto di reni. E non parlo di rispondere alla violenza con la
violenza, ma di recuperare l’identità che abbiamo perduto quando abbiamo
dimenticato il nostro passato e tradito l’eredità che esso ci ha lasciato. Siamo diventati mercanti che hanno posto al
centro dell’universo la struttura economica e una sovrastruttura finanziaria per
la maggior parte corsara e priva di scrupoli, e hanno mandato in soffitta sia
il sogno liberale che quello marxista. L’uomo incapace di creare la società a
misura d’uomo, la società impazzita che crea androidi dall’aspetto umano, sono
la dimostrazione di questo fallimento. L’uomo non è più l’obiettivo della
società ma strumento di consumo che ha abdicato alla propria identità e dignità
e di cui si può fare strame senza inorridire. L’esposizione oscena dei cadaveri
a Nizza, Dacca, Monaco, in Siria, in America,
in Africa, sono il segno della perduta considerazione del valore della vita, di
uno smarrimento del senso d’umanità che è lo scellerato patrimonio di entrambi
i fronti, quello della barbarie terroristica e quello della cosiddetta società
civile. Quando ci lamentiamo perché il terrorista islamico non ha rispetto per
la vita umana dimentichiamo che di questa vita si è perduto il senso proprio in
quella parte del mondo che ha dato i natali alla centralità dell’uomo. Il
lungomare di Nizza affollato di bagnanti all’indomani della strage è, con la
sua mostruosa normalità quotidiana, la testimonianza del relativismo su cui
abbiamo edificato il nostro futuro, una deriva di cui abbiamo le prove ovunque, anche dove il
terrorismo islamico non è ancora giunto.
Un esempio è l’Italia, Paese non ancora colpito dal terrorismo (almeno per il momento) ma afflitto da una peste altrettanto
esiziale, la decadenza morale e ideale che ha fatto del Paese terra di confine
esposta alle scorrerie di consorterie che hanno preso in ostaggio le
istituzioni e cannibalizzato le classi più deboli, prima fra tutte la
cosiddetta middle class, con pericolose ripercussioni sulla tenuta della democrazia.
Da qualche tempo ho preso l’abitudine di ritornare a letture fatte in passato.
In questi giorni sto rileggendo La Pelle di Malaparte e sono rimasto
impressionato dall’attualità del libro. In alcune sue pagine si legge: “Quando
gli uomini lottano per vivere, tutto, anche un barattolo vuoto, una cicca, una
scorza d’arancia, una crosta di pan secco raccattata nelle immondizie, un osso
spolpato, tutto ha per loro un valore enorme decisivo. Gli uomini sono capaci
di qualunque vigliaccheria, per vivere : di tutte le infamie, di tutti i
delitti, per vivere,…..a prostituirsi, a inginocchiarsi,…..a leccare le scarpe
di chi può sfamarlo, a piegare la schiena sotto la frusta, ad asciugarsi
sorridendo la guancia sporca di sputo”. E’ un affresco spietato della Napoli
del dopoguerra che torna terribilmente attuale nei nostri giorni. Dopo
settant’anni riusciamo ancora a misurarci con la miseria d’allora. Ancora
assistiamo alla scena straziante del pensionato che rovista nell’immondizia e
dei disperati della notte che bivaccano sotto le stelle, ma soprattutto
assistiamo al collasso della nostra civiltà, alla perdita dell’eredità delle
due grandi rivoluzioni che hanno attraversato l’Occidente, la rivoluzione
cristiana e quella dei lumi, alla giustizia sommaria che dà in pasto alla plebe
tumultuante chiunque sia sfiorato dal sospetto, all’attività giudiziaria
strabica e schizofrenica dove il libero convincimento troppo spesso viene
abusato, alla tortura in carcere con fini predatori (istruttiva in proposito la
descrizione che ne fa Voltaire cui fa eco in un recente articolo la denuncia di
Dacia Maraini), allo spettacolo disgustoso dell’arrivista che vende l’anima al
padrone di turno, ai contorcimenti di spregiudicati arrampicatori disposti a
tutto per un posto al sole, all’assalto alla vita altrui con cui gli sciacalli
saziano la propria voracità, all’avidità del potere, assistiamo, appunto, alla
negazione della centralità dell’uomo. I tanti migranti che affollano le nostre
strade chiedendo l’elemosina, i tanti giovani cui è stato negato un futuro, i
nuovi poveri che scendono sempre più numerosi verso il degrado, gli zombie che
navigano in rete rinunciando a relazionarsi, i tweet demenziali, la
condivisione su Facebook dei momenti più insignificanti della nostra vita con
degli sconosciuti, il calo verticale delle letture, il bla bla rissoso e inconcludente
nei salotti televisivi, sono le diverse facce della stessa medaglia, la perdita
irreversibile di ciò che eravamo, lo sprofondare in quello che Umberto
Galimberti ha chiamato “l’ospite inquietante”, il nichilismo. Questa società liquida in cui può accadere di tutto, è
appannaggio non solo dell’Italia ma dell’intera Europa, ed entrambe, pur senza condividere
Il giustificazionismo di quanti pretendono di fare risalire alle colpe
dell’Occidente il fenomeno del terrorismo, hanno qualcosa da farsi perdonare.
Il mondo che hanno creato si è rivelato incapace di affrontare le sfide che
incombevano e di intuire i pericoli che si profilavano all’orizzonte, ma si è rivelato
soprattutto incapace di generare uomini all’altezza del compito loro assegnato
dalla Storia, diventando al contrario terreno di coltura dei mostri che si sono
annidati come un virus infetto nel nostro organismo, quinte colonne del
terrorismo non arruolate dall’Isis ma che ad essa si ispirano trovando nella
comune farneticazione religiosa l’innesco alla loro frustrazione. Quando ci
indigniamo per le nefande imprese del terrorismo islamico, dobbiamo avere
l’onestà di indignarci per la nostra inadeguatezza e per la nostra mancanza di
ancoraggi ideali che è anch’essa una forma di destabilizzazione.
lunedì 11 luglio 2016
Don Abbondio
L’inossidabile Totò Cuffaro si è
materializzato sulla scena di Palazzo dei Normanni per turbare i
sonni del Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana. Dal
recinto dei reietti l’ex Presidente della Regione si è fatto vivo
e ha chiesto di utilizzare la Sala Mattarella per un convegno sul
tema “Universo carceri”. La richiesta, innocente in sé ma
viziata dalla fonte di provenienza, deve aver gettato nel panico
l’on. Ardizzone e la decisione, immediata e meccanica, è scattata
come una sorta di reazione pavloviana, niente Sala Mattarella per la
nobile ragione che non è opportuno ospitare un condannato per
favoreggiamento alla mafia nella sala intestata ad una vittima della
mafia. Sennonché la motivazione ufficiale non ha convinto tutti, a
qualcuno è venuto in mente il sospetto che non siano stati motivi di
opportunità morale ad avere dettato la decisione ma che Don Abbondio
abbia avuto la meglio e che lo “scantazzo” più che le nobili
ragioni abbia indotto l’on. Ardizzone ad una scelta prudente. I due
in passato hanno convissuto sotto lo stesso tetto politico e in
parecchi malignano che l’on. Ardizzone, negando il permesso alla
richiesta di Cuffaro, abbia voluto rimuovere quel passato. Se è così
pazienza, il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare, però,
c’è un però. Per quanto ingombrante sia Cuffaro, per quanto egli
possa essere considerato un furbo di tre cotte, per quanto sia reale
il rischio di veleni, in ballo non ci sono Cuffaro e i misteriosi
disegni che gli si vogliono attribuire bensì i diritti di gente che
soffre, nei confronti dei quali le Istituzioni debbono avere la
massima considerazione, a dispetto di cautele pelose. Va bene, anzi
va male, che, secondo i canoni cari ai forcaioli in servizio perenne,
gente come Cuffaro deve essere confinata in una riserva affinché non
inquini il mondo dei virtuosi, ma i diritti dei detenuti debbono
essere per questo motivo esiliati dalle stanze delle Istituzioni
tanto care all’on. Ardizzone? Non è proprio la Costituzione
italiana che, all’articolo 27, parla di pene non contrarie al senso
d’umanità e di rieducazione del condannato, e dunque non
dovrebbero essere proprio, anzi per prime, le Istituzioni a
promuovere questo obiettivo e offrire ospitalità a chi mostra di
volersi attivare in questa direzione? Qualcuno sospetta che questo
non sia il caso di Cuffaro, ma i diritti dei detenuti non valgono un
impegno delle Istituzioni al di là di qualsiasi sospetto o meglio di
qualsiasi pregiudizio nei confronti di Cuffaro? Il dibattito sulle
condizione di vita in carcere non ha forse diritto ad una degna
cornice quale è la prestigiosa Sala Mattarella? Non stiamo parlando
di mafia, stiamo parlando di gente che soffre e la statura di
Piersanti Mattarella non merita di essere tirata in ballo per fornire
alibi a risposte tartufesche che oltretutto fanno nascere dei
sospetti. Uno è che non conviene dare opportunità a coloro che
hanno sbagliato quando invece è più comodo metterli al sicuro in un
bel serraglio e non correre rischi. Il serraglio dei detenuti in
carcere è stato individuato nel regime del 41 bis, quello di chi dal
carcere è uscito ma continua a rimanere detenuto secondo quanto
affermato da Hugo e richiamato da Cuffaro, è l’emarginazione.
sabato 9 luglio 2016
Il caso Capua
In un articolo apparso sul Corriere
della Sera Paolo Mieli lamenta la scarsa considerazione che l’Italia
ha per la scienza. “Ne è prova”, si legge nell’articolo,
“l’incredibile vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per
prima isolò il virus dell’aviaria e che di punto in bianco nel
2014 fu accusata di aver fatto ignobile commercio delle sue scoperte
al fine, si legge nell’atto d’accusa, di commettere una pluralità
indeterminata di delitti….” Nell’articolo è riportato un
elenco impressionante dei delitti contestati che, declinati col
solito stile sinistro utilizzato dall’accusa, sembravano non
lasciare scampo alla signora Capua, rimasta peraltro per tutto il
periodo delle indagini, due lunghi anni, sospesa in una specie di
limbo, col cuore in gola in attesa dell’esito, senza essere
interrogata e senza essere messa nelle condizioni di difendersi. Fa
bene dunque Mieli a denunciare la barbarie di un silenzio che ha
angosciato la nostra scienziata più delle accuse. Fa male quando
lamenta la scarsa considerazione che l’Italia ha per la scienza
solo perché una scienziata è stata al centro di una vicenda
giudiziaria incivile . La vicenda è incivile ma che c’entra la
scienza? Ad essere vittima di questa vicenda non è la signora
Capua in quanto scienziata ma la signora Capua in quanto cittadina di
un Paese in cui tutti, scienziati e non, hanno uguali diritti di
fronte alla legge. La giustizia non può avere riguardo per lo stato
sociale ma per lo stato giuridico del cittadino, si chiami esso Capua
o Carneade. E d’altronde lo stesso Mieli, in chiusura
dell’articolo, si fa venire un dubbio: “Sorge in noi il dubbio
che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a Ilaria Capua solo
perché la conosciamo, appunto, per essere lei una scienziata di fama
internazionale. E che ci siano chissà quante persone che hanno
vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua senza che
nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro.”.
Ecco, appunto, succede nel mondo dei comuni mortali che non hanno la
notorietà della signora Capua di incappare in vicende che si avviano
verso l’esito scontato senza che nessun Mieli levi una voce di
protesta. Succede molto più spesso di quanto non si pensi. Ci sono
infiniti casi, sono la quasi totalità, di indagati che, non solo non
vengono interrogati, ma vengono rinviati a giudizio senza che sia
data alcuna motivazione di tale decisione. Perché bisogna sapere che
la legge funziona così: il GUP, in caso di rinvio a giudizio, non ha
l’obbligo di motivare la sua decisione e se ne astiene quasi
sempre, in caso di proscioglimento invece deve motivare la decisione
e quindi deve leggersi le carte, studiare, farsi una idea, troppo
faticoso. Meglio lavarsene le mani e passare la palla ai colleghi che
celebreranno il processo. In definitiva si tratta solo di vite umane
date in pasto a lunghi anni di calvario giudiziario e di soldi
sperperati in dibattiti che si potrebbero evitare, cosa volete che
sia.
giovedì 7 luglio 2016
La vanità intellettuale
Leggendo un brano dell’intervento
sulla vanità in cui Claudio Magris, ospite alla Milanesiana,
distingue tra la vanitas che guarda con pessimismo alla caducità
umana e la vacuità pretenziosa di chi si compiace di sé, ho
maturato ancora di più la convinzione che la vacuità è uno dei
tratti identitari di certi intellettuali di oggi, esemplari
prosopopeici di una fauna che si arroga il monopolio di pensare e il
diritto di stabilire ciò che è giusto o no “usando il marchio
dell’infamia ideologica”(Galli della Loggia). Ad essi è concesso
tutto. E’ concesso per esempio a Bernard-Henri Levy di liquidare
con epiteti spregiativi quanti hanno votato a favore della Brexit,
infischiandosi del fatto che questa scelta, anche se può non essere
condivisibile, è tuttavia la scelta del 52% degli inglesi. I signori
inglesi sono serviti, adesso sanno che essi sono in maggioranza
“volgari”, “incompetenti”, “ignoranti”, “cretini”,
mentre invece sono dei geni quelli come il signor Levy che con la
loro spocchia hanno allargato il fossato con una opinione pubblica
ormai stanca, che si è ribellata al proprio destino di agnello
sacrificale e ha deciso di ricorrere agli strumenti “rozzi” che
le suggerisce la pancia, la sola ragione di cui dispone contro
l’emarginazione decretata dal colonialismo degli ottimati. La
supponenza e la presunzione sono le costanti ricorrenti presso gli
intellettualoidi sotto tutte le latitudini e lasciano sul terreno le
macerie di crociate improbabili che hanno come unico obiettivo quello
di lustrare il blasone di carriere altrimenti impensabili. Nelle
nostre contrade imperversano gli aspiranti intellettuali che hanno
preso in prestito la croce di Adenauer e hanno stilato nelle colonne
di destra e di sinistra l’elenco di ciò che è degno o indegno
secondo categorie morali che hanno sancito stabilendo capisaldi dai
quali non si può derogare. Non si può derogare per esempio dal
dogma che la costituzione italiana è la più bella del mondo ed è
immodificabile, non si può derogare dall’assioma che a destra
milita tutto il becero e a sinistra fanno bella mostra di sé le
stimmate delle magnifiche sorti e progressive della nostra bella
Italia, non si può derogare dall’impostura che la nostra
Repubblica nasce dalla sola matrice stabilita dai vincenti, che la
magistratura è l’unica depositaria della verità decretata in
splendido, insindacabile isolamento, senza il contrappeso di
controlli esercitati da poteri fuori da essa. E’ accettato a cuor
leggero che l’epopea antimafiosa venga scippata ai suoi eroi e ai
suoi martiri e agitata come un frustro vessillo dai soliti furbi
travestiti da integerrimi sacerdoti, sepolcri imbiancati che
profanano il tempio. Persino Sciascia ha dovuto fare i conti con
questi pennivendoli che hanno narrato la realtà che conveniva loro e
gli hanno rinfacciato l’assenza di forzature ideologiche,
disconoscendo il valore di una ricerca rigorosa che si è sforzata di
capire e ha raccontato una realtà autentica attraverso pennellate
asciutte e oneste senza con ciò indulgere ad alcun cedimento morale.
A Sciascia si contrappone un pot-pourri culturale che, attraverso un
manicheismo di convenienza, falsifica la realtà e indirizza la
verità a suo piacimento alimentando artificiosamente le paure,
titillando i pruriti forcaioli della brava gente e facendone uno
strumento di potere. Ho letto recentemente un libro strano al quale i
soliti sospettosi censori hanno riservato un vero e proprio
ostracismo. Disorientati dal contesto, se ne sono tenuti alla larga
non cogliendo il significato di una narrazione che con pennellate
ironiche si sforza di fare emergere i limiti del mondo mafioso
attraverso la caricatura dei suoi personaggi impietosamente ridicoli.
Un libro simile è un contributo di gran lunga più efficace dei
tanti proclami farlocchi di cui si nutrono gli antimafiosi di
professione.
lunedì 27 giugno 2016
La vendetta del popolo bue
Il capitalismo ingordo che ha
dimenticato la sua vocazione di motore produttivo e ha fatto della
finanza uno strumento di speculazione selvaggia allargando sempre più
la forbice tra ricchezza e povertà, si è visto presentare il conto
dalla democrazia che qualche volta si incazza e se la prende con
tutti, ricchi, poveri, senza tanti complimenti. Churchill soleva dire
che la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per
tutte le altre forme che si sono sperimentate finora. Il problema è
che Churchill ha conosciuto una democrazia che oggi non ha patria.
Oggi alla democrazia storicamente intesa si è sostituita una
oclocrazia che si oppone alla plutocrazia in una gara a chi perde in
misura maggiore la ragione e in particolare la ragione etica. Uno
spaccato plastico di questo conflitto si è avuto in Gran Bretagna
tra i sostenitori del leave e quello del remain. La Gran Bretagna che
ruota attorno alla City e gestisce la maggior parte dei mercati
valutari del mondo aveva tutto l’interesse di rimanere nella Ue,
perché solo restando ancorata al sistema dell’euro, avrebbe potuto
mantenere il suo predominio finanziario. Il 2008 e l’anno
terribile, il 2011, con i loro rintocchi sinistri hanno messo in
allarme i mercati finanziari fino a quando la brexit è stata data in
vantaggio. Incertezza dei mercati, incapacità delle banche di
finanziarsi sono tutte voci di un bilancio che dal 2008 in poi ha
lasciato parecchie vittime sul terreno e che rischiava di ripetersi.
Quando gli exit polls hanno cominciato a dare vincente il fronte del
remain e hanno confermato questo trend fino a pochi minuti prima
della chiusura delle urne, i grandi gestori, i soli che si sono
potuti permettere la lettura di questi costosi dati, hanno rialzato
la cresta e hanno agito sul mercato delle valute secondo i loro
interessi. L’esito delle urne li ha puniti e assieme a loro ha
punito tutto il resto. Le borse a livello planetario hanno subito un
crollo, lo spread italiano è aumentato, e si può esser certi che ci
saranno altre conseguenze di cui al momento non siamo in grado di
valutare la portata e che investiranno non solo la Gran Bretagna ma
l’intera Europa. La brexit è piombata sul mondo occidentale come
una sorta di ordalia che può essere la pietra tombale dell’Europa.
Il popolo, spinto sempre più ai margini della società, ha mandato
in soffitta la ragione e si è affidato all’istinto primordiale, si
è riconosciuto nel populismo che agita il fantasma dei nemici alle
porte, ha bocciato la logica dell’inflessibilità che privilegia il
rigore dei conti piuttosto che i conti in tasca della gente e si è
rivoltato contro chi attenta ai suoi bisogni primari. E’ accaduto
in Gran Bretagna, accadrà, emuli gli altri Paesi, nel resto
d’Europa. Ma non hanno motivo di gioire quelli che l’hanno
favorita né di temere quelli che l’hanno avversata, è una rivolta
destinata al fallimento, per dirla con Shakespeare, tanto rumore per
nulla. Si può esser certi che, nell’ambito delle trattative tra
Europa e Gran Bretagna che accompagneranno quest’ultima fuori dalla
Ue, le lobby finanziarie troveranno il modo di mettersi d’accordo
lasciando col cerino in mano il qualunquismo inconcludente di quanti
strillano contro il potere della grande finanza. L’Europa ha
fallito la sua missione e perduto la sua anima liberale, come un
novello Crono ha divorato i suoi figli.
sabato 4 giugno 2016
La festa della Repubblica
Abbiamo festeggiato i 70 anni della
Repubblica e tanto per cambiare non ci siamo fatti mancare la solita
sbornia di luoghi comuni. Fra essi la vulgata politicamente corretta
e universalmente accettata secondo cui i politici della prima
repubblica sono stati dei giganti ai quali va il merito delle nostre
magnifiche sorti e progressive. Nessuno può negare che i
protagonisti della prima stagione repubblicana sono stati i
progenitori di importanti riforme che hanno modificato
definitivamente la società italiana proiettandola in un futuro al
passo con il resto del mondo, la riforma agraria, per esempio, che
eliminò i latifondi, la scuola media unica, il servizio sanitario
nazionale, l’accesso delle donne alla magistratura, ma non è il
caso di parlare di giganti ignorando errori che non possono essere
perdonati e dimenticando che questi giganti hanno reso l’Italia
quella che è, un Paese in cui il presente versa in condizioni
drammatiche e il futuro è un punto interrogativo senza tante
speranze. Tutto parte da allora, dagli anni in cui i nostri giganti,
ispirati, nel migliore dei casi, da velleitarie ideologie keinesiane
e dall’utopia demenziale di una economia pilotata, in cui tutto,
specie quello che non si può, è dovuto, hanno sperperato il mitico
miracolo economico frutto dello sforzo di un popolo che liberò le
sue energie migliori. Hanno varato un welfare che non ci potevamo
permettere saccheggiando risorse che non avevamo, hanno vestito lo
Stato dei panni dell’imprenditore, lo hanno fatto indebitare e
hanno fottuto il futuro dei nostri figli. E già che c’erano,
all’ombra di un consociativismo sottobanco che di fatto azzerava la
dialettica politica e dunque la democrazia, si sono spartiti ciò che
restava. Solo vent’anni fa, quando il danno era ormai fatto, lo
Stato allentò la sua presa sull’economia liquidando l’IRI,
settima al mondo per fatturato e prima per perdite. Ma è stata solo
una goccia in un mare che ha continuato ad essere tragicamente
pubblico e in cui squali e boiardi, tutti assieme appassionatamente,
hanno pescato e continuano a pescare di frodo accelerando il disastro
che è sotto gli occhi di tutti. Siamo prigionieri di un debito che
impedisce nuovi investimenti e il riavvio della ripresa, con la
conseguenza di una povertà sempre più diffusa e una forbice sempre
più larga tra eccessivamente ricchi ed eccessivamente poveri. Basta
allungare lo sguardo nelle periferie disastrate delle nostre città
per assistere al dramma dei nostri figli, 1 milione di minori, che
vivono in povertà assoluta scendendo sempre più in basso verso il
degrado morale e sociale. Mancano di cibo, di vestiti, di giochi, di
vacanze, abbandonano anzitempo la scuola, sono destinati a cadere
nella rete della criminalità. Ed è sotto gli occhi di tutti il
dramma dei nuovi poveri che ogni anno sempre più numerosi, oggi sono
5 milioni, rovinano sotto la soglia della sopravvivenza e sono
costretti a dormire avendo come tetto le stelle e ad accomodarsi
presso la Caritas per un pasto. Per avere un’idea di questa realtà
prego accomodarsi al seguito delle associazioni di volontariato
impegnate nelle ronde notturne negli angoli più bui delle nostre
città alla ricerca di anime perdute. Per non parlare dei nostri
giovani che si piazzano al terzultimo posto nella classifica dei
disoccupati in Europa, appena davanti a Slovacchia e Grecia, e sono
afflitti da una tendenza sempre maggiore all’inattività, frutto
della mancanza di prospettive e della rassegnazione. Non cercano più
un lavoro perché hanno esaurito infruttuosamente tutti i tentativi,
vivacchiano grazie al welfare familiare, sono la testimonianza di una
resa che chiama in causa responsabilità antiche e recenti.
Diciamolo, c’è poco da festeggiare e il senso della misura
dovrebbe suggerire al nostro premier di evitare i toni trionfalistici
con cui ci rifila la favola di un’Italia avviata verso un futuro
migliore (forse si riferisce all’Italia dei parlamentari e dei
commis di Stato che ricevono gli stipendi e i vitalizi più alti
d’Europa), quando invece è noto a tutti che siamo avvitati in un
triplo salto mortale senza rete che rischia di farci precipitare
nelle stesse condizioni della Grecia. Con la produttività cresciuta
dal 2000 ad oggi di appena l’1% contro il 17% medio degli altri
partners europeo e con la prospettiva che questo trend non muti, dove
vogliamo arrivare? Ma non finisce qui. C’è poi l’ipocrisia del
rischio millantato piuttosto che reale. Anche lì tentano di darcela
a bere. L’antimafia di facciata ci fornisce continuamente esempi di
facce toste impegnate a lucrare credibilità, prebende, carriere e
scorte, lasciando credere che la loro vita è a rischio solo perché
hanno cercato una visibilità strumentale senza dare un autentico
contributo alla lotta contro la mafia. I rischi in verità li corrono
solo i cittadini costretti a sobbarcarsi i costi di eroi di cartone
che hanno fiutato l’eldorado. Enfatizziamo i pericoli della
criminalità organizzata (che, sia chiaro, non devono essere
sottovalutati) e fingiamo di ignorare che i maggiori pericoli nascono
da una classe politica inetta e corrotta che soddisfa appetiti
clientelari e gli interessi affaristici dei gruppi di riferimento
senza peraltro, in contropartita ad un costo così elevato, riuscire
a far funzionare in maniera accettabile la macchina dello Stato,
nascono da poteri forti che menano la danza e sono dietro ai più
inquietanti misteri mai risolti, collusi, essi si, con la mafia o
con quello che di essa è rimasto, una tragica parodia di se stessa
che si è illusa di fare il salto di qualità e si è votata alla
disfatta prestandosi a fungere da utile idiota al servizio di disegni
di cui non aveva consapevolezza, nascono dai privilegi delle caste
che erodono le risorse della collettività, da un fisco vorace e
ingiusto, da lobby che imperversano indirizzando le leggi verso gli
interessi che hanno in cura, dalla progressiva polverizzazione della
media borghesia e con essa della spina dorsale del tessuto sociale,
dalla rinuncia della gente ad amare il proprio Paese. E’ l’epica
cialtrona di un popolo che non ha più ideali né speranze, è lo
spaccato di un Paese che inganna continuamente se stesso millantando
virtù che non possiede, che mette in scena festeggiamenti solenni
nell’anniversario della nascita della Repubblica che amiamo ma che
abbiamo tradita mancando l’impegno contratto con essa, ed esibisce
tra le fila delle autorità in parata, in occasione del 2 giugno,
sepolcri imbiancati che fanno pernacchie ad un popolo che non
rappresentano.
venerdì 20 maggio 2016
La morte di Pannella
E’ morto Pannella e si può ben dire
che siamo tutti in lutto, perché Pannella ha rappresentato anche
quelli che dissentivano da lui. I successi delle sue battaglie
infatti, anche quelle non condivise dai suoi avversari, sono
diventati patrimonio di tutti, e tutti perdonavano i suoi eccessi
riconoscendo l’onestà delle sue battaglie, l’incorruttibilità
dell’utopia dettata dall’amore per ideali estremi difesi persino
con le provocazioni più sfrontate. In nome dei suoi ideali e
contravvenendo alle logiche degli schieramenti scontati, è stato
capace di allearsi sia con Berlusconi, sia con Prodi. Io
personalmente porto la testimonianza di un mondo al quale fino a
qualche tempo fa ho appartenuto e di cui ancora oggi mi sento
idealmente parte, il mondo delle carceri dove, quando maggiormente si
avverte la sofferenza della detenzione, è a Pannella e ai suoi
scudieri che i detenuti pensano, a Rita Bernardini, a Emma Bonino, ad
Adele Faccio, ad Adelaide Aglietta, protagoniste di battaglie per una
giustizia giusta. Ricordo la gratitudine e l’ammirazione che
leggevo negli occhi dei miei compagni quando parlavano del Pannella
capace di accettare l’iscrizione al Partito Radicale di Giuseppe
Piromalli per protesta contro il regime del carcere duro ai mafiosi,
di candidare e fare eleggere in Parlamento Enzo Tortora ingiustamente
condannato per mafia e spaccio di droga, di essere in prima fila
contro gli abusi della carcerazione preventiva, del 41 bis e
dell’ergastolo. Ricordo che egli era sentito uno dei nostri, come
una sorta di santo laico che non se la tirava e non temeva di
mischiarsi con un mondo disprezzato dai più, e sono certo che,
venuto a mancare lui, è negli eredi che hanno raccolto il suo
testimone che i detenuti ripongono le loro speranze. Potrei dire del
coraggio delle sue scelte, potrei elencare una lista interminabile
delle sue battaglie civili, la battaglia contro la pena di morte, per
l’approvazione della legge sull’aborto e sul divorzio, per il
diritto di eutanasia, potrei lodare la sua onestà nel fare ammenda
degli errori che commetteva quando si faceva trascinare dall’irruenza
delle sue crociate, a volte prendendo di mira degli innocenti, ma
avendo il coraggio di chiedere scusa pubblicamente come ha fatto con
il Presidente Leone inviandogli una lettera in cui riconosceva di
averlo accusato ingiustamente, potrei declinare la mia ammirazione
perché ha osato quello che tanti di noi non hanno osato mettendosi
in gioco fino alle estreme conseguenze, per il personaggio visionario
che è stato, per avere tentato di riscattare la dignità degli
emarginati, per non avere avuto peli sulla lingua nella denuncia
delle impunità delle caste. Ci sono mille motivi per tessere le sue
lodi ma è meglio lasciar perdere, non si sa mai col suo carattere,
meglio limitarsi ad un semplice : grazie Marco.
martedì 10 maggio 2016
Il valore delle regole
Succede che nel mondo
dell’intransigenza morale le regole molto spesso vengano sospese e
venga stabilito cosa è giusto o ingiusto a seconda dei criteri
dettati dal monopolio dell’etica. E’ ispirandosi a questa logica
che appare giusto gettare gli inquisiti in pasto alla macelleria
mediatica se appena trapela la notizia di un avviso di garanzia e
trasformare quello che dovrebbe essere un elemento a tutela del
cittadino in uno strumento di tortura. L’avvocato Ingroia ha
puntato il dito contro la “crocifissione mediatica” subita dal
suo assistito Maniaci a seguito delle “rivelazioni di segreto
d’ufficio”, quella stessa crocifissione che gli inquisiti
subivano quando il magistrato Ingroia svolgeva la funzione di
procuratore aggiunto presso la Procura del Tribunale di Palermo e gli
spifferi sui segreti d’ufficio erano una consuetudine anche allora.
Accogliamo con soddisfazione la distinzione che egli fa tra
l’aspetto giuridico e quello etico delle condotte del suo
assistito, producendosi in una netta inversione di tendenza rispetto
alle sue precedenti convinzioni declinate quando sosteneva il primato
dell’etica rispetto al diritto. E’ vero, un conto è l’etica,
un conto sono le responsabilità penali e l’etica disinvolta del
signor Maniaci, poiché non travalica nell’illecito, non merita di
essere sanzionata penalmente, ma merita, eccome, di essere censurata
alla luce di ciò che trapela dalla intercettazioni. Secondo quanto
riportato dalla stampa infatti, egli considerava il suo impegno
antimafioso una specie di bancomat con cui acquisire prestigio
pregustando i vantaggi che gliene sarebbero derivati (“mi danno la
scorta, sono una potenza”), irrideva i protagonisti
dell’antimafia onesta e i servitori dello Stato trattando da
allocchi coloro che credevano in lui e con lui solidarizzavano, fino
al punto da definire str….il Presidente del Consiglio, spacciava
per intimidazioni mafiose episodi delittuosi maturati nel contesto di
uno squallido conflitto pecoreccio, insomma si cuciva addosso panni
troppo larghi taroccando il suo impegno di icona antimafia per
finalità strumentali. Il signor Maniaci ha tentato di farcela
credere, urlando la sua intransigenza farlocca nella quale ha finito
per restare impigliato egli stesso. Adesso è arrivato il suo turno
di finire sulla graticola, la sua testa di tribuno antimafia sta
rotolando nella polvere e sul piano penale sta pagando un conto che,
bisogna dirlo, non merita, mascariato com’è dal suo indebito
inserimento nello stesso provvedimento che ha portato all’arresto
di nove mafiosi. Accusato di avere estorto pochi miserabili euro,
subisce la legge del contrappasso, vittima della corsa a chi è più
intollerante alla quale egli stesso ha partecipato. L’avvocato
Ingroia a sua volta atterra tra i comuni mortali e si ritrova
intruppato tra quanti combattono ogni giorno la dura battaglia per
far valere uno straccio di diritto, piuttosto che impegnato, come
faceva un tempo, in crociate moralistiche che “fanno precipitare le
società nel dispotismo etico” (Luciano Violante). Scopriamo un
Ingroia nell’inedita veste di garantista che non le manda a dire ai
suoi ex colleghi. Meglio tardi che mai, solo che il nostro si
accorgerà presto che nelle sue nuove vesti non avrà vita facile,
saprà quanto costa promuovere il rispetto delle regole, se vorrà,
potrà assaporare il gusto della buona battaglia in nome dell’etica
dei principi piuttosto che dei privilegi e magari, chi lo sa, ci
risparmierà i toni di chi cade dal pero, scandalizzato per il
giustizialismo con il quale adesso è lui come avvocato a dover fare
i conti e che era nelle sue corde in un’altra stagione, quando i
conti dovevano farli gli altri .
venerdì 29 aprile 2016
Voglia di giustizia
In questi giorni sui giornali è
apparsa la notizia di una indagine per estorsione che sarebbe in
corso nei confronti di Pino Maniaci direttore dell’emittente
televisiva Telejato, protagonista di tante inchieste e denunce specie
contro la mafia. La reazione di Maniaci non si è fatta attendere.
Egli infatti è andato all’attacco sostenendo senza tante perifrasi
che l’indagine nei suoi confronti è una ritorsione della Procura
per avere egli osato attaccare un santuario della magistratura,
allorché ha scoperchiato la pentola dei presunti illeciti nella
gestione dei beni confiscati da parte dei giudici della sezione
misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Maniaci che in
passato non ha avuto dubbi sulla correttezza dell’operato dei
giudici quando l’obiettivo erano altri, non ha parimenti dubbi
sulla faziosità degli stessi adesso che l’obiettivo è lui. A sua
volta Maniaci è stato bacchettato da coloro che, non avendo anche
essi dubbi, gli hanno ricordato che la fiducia nel lavoro dei
magistrati e nella magistratura non deve mai essere messa in
discussione. Io che invece sono pieno di dubbi, qualche pensiero me
lo faccio, sia sul dogma dell’infallibilità della magistratura che
sulla buona fede di tanti manettari. Quando si parla di magistratura
non si può negare il suo ruolo di baluardo in difesa della società
purché essa abbia come unica bussola l’applicazione della legge.
La magistratura è una istituzione insostituibile e la sua
indipendenza è sacrosanta come la presunzione della sua onestà. I
dubbi sorgono quando alcuni magistrati scambiano la severità per
intolleranza e le categorie della legge per categorie morali e
trasformano lo spirito di servizio in arroganza con cui invece di
servire la legge, la inventano promuovendo crociate che pretendono di
redimere la società. Si seggono sul pulpito e ci impartiscono
lezioni di superiorità morale mettendo all’indice gli indagati
prima ancora di pronunciarsi sulla loro colpevolezza in un’aula di
tribunale. La sortita del dottore Davigo contro i politici definiti
ladroni per antonomasia che per giunta non si vergognano, è un
esempio fra i tanti. Questo accade perché purtroppo il nostro non è
un Paese normale. Non è normale infatti un Paese incapace di
produrre, nella maggior parte dei casi, autentici servitori dello
Stato, paladini solitari e sobri della legge, ma capacissimo di
produrre uomini che equivocano sul ruolo del potere al quale
appartengono e lo trasformano in casta. Che cosa è infatti se non
casta un potere che, godendo di una assoluta indipendenza rispetto ad
altri poteri e avendo l’obbligo morale di autogestire questa
indipendenza con una severità nei confronti di se stesso maggiore di
quella usata nei confronti di altri, si comporta da organismo al di
sopra della legge? Hanno forse pagato i giudici che perseguitarono
ingiustamente e disonestamente Enzo Tortora? No, anzi sono stati
promossi? E il carcere preventivo tanto abusato nei confronti dei
comuni mortali, perché non è inflitto con lo stesso zelo a quei
giudici su cui gravano gravi indizi di colpevolezza? Di che cosa si
lamenta Maniaci e di che cosa si lamenteranno domani altri cronisti
giudiziari che vanno a nozze con i teoremi dell’accusa, quando sarà
il loro turno di finire nella macelleria delle colpe sospette e non
provate ma date ugualmente per certe? Quanti sono i galantuomini, tra
i giornalisti che sbattono il mostro in prima pagina, capaci di
chiedere scusa ai mostri innocenti come fecero Pannella e Bonino
quando inviarono al Presidente Leone una lettera rammaricandosi per
averlo accusato ingiustamente di essere implicato nell’affare
Lockheed? Lo Stato di diritto può essere una parola vuota se non è
tutelato dalla coscienza onesta di quanti hanno un ruolo pubblico,
siano essi magistrati e giornalisti, ma anche dei cittadini comuni
che dovrebbero evitare di inveire contro il presunto reo alla stregua
delle popolane che tumultuavano ai piedi della ghigliottina all’epoca
della rivoluzione francese.
sabato 16 aprile 2016
Il referendum sulle trivelle
Il referendum sulle trivelle di domani
ha acceso un dibattito, non tanto sul merito, quanto sulla
legittimità di astenersi o meno dal voto. La Costituzione
all’articolo 48 recita che votare è un dovere civico e il
presidente della Consulta, forte del dettato costituzionale, sostiene
che votare esprime la pienezza della cittadinanza. Chi si schiera per
la partecipazione al voto arriva ad affermare che l’astensione è
una deriva ingannevole e sleale perché sabota il referendum sommando
gli indifferenti ai contrari, mentre chi vota resta solo col suo si:
un espediente bello e buono (Ainis ). Altri ( Panebianco ) sostengono
che l’astensione è una espressione legittima quanto quella di
votare perché, se è previsto il raggiungimento del quorum come
condizione perché passi il referendum, significa che l’astensione
non è un espediente ma un diritto previsto come il si e il no. Se
parliamo del merito, tutte le posizioni sono rispettabili ma pare che
questo dibattito sul referendum più che parlare di merito si sposti
sul piano dell’etica, visto che parecchi sostenitori del si,
invece di spiegarci la bontà delle loro ragioni, denunciano la
mancanza di senso civico degli astensionisti. Naturalmente sorvolano
sull’espediente al quale ricorrono anche essi quando, issando la
bandiera del senso civico, si disinteressano del quesito e utilizzano
il referendum quale strumento di lotta contro il governo, in questo,
bisogna dirlo, incoraggiati dalle esternazioni di Renzi. Su cosa i
signori del si fondano la presunzione dell’ etica del voto, lo
abbiamo visto. La fondano sul dettato costituzionale che parla di
dovere civico. Ma la nostra Costituzione, anche se è “la più
bella del mondo”, è emendabile e l’articolo 48 lo è ancora di
più, perché non è accettabile che un sacrosanto diritto al voto,
che ciascuno può esercitare o no senza alcuna implicazione di
carattere morale, venga spacciato per un dovere che ricorda tanto
l’obbligo al voto imposto nei Paesi dove, guarda caso, l’affluenza
al voto è del 100%.
martedì 12 aprile 2016
Romanzi imbarazzanti
Non sono solito leggere “la
Repubblica” e dunque intervengo solo adesso su una notizia che ho
appreso in ritardo. Ho appreso cioè che su “la Repubblica” di
domenica 10 aprile è apparso un servizio con tanto di foto del
sottoscritto, a proposito dell’ospitalità concessa dalla Fonderia
Oretea alla presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”.
L’articolo è calato nell’ambito della vicenda che ha visto Salvo
Riina ospite di Bruno Vespa su “Porta a porta” e fa un
accostamento tra le due ospitate assolutamente infelice. Quale è
infatti l’attinenza tra la presentazione del mio libro e
l’intervista a Riina? Questi nell’intervista ha fatto
dichiarazioni che palesano una chiara forma di assoggettamento ai
disvalori mafiosi disponendo di una platea di dimensioni nazionali
che ne ha dilatato l’eco. Per inciso sono convinto che il solo a
uscire con le ossa rotte dall’intervista è stato proprio il signor
Riina messo in ridicolo dalle sue stesse improbabili dichiarazioni e
subissato da una valanga di critiche feroci. La società, grazie a
Dio, possiede gli anticorpi necessari a isolare certi virus e il
signor Riina è rimasto solo, terribilmente solo tra le macerie del
suo mondo sconfitto. Ma, tornando al punto, io che c’entro con
tutto questo, quale è l’accostamento? Non c’è confronto con la
modesta dimensione della platea in cui si è svolta la presentazione
del mio romanzo e, cosa fondamentale, alla Fonderia Oretea non si è
colta l’occasione per esprimere condivisioni mafiose. Peraltro la
Fonderia è una struttura che il Comune mette a disposizione per
eventi culturali e artistici e il mio romanzo ha le carte in regola
per accedere al diritto di usufruire di quella struttura. E’ stato
scritto, è vero, da un condannato per mafia, ma chi lo ha letto sa
che il romanzo ha un suo valore letterario che non può offrirsi a
nessun equivoco, non fa l’apologia della mafia, anzi, contiene un
messaggio che parla di un percorso di riscatto rispetto al mondo
mafioso e, in occasione della presentazione, non è stato utilizzato
per messaggi criptici o per flirtare con la mafia. Alla Fonderia si è
parlato solo di lettere, di sofferenza, di dolore e di lacrime.
Bisognerebbe leggere il libro, solo che se ne fa a meno e si va per
le spicce, utilizzando la scorciatoia che nega a un condannato per
mafia il diritto di pensare, anche se pensa cose positive, e di
guadagnarsi lo spazio in cui esprimere quello che pensa, perché ad
un condannato per mafia nulla è dovuto, tranne il disprezzo. Il
merito non conta, non vale la pena di fare una valutazione intrinseca
del valore del libro, meglio circondarlo col silenzio riservato ai
reprobi, come nei fatti è puntualmente accaduto, salvo tirarlo fuori
dal cilindro quando serve per sparare a zero contro lo sfrontato che
si permette di sfidare l’opinione pubblica con la pretesa di alzare
la testa. Meglio andare sul sicuro e ribadire ciò che è
politicamente corretto: un“mafioso” non ha diritto di pensiero e
di parola e tanto meno ha diritto ad essere ospitato in una struttura
pubblica. Signora Nicolosi, che facciamo, mettiamo al rogo i libri e
le opere di personaggi discussi come Celine e Caravaggio facendo
finta di dimenticare che la Santa Inquisizione ha fatto il suo tempo
e dopo di essa sull’Europa si è abbattuto uno tsunami conosciuto
sotto il nome di illuminismo?
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