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sabato 24 dicembre 2016

Natale

La parola evoca la nascita di un Profeta che duemila anni pagò un tributo terribile al suo amore per l’uomo e ci lasciò in eredità la sua sofferenza. Col Natale celebriamo un messaggio di speranza misurandoci al contempo con il male che ci accompagna nelle sue forme più crudeli. La sofferenza del Nazareno infatti si perpetua offrendoci lo spettacolo di vite disseminate nei marciapiedi delle nostre città o racchiuse nelle carceri senza speranza di redenzione, come fossero scarti della società, dell’olocausto di Aleppo, delle carneficine di innocenti immolati sull’altare del fanatismo, dei migranti strappati alle loro case, dei nostri figli sradicati dai loro affetti e costretti a cercare altrove opportunità di lavoro, della solitudine degli anziani, di una povertà economica sempre più diffusa che si traduce in povertà dello spirito, dei sepolcri imbiancati che vediamo sfilare impettiti e impudichi mentre accarezzano le guance innocenti delle loro vittime, degli arroganti detentori delle nostre vite che esibiscono il loro potere imponendoci l’ordalia di una casta che risponde solo a se stessa, della inadeguatezza dei nostri governanti che hanno pregiudicato il nostro futuro e continuano a imperversare imperterriti, della rassegnazione di un popolo che sembra condannato alla irredimibilità. Andiamo per le strade e annusiamo l’odore nauseante del nostro disfacimento e tuttavia festeggiamo il Natale perché ci sentiamo eredi di un messaggio che, perpetuatosi grazie alla Chiesa di Cristo, ha edificato la nostra dignità durante i secoli ed è giunto fino a noi per essere ripreso e tradotto nella eredità dei lumi. Se oggi esiste una enclave di civiltà che guarda ai diritti fondamentali dell’uomo e combatte l’oscurantismo dello spirito con le ragioni della pietà e della buona causa, ciò si deve a quel messaggio. Il viaggio nella sofferenza è anche un viaggio dello spirito che nessuna sofferenza potrà mai cancellare. Buon Natale.

giovedì 1 dicembre 2016

Gli eccessi verbali

Ha ragione Dacia Maraini quando, commentando l’infelice sortita del governatore De Luca contro l’on. Bindi, denuncia gli eccessi verbali contro le donne, ha torto quando individua nelle sole donne le vittime di questi eccessi. Purtroppo l’aggressione verbale è un costume diffuso che prende di mira indiscriminatamente e proviene da ogni parte, (basta navigare in rete per imbattersi in invettive di tutti contro tutti), anche da parte della donna che, messasi in gioco, si è vista costretta a sporcarsi i calzari. Come sostiene Cazzullo, essa “erediterà la terra” ma in acconto alla terra promessa ha già ricevuto in eredità il rancore di chi si è sentito scippato e le ha presentato il conto facendola oggetto di violenze fisiche e morali, e continuerà anche in futuro a non perdonarle la sfida da lei portata. La donna che si mette in gioco si vede costretta a rispondere colpo su colpo, scendendo su un terreno in cui l’intolleranza è una compagna insidiosa e nel quale deve sapersi muovere con intelligenza, non cedendo di un millimetro sulla difesa della propria dignità ma al contempo affrontando col giusto atteggiamento i timori che suscita la sua discesa in campo, indagando tra le pieghe di un disagio che nell’uomo nasce dalla scoperta di una fragilità e di un declino che lo spaventano, senza indulgenze per la brutalità che spesso ne deriva ma senza spicciative demonizzazioni che liquidano sprezzantemente sempre e comunque il maschio. Nel clima avvelenato che vede al centro il dibattito sul ruolo della donna, non è dunque facile tenere a freno l’intolleranza. L’uscita del governatore della Campania, “un infame da uccidere”, è una imprecazione più che una incitazione ad uccidere, peraltro proferita “fuori onda”, ma ciò non toglie che essa è la spia di una inaccettabile beceraggine intellettuale ed è pericolosa perché, al di là delle intenzioni dell’autore, può innescare dissennate reazioni nel momento in cui raggiunge menti fragili. L’ignobile mattanza delle donne non è forse frutto dell’insensatezza e della labilità psichica di uomini frustrati? Non si può dunque concedere nessuna attenuante all’incontinente governatore. Ma, pronunciata questa doverosa condanna, dobbiamo avere l’onestà di non trarre conclusioni ideologiche colorando di una unica tinta l’intolleranza. L’intolleranza è di casa dovunque venga superata l’asticella del rispetto nei confronti dell’altro, senza distinzioni di genere, come dimostra proprio la battagliera on. Bindi la quale, come un qualsiasi banalissimo uomo, si abbandona qualche volta ad esternazioni che, seppure felpate nel più puro stile democristiano, sono anche esse delle autentiche aggressioni. Ha bacchettato il prefetto Caruso accusandolo di delegittimare l’impegno antimafia, per avere questi messo in guardia contro le derive della dottoressa Saguto ben presto indagata proprio per i motivi denunciati dal prefetto. Non è questa arroganza ideologica che sacrifica un funzionario onesto pur di difendere un santuario intoccabile? Ha inoltre definito impresentabile De Luca risultato successivamente estraneo alle accuse per le quali la Bindi lo aveva definito tale. “Nelle liste del PD non ci sono candidati impresentabili tranne il candidato della Regione Campania” commentò la Bindi a ridosso delle elezioni regionali in Campania. Roba da ammazzare un bue. De Luca, come dice Giannini in un suo editoriale su Repubblica, è indifendibile per mille motivi, ma questo autorizzava l’on. Bindi ad etichettarlo come impresentabile, e cioè indegno, prima della pronuncia della magistratura? Di questi scivoloni l’on. Bindi è giusto che renda conto perché è Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia ed è tenuta ad un rigore e ad un equilibrio dai quali non può prescindere al riparo della sua inattaccabilità di genere.  

venerdì 18 novembre 2016

L’onestà intellettuale

Ho partecipato alla presentazione di un libro e ho ascoltato l’introduzione dell’autore. Lo conoscevo per averlo letto e apprezzato nella sua veste di giornalista che sa stare, come si suole dire, sul pezzo e, ascoltandolo nella veste di romanziere, ho avuto la conferma della sua onestà intellettuale. E uno che non si nasconde dietro un dito e ha il coraggio di fare le pulci anche in casa sua senza fisime da casta. E’ inoltre un profondo conoscitore del fenomeno mafioso ma ne parla con laica cautela mettendo in guardia contro le facili semplificazioni di chi ricorre a stereotipi scontati mettendo tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Parla di un fenomeno complesso che va analizzato passando attraverso l’esame di quella che egli chiama cultura mafiosa annidata nelle pieghe della zona grigia che indulge a un certo fascino perverso. Giustamente sostiene che, se la mafia si limitasse solo ad una accolita di criminali priva di ancoraggi con la cultura diffusa che la sostiene, sarebbe già stata sconfitta da tempo, e si rammarica perché ad essa si oppone un’antimafia di maniera che si produce, con i suoi tic giustizialisti, in linciaggi di piazza appollaiandosi su rendite di posizione. Lamenta il pressapochismo di certi suoi colleghi che sposano comode verità senza preoccuparsi se reputazioni più o meno innocenti vengono sporcate a causa di quella che qualcuno, non ricordo chi, ha definito macelleria mediatica. Denuncia inoltre il lassismo delle istituzioni che, negando una carcerazione dignitosa a chi è in carcere e non offrendo chances a chi esce dal carcere e ha bisogno di essere aiutato a non ricadere nella recidiva, vanificano ogni tentativo di recupero. Parafrasando Brecht, si rammarica del fatto che la nostra democrazia abbia bisogno di misure d’emergenza crudeli quali il 41 bis. Lamenta l’incapacità della cosiddetta società civile di cogliere certe sensibilità sincere che provengono da quel mondo terribile e complesso. Competente e onesto non è però consequenziale. Perché se è vero ( ed è vero ), come egli sostiene, che da quel mondo arrivano dei segnali, arriva l’eco del travaglio di coscienze confuse che si interrogano sulle proprie colpe e danno voce a testimonianze di un percorso pieno di insidie che aspira alla redenzione, che descrivono come possono un contesto drammatico e sbirciano nella speranza di stringere una mano che si protenda verso di esse, è altrettanto vero che il nostro onesto e sensibile giornalista ( sia detto senza ironia ) non ha mai provato a tendere quella mano.

sabato 12 novembre 2016

Referendum Si, referendum No

Perché votare Si al referendum costituzionale del 4 dicembre è considerato dai sostenitori del No l’anticamera di una deriva autoritaria solo perché esso prevede il rafforzamento del potere dell’esecutivo? Forse che la volontà del popolo espressa attraverso un referendum indetto secondo le regole costituzionali, è un attentato alla Costituzione, ed è al contrario onesto il tentativo di manipolare la realtà prospettando scenari improbabili? Non è vero invece che la nostra Costituzione, ingessata da 60 anni, blinda i privilegi di alcuni mentre condanna all’irrilevanza il ruolo del Presidente del Consiglio costretto ad arrancare in balia di limiti che gli impediscono di essere padrone persino a casa sua ( non può neanche licenziare i suoi ministri ), e degli umori di parlamentari inadeguati? La verità è che la pretesa dei poteri dominanti, campioni di una intransigenza a difesa dei loro interessi, di attestarsi su volontà ideologiche e fare del terrorismo abbandonandosi a proclami apocalittici e condannando attraverso interpretazioni arbitrarie qualsiasi tentativo di modificare lo status quo, nasconde la paura di perdere il potere conquistato grazie alla “Costituzione più bella del mondo”, la stessa Costituzione nata da accordi consociativi, che ha permesso l’erezione di santuari inviolabili e vede riaffiorare in difesa della sua inamovibilità le antiche diverse anime che l’hanno fondata. Una buona volta dobbiamo avere il coraggio di dire, senza temere di essere tacciati di conservatorismo, che c’è un tentativo di dare la libertà individuale in pasto alla dittatura del pensiero unico che non tollera dissensi e si appalta in esclusiva il diritto di stabilire cosa è giusto e cosa non lo è. L’arroganza di esso è all’origine del disamore della gente comune nei confronti delle istituzioni, della voglia di abbattere tutto, della reazione istintiva di chi si mette sulla difensiva come può contro la potenza di fuoco di chi ha le armi per affermare la propria supremazia, e reagisce mettendo in quarantena la ragione e buttando a mare assieme all’acqua sporca il buon senso. Perché solo l’assenza di buon senso può spiegare il paradosso di una crociata che vede affiancati sulle stesse barricate il diavolo e l’acqua santa, personaggi emergenti dalle retrovie della prima repubblica, beneficiari delle incrostazioni stratificatesi negli anni e contestatori dell’ultima ora nelle cui vene sono stati inoculati a loro insaputa i valori dei primi, tutti assieme appassionatamente all’insegna di una battaglia che nel nome del nuovo conserva il vecchio. E’ il qualunquismo suicida di coscienze confuse e avvelenate che, per paura e spirito di vendetta, scelgono il tanto peggio tanto meglio e si abbandonano a scelte avventate, come è accaduto in Inghilterra con la Brexit e negli Stati Uniti con l’elezione di Trump.

domenica 23 ottobre 2016

Gli sciacalli


Il recente terremoto nel Lazio e nelle Marche, ci ha proposto i soliti, disgustosi episodi di sciacallaggio di cui ci indigniamo a maggior ragione perché perpetrati a spese di popolazioni innocenti che non meritano certo l’oltraggio dell’uomo dopo avere subito l’oltraggio della natura. Non proviamo invece uguale indignazione tutte le volte che lo sciacallaggio viene perpetrato nei confronti di una umanità meno innocente verso la quale non nutriamo alcun senso di pietà e tolleriamo crudeltà gratuite. Esso viene perpetrato molto più spesso di quanto non ce ne rendiamo conto, e non ce ne rendiamo conto perché lo consideriamo la giusta pena per una genere che abbiamo deciso di considerare colpevole e meritevole di qualsiasi infamia. Nei confronti di esso non è dovuto l’obbligo dell’onestà e anche un’azione estrema come lo sciacallaggio è considerata moneta corrente senza che desti scandalo. A questa umanità appartengo io, titolare di una notorietà che non ritengo di meritare ma che mi è stata, mio malgrado, imposta. La macelleria mediatica ha fiutato la preda e individuato nel sottoscritto il personaggio su cui costruire pagine suggestive e infedeli rispetto alla mia reale dimensione. Ricordo un episodio. Fui avvicinato da un cronista giudiziario che va per la maggiore e che mi propose una intervista. Rifiutai la proposta e con mia sorpresa il mio interlocutore non insistette più di tanto, anzi mi diede l’impressione di avere accettato il mio diniego con un sospiro di sollievo. Mi spiegò egli stesso che, dopo essersi procurato l’appuntamento con me, si era documentato sulla mia vicenda giudiziaria e aveva scoperto la modestia delle mie imputazioni rimanendo spiazzato. Mi confessò che non capiva il motivo di tanto clamore attorno alla mia figura a fronte di uno spessore criminale tutto sommato irrilevante. Il buon cronista in verità non capiva di essere rimasto vittima di se stesso o, meglio, del mondo cui egli appartiene. I cacciatori di streghe prima di lui avevano sparato su di me ad alzo zero senza verificare la reale portata delle mie “malefatte”, avevano creato il personaggio senza curarsi di accertarne l’autentica consistenza e lo avevano dato in pasto all’opinione pubblica consegnando all’immaginario collettivo il falso mito di cui lo stesso mio scrupoloso interlocutore era rimasto vittima. Di cosa disponeva infatti egli che valesse la pena di raccontare? Può interessare un mediocre personaggio di seconda fila del panorama mafioso condannato ad appena 7 anni e 8 mesi per mafia senza neanche l’aggravante di esserne un capo, mentre invece nel serraglio dei mammasantissima che affollano il mondo delle grandi storie mafiose fioccano ergastoli o, bene che vada, decine e decine di anni di detenzione? Non un’accusa di omicidio, non un’accusa di traffico di droga, non un’accusa di estorsione, o, meglio, un’accusa di tentata estorsione conclusasi con un’assoluzione piena, non l’accusa di avere intrattenuto rapporti con personaggi di grosso calibro della Santa Chiesa, anche se i mestatori della rete mi attribuiscono un ruolo nella cura della latitanza addirittura di uno dei dioscuri che hanno fatto la storia della mafia in Sicilia. Ma allora perché tanto accanimento? Sicuramente un motivo va fatto risalire alle attenzioni che la Procura di Palermo mi ha riservato. Essa infatti, pur in presenza di una sentenza che mi ha condannato, è vero, per associazione mafiosa ma ha escluso un mio ruolo di vertice, e di due sentenze, una del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto e una del Tribunale per le Misure di Prevenzione di Palermo, che hanno respinto la richiesta di misure di prevenzione a mio carico non ritenendomi pericoloso, si ostina ad agitare lo spauracchio del mafioso stella di prima grandezza nel firmamento mafioso, non perdendo l’occasione per leggere ogni mio comportamento, anche il più innocente, con la lente del sospetto, in base non a prove di una mia reale pericolosità ma ai vaneggiamenti di un teorema che le riesce difficile archiviare. Il povero cronista nelle mie carte giudiziarie non trovò nulla che meritasse l’onore di un servizio in prima pagina, disponeva solo della carta straccia di una mitologia farlocca costruita dalle grandi firme dell’impostura al servizio della Procura. Che cavolo di personaggio ero? Che cosa avrebbe dovuto raccontare il cronista alla gente se io, lusingato dalle sue attenzioni e in cerca di visibilità come i tanti affetti da malattia mediterranea che si annacano, avessi accettato l’intervista? Dell’intervista non se ne fece niente ed io continuo ad assaporare il gusto amaro dello sciacallaggio che imperversa contro di me in certa letteratura d’appendice spacciata per coraggiosa denuncia contro la mafia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e li pago sotto forma di linciaggio o, bene che vada, di rimozione da parte dei benpensanti che boicottano tutto ciò che nasce da me. I frutti della mia vena vengono demonizzati ancor prima di essere gustati e basta andare in rete per leggere le idiozie di uno stuolo di carneadi indignati che protestano contro la mia pretesa di propormi come autore, di cui non conoscono l’opera che però demoliscono ab origine, per il solo fatto che è scritta da un condannato per mafia. Per non parlare poi dei maitres à penser, di quelli cioè che determinano il successo o l’insuccesso secondo una logica ferrea che esclude gli estranei al circuito magico, figuriamoci gli appestati come me. Sollecitati dal mio editore ad una lettura purchessia, anche critica, del mio romanzo, hanno opposto un ostinato silenzio. Ho preso il coraggio a due mani e un paio di essi li ho persino affrontati (non con atteggiamento mafioso, lo giuro) chiedendo il motivo del loro ostracismo nei confronti di un evento alla cui presentazione erano stati invitati, risposta: mi mandi il libro, lo leggerò e le farò sapere. Risultato: anche in questo caso silenzio assoluto. Chi invece ha perduto una buona occasione per stare zitto, è stato un assessore comunale che, distrattosi, mi ha concesso l’utilizzo di una struttura pubblica per la presentazione del mio libro e che, accortosi quando ormai era troppo tardi, che il beneficiario della concessione ero io, ha strepitato protestando di essere stato ingannato. Anche lui ha confessato di non aver letto il mio romanzo e che dunque parlava di ciò che non conosceva, ma questo importava poco al nostro amministratore, non gli importava d’avere permesso con la sua decisione lo svolgimento di un dibattito culturale, anzi se ne rammaricava, quello che gli rodeva era non avere potuto cogliere anche lui l’occasione per issare la sua brava bandiera antimafia di maniera, come i tanti che ne fanno un uso improprio pur di guadagnare uno straccio di visibilità.

lunedì 3 ottobre 2016

Le delusioni d Ilaria Capua

In una lettera indirizzata al Corriere della Sera Ilaria Capua ripercorre il suo calvario di indagata per associazione a delinquere finalizzata a corruzione e traffico di virus. Nientemeno! Una scienziata apprezzata in tutto il mondo trascinata in una storiaccia così squallida! Certo, il censo non può essere motivo di impunità e dunque se c’erano gli estremi la signora Capua andava indagata. Ma c’erano gli estremi ed erano essi tali da sfidare la statura di un simile personaggio? L’indagine è una garanzia per l’indagato innocente perché l’esito lo scagionerà e dissolverà qualsiasi dubbio sulla sua moralità, ma in un Paese come l’Italia dove il sospetto è l’anticamera della verità, un avviso di garanzia si traduce in un atto d’accusa e l’indagato viene esposto all’onta del mascariamento. Questo è quello che è accaduto alla signora Capua risorsa preziosa di una Italia migliore, la cui credibilità avrebbe dovuto far nascere qualche dubbio sulle accuse che le venivano rivolte, e il cui prestigio andava maggiormente tutelato. Nei suoi confronti, vista la sua levatura morale, si sarebbe dovuto adottare una maggiore cautela, evitare di darla in pasto alla solita stampa famelica, e, una volta archiviata l’indagine con il suo totale proscioglimento, si sarebbe dovuto accertare se si era proceduto con avventatezza nel sostenere l’accusa e, in caso positivo, presentare il conto a chi di dovere. Vale per qualsiasi cittadino ma vale in particolare per la signora Capua in considerazione della sua notorietà internazionale e dell’eco che la vicenda ha avuto in tutto il mondo esponendoci ad una figuraccia. Nessuno invece ha pagato o meglio, a pagare sono state la signora Capua e l’Italia. Perché indurre una tale scienziata a lasciare l’Italia e mettere a disposizione di un altro Paese il suo sapere, indurre una parlamentare che avrebbe potuto promuovere in questa veste iniziative a favore della ricerca, a dimettersi, è una sofferenza gratuita per l’incolpevole Capua e un danno incalcolabile per il Paese che essa è chiamata a servire. Che delusione non sentire una sola voce di solidarietà levarsi a favore della signora Capua ad opera di un qualsiasi rappresentante delle istituzioni, non percepire alcun sussulto di indignazione e di rammarico proveniente dalla politica per le conseguenze disastrose di una vicenda che un minimo di decenza avrebbe dovuto scoraggiare, nessuna denuncia contro la disinvoltura di un’accusa che si è rivelata priva di riscontri! I responsabili di questo danno, i soliti a caccia di notorietà a spese del personaggio di turno, andrebbero messi nelle condizioni di non nuocere e invece no, come nel caso Tortora, come nel caso Cucchi, come nei tanti casi di giustizia allegra, nessun responsabile è individuato e punito, e il proposito di Ilaria Capua di aprire un fronte del suo impegno sul versante della giustizia in Italia, ora che ne ha conosciuto le delizie, le fa onore ma è destinato a restare una illusione.

mercoledì 28 settembre 2016

Il discrimine

L’ingiustizia in Italia dà il peggio di sé quando marca la differenza tra la sorte degli ultimi che pagano fino in fondo il fio delle loro colpe e quella dei privilegiati che navigano nel mare dell’impunità. L’elenco dei casi di potenti che, nonostante condanne pesanti, si sottraggono alle pene grazie al censo che permette loro di imboccare costose scorciatoie, si spreca, come si spreca la lista dei poveri cristi che affollano le patrie galere. A parole sono in molti a denunciare questa evidente disparità, mostrando di ispirarsi a principi di equità e producendosi in esternazioni accorate con un’enfasi pari alla sfrontatezza con la quale alcuni di essi difendono la loro impunità. E’la doppiezza morale di sempre denunciata da Trasimaco quando definisce la giustizia l’interesse del più forte, non immaginando che persino nella stesura dell’elenco dei colpevoli vessati dai rigori della legge avrebbe fatto capolino una buona dose di classismo. Quanti infatti insorgono in difesa di Caino facendo un discrimine tra chi merita misericordia e chi no, operano una distinzione classista nel mondo di disperati che non fa alcuna considerazione di merito. Gli emigranti, gli spacciatori, i delinquenti di piccolo cabotaggio che non possono contare sulle scorciatoie riservate ai potenti, possono contare sulla solidarietà dei sacerdoti del politicamente corretto perché si prestano ad essere pretesto di un buonismo a buon mercato esibito più che sentito sinceramente, giusto per lustrare il pedigree del buon samaritano. E’ una solidarietà pelosa espressa per lo più da cialtroni in marsina che si riempiono la bocca con proclami inneggianti a nobili concetti puntualmente traditi sull’altare dell’interesse personale, una solidarietà nella quale non trovano posto mafiosi e affini, merce avariata inutilizzabile per masturbazioni moraleggianti. Persino il Papa che ha fatto della misericordia la cifra del suo apostolato, li discrimina. Ad essi tocca d’essere confinati nel recinto dei reietti dove non valgono le regole, d’essere considerati ectoplasmi privi dei diritti fondamentali nell’indifferenza della cosiddetta società civile. Relegati nel girone degli orrori, oggetto del disprezzo della gente, godono in compenso dell’attenzione dello Stato che su di loro infierisce con spirito di vendetta. E’ il tramonto dell’epica sciagurata della mafia costretta a subire il discrimine persino rispetto ai malacarne di bassa lega, ma è anche l’eclissi dello Stato di diritto che ha rinunciato ai propri principi fondanti in nome della sicurezza, e delle coscienze libere che hanno rinnegato la lezione dei lumi decidendo chi ha diritto o meno ad essere considerato uomo.  

domenica 18 settembre 2016

I gattopardi

In un suo editoriale di qualche tempo fa sulla Sicilia Aldo Cazzullo lamentava la condizione in cui versa l’isola, interrogandosi su come sia possibile che una terra che ha dato i natali a Verga, Pirandello, Sciascia e altri straordinari protagonisti che hanno connotato quasi per intero la letteratura italiana del Novecento, sia la stessa terra che ha dato i natali a Lombardo, Crocetta e Cuffaro. Non riusciva a darsi una spiegazione. Una spiegazione invece se l’è data Ernesto Galli della Loggia quando anche egli, in un articolo di fondo apparso sul Corriere, ha denunciato lo stato comatoso in cui versa il Sud. In questo articolo egli descrive il quadro desolante di una realtà in disfacimento caratterizzata da una classe dirigente e politica imbarazzante (porta l’esempio del penoso intervento dell’onorevole Barbagallo nell’aula dell’Assemblea Regionale Siciliana), dall’assenza di prospettive di sviluppo, dall’elevatissimo tasso di disoccupazione, dalla carenza di servizi e infrastrutture, dall’inefficienza dell’elefantiaca burocrazia e naturalmente dalla presenza invasiva della criminalità organizzata. La causa di questo sfascio è dovuta, secondo Galli della Loggia, ad una antica indigenza, a secoli di malgoverno ma soprattutto alla latitanza dello Stato. Lo Stato in verità, secondo la sua analisi, ha tentato di correggere questa tendenza facendo da omogeneizzante culturale e sociale, favorendo lo scambio fecondo delle diverse sensibilità, conoscenze, usi, culture, idee che hanno arricchito il tessuto sociale dell’intera Nazione e l’hanno reso più coeso. Purtroppo, dopo gli anni 70, per una serie di motivi legati al mutato quadro politico e sindacale, è venuta meno questa funzione collante e lo Stato ha fatto un passo indietro rinunciando al suo ruolo di guida del Paese in settori strategici, delegando alle istituzioni periferiche una serie di prerogative importanti e lasciando campo libero all’autarchia, al familismo, al clientelismo, ai miserabili interessi localistici, in definitiva ai guasti che affliggono il Sud. La causa dei mali del Sud secondo Galli della Loggia è dunque da attribuire alla sopravvenuta latitanza dello Stato, non certo a “qualche malformazione genetica dei nostri concittadini di quelle regioni”. Dice proprio così, “concittadini di quelle regioni” e “quelle regioni” danno la misura della distanza che l’autore percepisce inconsciamente da terre lontane abitate da una umanità di cui fatica a decifrare l’indole. Se Galli della Loggia avesse consapevolezza di come siamo fatti veramente noi meridionali e i siciliani in particolare, eviterebbe giudizi frettolosamente assolutori, saprebbe che è vero il contrario di quanto egli afferma, che siamo irrimediabilmente malformati. Lo siamo da quando, alle prese con gli eventi che hanno attraversato la nostra storia, abbiamo dovuto fare i conti con essa e schivarne le insidie in un contesto in cui già allora latitava un potere centrale garante dei diritti di ognuno, da quando abbiamo dovuto imparare a contare solo su di noi e siamo diventati per questo motivo individualisti privi di illusioni, asociali guardinghi e sospettosi, levantini, padreterni alle prese col nostro smisurato ego, in guerra con tutto ciò che interferisce con esso. E’ così che ci siamo formati, con i molti vizi e le poche virtù che sono diventati il nostro patrimonio genetico. Prigionieri dei nostri geni, animali bradi privi di un sentire comune, rifiutiamo qualsiasi tentativo di inclusione. Ci è mancato uno Stato nel quale identificarci, e di conseguenza il senso dello Stato, e sbaglia, a mio avviso, Galli della Loggia quando afferma che lo Stato ha rinunciato a svolgere il suo ruolo negli anni 70. Lo Stato dalle nostre parti è sempre stato assente, persino in tempi recenti, quando una parvenza di unità ce ne ha regalato uno patrigno contro il quale abbiamo coltivato diffidenza e rancore. Capaci di dare il peggio di noi persino nelle grandi battaglie ideali che riusciamo a insozzare con secondi miserabili fini o, bene che vada, di esprimere personaggi patetici come l’onorevole Barbagallo, andiamo incontro al nostro destino senza sforzarci di imboccare la via per evitarlo, tranne che non prendiamo il largo dalle acque limacciose del nostro brodo di coltura e guadagniamo l’antica via dell’esilio. A mio figlio che si è visto costretto a riporre i suoi sogni nel cassetto e ha dovuto emigrare in Francia col cuore colmo dell’amore per la sua terra e il proposito di tornarvi, ho raccomandato di scordarsi di Palermo e non permettere a questa città infelice di sporcargli l’anima.  

mercoledì 7 settembre 2016

Charlie Hebdo

Le popolazioni colpite dal terremoto nel Lazio e nella Marche sono costrette a subire non solo l’affronto della natura ma anche quello dell’uomo allorché questi si impegna in una delle azioni più ripugnanti, lo sciacallaggio. E non parlo solo degli sciacalli che si aggirano tra le macerie cercando di rubare le povere cose che si sono salvate, parlo soprattutto di quanti, in nome della libertà di espressione, esercitano impunemente il diritto all’indegnità. Mi riferisco a Charlie Hebdo che non ha esitato a sfregiare il buon gusto ancor prima che il buon senso, ironizzando sulla vicenda del terremoto che avrebbe prodotto, secondo il discutibile humour del vignettista Felix, italiani disegnati quali “penne al pomodoro”, “penne gratinate” e persino “lasagne” in forma di corpi ammucchiati a strati e grondanti di salsa-sangue. Si sono scatenate, come era prevedibile, reazioni pro e contro la vignetta di Charlie Hebdo e, pur definendola infelice, in tanti l’hanno difesa nel nome della libertà di satira e del diritto di ciascuno di dire anche le cose più infami. Giusto, la libertà di pensiero è sacrosanta e quindi va bene il diritto di Charlie Hebdo di sproloquiare, ma è altrettanto sacrosanto il diritto di dissentire e di chiamare chi è capace di esprimere schifezze del genere col nome che merita: farabutto. E non solo perché come in questo caso il farabutto offende il senso estetico ed etico, ma anche perché è disonesto. Infatti di rimando alle critiche di cui è stato oggetto, Charlie Hebdo ha pubblicato una seconda vignetta con la quale ha chiamato in causa la mafia. La toppa peggiore del buco, perché credo si possa dire che nel caso specifico la mafia c’entra come il cavolo a merenda. Se infatti è vero che le esperienze passate ci hanno abituato a forme di corruzione e ci fanno temere che esse si possano ripetere anche nella ricostruzione di Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, è altrettanto vero che parliamo appunto di corruzione, un fenomeno nel quale noi italiani certamente eccelliamo ma che prolifera sotto tutte le latitudini ed è chiamata col suo nome senza scomodare la mafia. In Italia invece no, la corruzione, secondo Charlie Hebdo, è mafia e dunque non solo ci becchiamo l’epiteto di “lasagne”, “penne gratinate e al pomodoro”, ma veniamo spicciativamente liquidati come mafiosi, secondo l’equazione abusata che ci vuole tali in quanto italiani e perciò capaci di esprimerci solo obbedendo a categorie criminali. Per questa miserabile semplificazione che non è esagerato definire razzismo, sappiamo chi ringraziare. Se i campioni della morale a buon mercato che proliferano in casa (non “cosa”) nostra e che hanno fatto della lotta alla mafia una professione redditizia non facendosi scrupolo di barare, fanno sventolare il vessillo di un Paese in cui il peggio è riconducibile sempre e solo alla mafia e propongono teoremi improbabili secondo cui se in Alto Adige abbattono un camoscio, se quattro gaglioffi si fanno complici in attività corruttive nel comune di Pizzighettoni, se a Orgosolo rubano una mandria di pecore, dietro ci sono interessi mafiosi ma ignorano e, in alcuni casi, addirittura coprono patologie molto più gravi nel cui elenco interminabile svetta al primo posto, appunto, la corruzione che ci affligge da sempre e non certo grazie alla mafia che semmai se ne serve come qualsiasi cittadino disonesto, non ci dobbiamo poi lamentare se Charlie Hebdo maramaldeggia sulla nostra mafiosità. La mafia è un bubbone che affligge il corpo della società italiana e va combattuta, senza però dilatarne la portata e inflazionarne il termine secondo la logica totalizzante del politicamente corretto che erige il feticcio e se ne serve per confondere le acque con forme di sciacallaggio che sono fuorvianti e costituiscono un pericolo serio quanto quello della mafia.

domenica 28 agosto 2016

Il terremoto

Le vittime del terremoto, quelle che hanno perduto la vita e quelle che in vita sono rimaste ma sono alle prese col dolore e con la costernazione di una esistenza devastata, sono costrette a subire l’oltraggio di una retorica melensa con cui certa stampa declina la loro sofferenza e dei soliti proclami con cui si esibiscono i politici. I soli che obbediscono a un minimo di sobrietà sono i volontari i quali, silenziosi e pieni di abnegazione, ci dimostrano di che pasta è fatta una certa Italia quando è chiamata a gesti di solidarietà. Purtroppo l’esperienza passata non ci dà molte speranze che le promesse di affrontare e risolvere gli enormi problemi delle popolazioni terremotate siano rispettate. Si è visto cosa è successo a L’Aquila, nel Belice e in altre zone in cui la terra ha tremato e non c’è motivo di essere ottimisti in questa circostanza. Bravi ad affrontare l’emergenza, siamo invece incapaci di affrontare il problema della ricostruzione laddove occorre progettualità, trasparenza, efficienza, fantasia e quant’altro serve a realizzare fondamenta solide che non si sbriciolino al primo appuntamento con l’ulteriore terremoto. Per prima cosa ci dobbiamo dotare di una legislazione che vincoli le costruzioni a regole ben precise e preveda sanzioni severe nel caso in cui esse non siano rispettate, e ci dobbiamo impegnare a ricostruire le case esattamente dove sono state distrutte perché è lì che sono state seppellite le storie di tanta gente ed è lì che bisogna farle rinascere. E poi occorre porre mano ad un nuovo approccio nella cura delle nostre opere d’arte. Siamo un Paese ad alto rischio sismico e quando dobbiamo fare i conti col terremoto di turno, in ballo non ci sono solo vite umane e beni privati che, cancellati dal sisma, rischiano di mettere in ginocchio l’economia della zona, in ballo ci sono opere d’arte che appartengono all’umanità e che abbiamo il dovere di tutelare. Lo dobbiamo al mondo intero ma lo dobbiamo soprattutto a noi stessi, alle infinite opportunità e alle ricadute positive che questo patrimonio ci offre. In un Paese normale le vestigia antiche disseminate su tutto il territorio dovrebbero costituire la prima industria con cui risolvere problemi annosi di disoccupazione e di sviluppo. Si pensi a cosa significherebbe per tutti una maggiore cura delle innumerevoli opere d’arte che possediamo e di cui non abbiamo rispetto né contezza, quali opportunità di lavoro procurerebbero a maestranze, artisti, restauratori, imprenditori edili, il ripristino e la messa in sicurezza di opere esposte agli accanimenti del tempo e della natura e di quelle seppellite nei nostri scantinati che finora non hanno visto la luce, una maggiore cura dei siti archeologici, una maggiore promozione dell’immensa ricchezza che abbiamo e che dovrebbe farci attestare al primo posto assoluto nel circuito turistico mondiale. Questo disastro ci offre l’occasione di voltare pagina, e voltare pagina significa correre in soccorso delle popolazioni disastrate con un impegno più concreto delle solite parole al vento, ma significa anche correre in soccorso di tutti i beni di interesse pubblico, fare un censimento di essi, monitorarne le condizioni, restituirli allo splendore che meritano, amarli e proteggerli avendo cura che non vadano in pezzi al primo tremore della terra, aprire cantieri pulsanti di vita. Sarebbe il modo migliore per soccorrere l’economia collassata delle zone colpite dai terremoti in ogni angolo d’Italia e per dare risposte ai tanti in cerca di lavoro, e sarebbe soprattutto il modo migliore per onorare i nostri morti. Da qualche parte ho letto che una operazione così massiccia non è fattibile con le risorse finanziarie di cui dispone l’Italia e che essa può essere resa possibile solo nell’ambito di una cooperazione europea che dovrebbe contribuire in termini finanziari e chiudere un occhio sul nostro debito pubblico. Da ogni angolo dell’Europa ci son giunte attestazioni di solidarietà e belle parole, parole che ci commuovono e aprono il cuore alla speranza ma che non devono restare vuoti esercizi retorici, i nostri governanti facciano si che esse si traducano in fatti, vadano a Bruxelles non col cappello in mano come dei questuanti ma con la forza di un progetto credibile, sbattano i pugni se necessario, ricordino che l’arte italiana è l’arte dell’Europa e pretendano che essa si comporti da patria comune. L'Europa ci chiede di crescere, bene, il terremoto può essere l’occasione per sperimentare una sorta di terapia della crescita, ed è anche l'occasione per dimostrare che oltre a quella dei volontari esiste un’altra Italia degna dei nostri morti.

venerdì 19 agosto 2016

Il politicamente scorretto

Il politicamente corretto imperversa incurante della decenza e ci fa venire voglia di respirare l’aria ruspante del politicamente scorretto il cui linguaggio rozzo fa giustizia del fariseismo annidato nel linguaggio lindo e attento alla forma che col suo conformismo linguistico sublima i problemi anziché risolverli. Il politicamente corretto gioca molto spesso sul tavolo truccato del doppiogiochismo combattendo a parole battaglie in difesa dei diritti dei più deboli con lo stesso impegno con cui si accuccia ai piedi dei più forti. Campioni come i nostri intellettuali radical chic non hanno niente da spartire con l’umanità infelice che fingono di difendere e mostrano di che pasta sono autenticamente fatti quando dal buen retiro di Capalbio frignano perché il loro eden è messo a rischio dall’arrivo dei migranti, o quando fanno della signora Hillary Clinton la loro icona sorvolando sul fatto che questa signora rappresenta Wall Street e la grande finanza, le grandi multinazionali, la upper class americana, grossi interessi corporativi e, nonostante ciò, con una faccia tosta degna di miglior causa, ci dà a bere la panzana dei grandi ideali, della giustizia sociale, dei diritti delle donne e degli omosessuali, del multiculturalismo, dei diritti dei lavoratori, quegli stessi lavoratori schiavizzati nei Paesi dove i colossi imprenditoriali americani producono le loro merci. Il glorioso Partito Democratico colpito e affondato nel nome dei soliti concretissimi interessi di bottega mascherati da nobili ideali. Tutto all’insegna del politicamente corretto! Sembra di vederli i nostri intellettuali della sinistra mentre dall’alto dei loro privilegi tuonano contro le disuguaglianze sociali andando a braccetto con chi queste disuguaglianze produce e alimenta. Arroccati in circoli esclusivi e club à la page, ci impongono la loro tirannia ideologica, ostentano le stellette del potere con cui condizionano la vita del Paese, demonizzano chiunque osi deviare dai canoni da loro imposti, guardano con preoccupazione alle possibili contaminazioni del loro mondo, tremano all’idea di rischiare di mescolarsi con gli ultimi, in grisaglia e cachemire, col sopracciglio arcuato, osservano dall’alto gli scarabei che razzolano nei loro escrementi e allo stesso tempo salgono sul pulpito strepitando contro le disuguaglianze sociali e le discriminazioni della cui perpetuazione sono i primi complici ma che denunciano col cinismo di chi non si fa scrupolo di strumentalizzare quegli escrementi per fertilizzare il proprio orticello. Si indignano, si, ma un conto è concionare nobilmente dei diritti dei cenciosi, un altro conto è averli in casa! Averli in casa significa misurarsi concretamente con la disperazione, significa convivere con le storie di ordinaria follia magistralmente descritte da Bukowski, significa toccare con mano e condividere la miseria dei reietti ai margini della società, scendere in mezzo a loro e maneggiare lo schifo che la nostra opulenta società ha prodotto. E invece questi signori dall’aria ispirata, schizzinosi e più o meno consapevoli sacerdoti del pensiero unico, allevati a caviale e champagne, si ritraggono schifati, hanno il terrore della miseria, strillano come delle mammolette impazzite se appena il loro benessere è scalfito, e in più ci rifilano l’insulto della loro spocchia morale e ideale, senza provare alcuna vergogna!

venerdì 29 luglio 2016

Il terrorismo nostrano


In questa estate infuocata dal caldo e da eventi drammatici che sembrano aver fatto smarrire la ragione alla razza umana, balbettiamo incapaci di uno scatto di reni. E non parlo di rispondere alla violenza con la violenza, ma di recuperare l’identità che abbiamo perduto quando abbiamo dimenticato il nostro passato e tradito l’eredità che esso ci ha lasciato.  Siamo diventati mercanti che hanno posto al centro dell’universo la struttura economica e una sovrastruttura finanziaria per la maggior parte corsara e priva di scrupoli, e hanno mandato in soffitta sia il sogno liberale che quello marxista. L’uomo incapace di creare la società a misura d’uomo, la società impazzita che crea androidi dall’aspetto umano, sono la dimostrazione di questo fallimento. L’uomo non è più l’obiettivo della società ma strumento di consumo che ha abdicato alla propria identità e dignità e di cui si può fare strame senza inorridire. L’esposizione oscena dei cadaveri a Nizza, Dacca, Monaco, in  Siria, in America, in Africa, sono il segno della perduta considerazione del valore della vita, di uno smarrimento del senso d’umanità che è lo scellerato patrimonio di entrambi i fronti, quello della barbarie terroristica e quello della cosiddetta società civile. Quando ci lamentiamo perché il terrorista islamico non ha rispetto per la vita umana dimentichiamo che di questa vita si è perduto il senso proprio in quella parte del mondo che ha dato i natali alla centralità dell’uomo. Il lungomare di Nizza affollato di bagnanti all’indomani della strage è, con la sua mostruosa normalità quotidiana, la testimonianza del relativismo su cui abbiamo edificato il nostro futuro, una deriva  di cui abbiamo le prove ovunque, anche dove il terrorismo islamico non è ancora giunto.  Un esempio è l’Italia, Paese non ancora colpito dal terrorismo  (almeno per il momento)  ma afflitto da una peste altrettanto esiziale, la decadenza morale e ideale che ha fatto del Paese terra di confine esposta alle scorrerie di consorterie che hanno preso in ostaggio le istituzioni e cannibalizzato le classi più deboli, prima fra tutte la cosiddetta middle class, con pericolose ripercussioni sulla tenuta della democrazia. Da qualche tempo ho preso l’abitudine di ritornare a letture fatte in passato. In questi giorni sto rileggendo La Pelle di Malaparte e sono rimasto impressionato dall’attualità del libro. In alcune sue pagine si legge: “Quando gli uomini lottano per vivere, tutto, anche un barattolo vuoto, una cicca, una scorza d’arancia, una crosta di pan secco raccattata nelle immondizie, un osso spolpato, tutto ha per loro un valore enorme decisivo. Gli uomini sono capaci di qualunque vigliaccheria, per vivere : di tutte le infamie, di tutti i delitti, per vivere,…..a prostituirsi, a inginocchiarsi,…..a leccare le scarpe di chi può sfamarlo, a piegare la schiena sotto la frusta, ad asciugarsi sorridendo la guancia sporca di sputo”. E’ un affresco spietato della Napoli del dopoguerra che torna terribilmente attuale nei nostri giorni. Dopo settant’anni riusciamo ancora a misurarci con la miseria d’allora. Ancora assistiamo alla scena straziante del pensionato che rovista nell’immondizia e dei disperati della notte che bivaccano sotto le stelle, ma soprattutto assistiamo al collasso della nostra civiltà, alla perdita dell’eredità delle due grandi rivoluzioni che hanno attraversato l’Occidente, la rivoluzione cristiana e quella dei lumi, alla giustizia sommaria che dà in pasto alla plebe tumultuante chiunque sia sfiorato dal sospetto, all’attività giudiziaria strabica e schizofrenica dove il libero convincimento troppo spesso viene abusato, alla tortura in carcere con fini predatori (istruttiva in proposito la descrizione che ne fa Voltaire cui fa eco in un recente articolo la denuncia di Dacia Maraini), allo spettacolo disgustoso dell’arrivista che vende l’anima al padrone di turno, ai contorcimenti di spregiudicati arrampicatori disposti a tutto per un posto al sole, all’assalto alla vita altrui con cui gli sciacalli saziano la propria voracità, all’avidità del potere, assistiamo, appunto, alla negazione della centralità dell’uomo. I tanti migranti che affollano le nostre strade chiedendo l’elemosina, i tanti giovani cui è stato negato un futuro, i nuovi poveri che scendono sempre più numerosi verso il degrado, gli zombie che navigano in rete rinunciando a relazionarsi, i tweet demenziali, la condivisione su Facebook dei momenti più insignificanti della nostra vita con degli sconosciuti, il calo verticale delle letture, il bla bla rissoso e inconcludente nei salotti televisivi, sono le diverse facce della stessa medaglia, la perdita irreversibile di ciò che eravamo, lo sprofondare in quello che Umberto Galimberti ha chiamato “l’ospite inquietante”, il nichilismo. Questa  società liquida in cui può accadere di tutto, è appannaggio non solo dell’Italia ma dell’intera Europa, ed entrambe, pur senza condividere Il giustificazionismo di quanti pretendono di fare risalire alle colpe dell’Occidente il fenomeno del terrorismo, hanno qualcosa da farsi perdonare. Il mondo che hanno creato si è rivelato incapace di affrontare le sfide che incombevano e di intuire i pericoli che  si profilavano all’orizzonte, ma si è rivelato soprattutto incapace di generare uomini all’altezza del compito loro assegnato dalla Storia, diventando al contrario terreno di coltura dei mostri che si sono annidati come un virus infetto nel nostro organismo, quinte colonne del terrorismo non arruolate dall’Isis ma che ad essa si ispirano trovando nella comune farneticazione religiosa l’innesco alla loro frustrazione. Quando ci indigniamo per le nefande imprese del terrorismo islamico, dobbiamo avere l’onestà di indignarci per la nostra inadeguatezza e per la nostra mancanza di ancoraggi ideali che è anch’essa una forma di destabilizzazione.

lunedì 11 luglio 2016

Don Abbondio

L’inossidabile Totò Cuffaro si è materializzato sulla scena di Palazzo dei Normanni per turbare i sonni del Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana. Dal recinto dei reietti l’ex Presidente della Regione si è fatto vivo e ha chiesto di utilizzare la Sala Mattarella per un convegno sul tema “Universo carceri”. La richiesta, innocente in sé ma viziata dalla fonte di provenienza, deve aver gettato nel panico l’on. Ardizzone e la decisione, immediata e meccanica, è scattata come una sorta di reazione pavloviana, niente Sala Mattarella per la nobile ragione che non è opportuno ospitare un condannato per favoreggiamento alla mafia nella sala intestata ad una vittima della mafia. Sennonché la motivazione ufficiale non ha convinto tutti, a qualcuno è venuto in mente il sospetto che non siano stati motivi di opportunità morale ad avere dettato la decisione ma che Don Abbondio abbia avuto la meglio e che lo “scantazzo” più che le nobili ragioni abbia indotto l’on. Ardizzone ad una scelta prudente. I due in passato hanno convissuto sotto lo stesso tetto politico e in parecchi malignano che l’on. Ardizzone, negando il permesso alla richiesta di Cuffaro, abbia voluto rimuovere quel passato. Se è così pazienza, il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare, però, c’è un però. Per quanto ingombrante sia Cuffaro, per quanto egli possa essere considerato un furbo di tre cotte, per quanto sia reale il rischio di veleni, in ballo non ci sono Cuffaro e i misteriosi disegni che gli si vogliono attribuire bensì i diritti di gente che soffre, nei confronti dei quali le Istituzioni debbono avere la massima considerazione, a dispetto di cautele pelose. Va bene, anzi va male, che, secondo i canoni cari ai forcaioli in servizio perenne, gente come Cuffaro deve essere confinata in una riserva affinché non inquini il mondo dei virtuosi, ma i diritti dei detenuti debbono essere per questo motivo esiliati dalle stanze delle Istituzioni tanto care all’on. Ardizzone? Non è proprio la Costituzione italiana che, all’articolo 27, parla di pene non contrarie al senso d’umanità e di rieducazione del condannato, e dunque non dovrebbero essere proprio, anzi per prime, le Istituzioni a promuovere questo obiettivo e offrire ospitalità a chi mostra di volersi attivare in questa direzione? Qualcuno sospetta che questo non sia il caso di Cuffaro, ma i diritti dei detenuti non valgono un impegno delle Istituzioni al di là di qualsiasi sospetto o meglio di qualsiasi pregiudizio nei confronti di Cuffaro? Il dibattito sulle condizione di vita in carcere non ha forse diritto ad una degna cornice quale è la prestigiosa Sala Mattarella? Non stiamo parlando di mafia, stiamo parlando di gente che soffre e la statura di Piersanti Mattarella non merita di essere tirata in ballo per fornire alibi a risposte tartufesche che oltretutto fanno nascere dei sospetti. Uno è che non conviene dare opportunità a coloro che hanno sbagliato quando invece è più comodo metterli al sicuro in un bel serraglio e non correre rischi. Il serraglio dei detenuti in carcere è stato individuato nel regime del 41 bis, quello di chi dal carcere è uscito ma continua a rimanere detenuto secondo quanto affermato da Hugo e richiamato da Cuffaro, è l’emarginazione.

sabato 9 luglio 2016

Il caso Capua

In un articolo apparso sul Corriere della Sera Paolo Mieli lamenta la scarsa considerazione che l’Italia ha per la scienza. “Ne è prova”, si legge nell’articolo, “l’incredibile vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per prima isolò il virus dell’aviaria e che di punto in bianco nel 2014 fu accusata di aver fatto ignobile commercio delle sue scoperte al fine, si legge nell’atto d’accusa, di commettere una pluralità indeterminata di delitti….” Nell’articolo è riportato un elenco impressionante dei delitti contestati che, declinati col solito stile sinistro utilizzato dall’accusa, sembravano non lasciare scampo alla signora Capua, rimasta peraltro per tutto il periodo delle indagini, due lunghi anni, sospesa in una specie di limbo, col cuore in gola in attesa dell’esito, senza essere interrogata e senza essere messa nelle condizioni di difendersi. Fa bene dunque Mieli a denunciare la barbarie di un silenzio che ha angosciato la nostra scienziata più delle accuse. Fa male quando lamenta la scarsa considerazione che l’Italia ha per la scienza solo perché una scienziata è stata al centro di una vicenda giudiziaria incivile . La vicenda è incivile ma che c’entra la scienza? Ad essere vittima di questa vicenda non è la signora Capua in quanto scienziata ma la signora Capua in quanto cittadina di un Paese in cui tutti, scienziati e non, hanno uguali diritti di fronte alla legge. La giustizia non può avere riguardo per lo stato sociale ma per lo stato giuridico del cittadino, si chiami esso Capua o Carneade. E d’altronde lo stesso Mieli, in chiusura dell’articolo, si fa venire un dubbio: “Sorge in noi il dubbio che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a Ilaria Capua solo perché la conosciamo, appunto, per essere lei una scienziata di fama internazionale. E che ci siano chissà quante persone che hanno vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua senza che nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro.”. Ecco, appunto, succede nel mondo dei comuni mortali che non hanno la notorietà della signora Capua di incappare in vicende che si avviano verso l’esito scontato senza che nessun Mieli levi una voce di protesta. Succede molto più spesso di quanto non si pensi. Ci sono infiniti casi, sono la quasi totalità, di indagati che, non solo non vengono interrogati, ma vengono rinviati a giudizio senza che sia data alcuna motivazione di tale decisione. Perché bisogna sapere che la legge funziona così: il GUP, in caso di rinvio a giudizio, non ha l’obbligo di motivare la sua decisione e se ne astiene quasi sempre, in caso di proscioglimento invece deve motivare la decisione e quindi deve leggersi le carte, studiare, farsi una idea, troppo faticoso. Meglio lavarsene le mani e passare la palla ai colleghi che celebreranno il processo. In definitiva si tratta solo di vite umane date in pasto a lunghi anni di calvario giudiziario e di soldi sperperati in dibattiti che si potrebbero evitare, cosa volete che sia.

giovedì 7 luglio 2016

La vanità intellettuale

Leggendo un brano dell’intervento sulla vanità in cui Claudio Magris, ospite alla Milanesiana, distingue tra la vanitas che guarda con pessimismo alla caducità umana e la vacuità pretenziosa di chi si compiace di sé, ho maturato ancora di più la convinzione che la vacuità è uno dei tratti identitari di certi intellettuali di oggi, esemplari prosopopeici di una fauna che si arroga il monopolio di pensare e il diritto di stabilire ciò che è giusto o no “usando il marchio dell’infamia ideologica”(Galli della Loggia). Ad essi è concesso tutto. E’ concesso per esempio a Bernard-Henri Levy di liquidare con epiteti spregiativi quanti hanno votato a favore della Brexit, infischiandosi del fatto che questa scelta, anche se può non essere condivisibile, è tuttavia la scelta del 52% degli inglesi. I signori inglesi sono serviti, adesso sanno che essi sono in maggioranza “volgari”, “incompetenti”, “ignoranti”, “cretini”, mentre invece sono dei geni quelli come il signor Levy che con la loro spocchia hanno allargato il fossato con una opinione pubblica ormai stanca, che si è ribellata al proprio destino di agnello sacrificale e ha deciso di ricorrere agli strumenti “rozzi” che le suggerisce la pancia, la sola ragione di cui dispone contro l’emarginazione decretata dal colonialismo degli ottimati. La supponenza e la presunzione sono le costanti ricorrenti presso gli intellettualoidi sotto tutte le latitudini e lasciano sul terreno le macerie di crociate improbabili che hanno come unico obiettivo quello di lustrare il blasone di carriere altrimenti impensabili. Nelle nostre contrade imperversano gli aspiranti intellettuali che hanno preso in prestito la croce di Adenauer e hanno stilato nelle colonne di destra e di sinistra l’elenco di ciò che è degno o indegno secondo categorie morali che hanno sancito stabilendo capisaldi dai quali non si può derogare. Non si può derogare per esempio dal dogma che la costituzione italiana è la più bella del mondo ed è immodificabile, non si può derogare dall’assioma che a destra milita tutto il becero e a sinistra fanno bella mostra di sé le stimmate delle magnifiche sorti e progressive della nostra bella Italia, non si può derogare dall’impostura che la nostra Repubblica nasce dalla sola matrice stabilita dai vincenti, che la magistratura è l’unica depositaria della verità decretata in splendido, insindacabile isolamento, senza il contrappeso di controlli esercitati da poteri fuori da essa. E’ accettato a cuor leggero che l’epopea antimafiosa venga scippata ai suoi eroi e ai suoi martiri e agitata come un frustro vessillo dai soliti furbi travestiti da integerrimi sacerdoti, sepolcri imbiancati che profanano il tempio. Persino Sciascia ha dovuto fare i conti con questi pennivendoli che hanno narrato la realtà che conveniva loro e gli hanno rinfacciato l’assenza di forzature ideologiche, disconoscendo il valore di una ricerca rigorosa che si è sforzata di capire e ha raccontato una realtà autentica attraverso pennellate asciutte e oneste senza con ciò indulgere ad alcun cedimento morale. A Sciascia si contrappone un pot-pourri culturale che, attraverso un manicheismo di convenienza, falsifica la realtà e indirizza la verità a suo piacimento alimentando artificiosamente le paure, titillando i pruriti forcaioli della brava gente e facendone uno strumento di potere. Ho letto recentemente un libro strano al quale i soliti sospettosi censori hanno riservato un vero e proprio ostracismo. Disorientati dal contesto, se ne sono tenuti alla larga non cogliendo il significato di una narrazione che con pennellate ironiche si sforza di fare emergere i limiti del mondo mafioso attraverso la caricatura dei suoi personaggi impietosamente ridicoli. Un libro simile è un contributo di gran lunga più efficace dei tanti proclami farlocchi di cui si nutrono gli antimafiosi di professione.

lunedì 27 giugno 2016

La vendetta del popolo bue

Il capitalismo ingordo che ha dimenticato la sua vocazione di motore produttivo e ha fatto della finanza uno strumento di speculazione selvaggia allargando sempre più la forbice tra ricchezza e povertà, si è visto presentare il conto dalla democrazia che qualche volta si incazza e se la prende con tutti, ricchi, poveri, senza tanti complimenti. Churchill soleva dire che la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora. Il problema è che Churchill ha conosciuto una democrazia che oggi non ha patria. Oggi alla democrazia storicamente intesa si è sostituita una oclocrazia che si oppone alla plutocrazia in una gara a chi perde in misura maggiore la ragione e in particolare la ragione etica. Uno spaccato plastico di questo conflitto si è avuto in Gran Bretagna tra i sostenitori del leave e quello del remain. La Gran Bretagna che ruota attorno alla City e gestisce la maggior parte dei mercati valutari del mondo aveva tutto l’interesse di rimanere nella Ue, perché solo restando ancorata al sistema dell’euro, avrebbe potuto mantenere il suo predominio finanziario. Il 2008 e l’anno terribile, il 2011, con i loro rintocchi sinistri hanno messo in allarme i mercati finanziari fino a quando la brexit è stata data in vantaggio. Incertezza dei mercati, incapacità delle banche di finanziarsi sono tutte voci di un bilancio che dal 2008 in poi ha lasciato parecchie vittime sul terreno e che rischiava di ripetersi. Quando gli exit polls hanno cominciato a dare vincente il fronte del remain e hanno confermato questo trend fino a pochi minuti prima della chiusura delle urne, i grandi gestori, i soli che si sono potuti permettere la lettura di questi costosi dati, hanno rialzato la cresta e hanno agito sul mercato delle valute secondo i loro interessi. L’esito delle urne li ha puniti e assieme a loro ha punito tutto il resto. Le borse a livello planetario hanno subito un crollo, lo spread italiano è aumentato, e si può esser certi che ci saranno altre conseguenze di cui al momento non siamo in grado di valutare la portata e che investiranno non solo la Gran Bretagna ma l’intera Europa. La brexit è piombata sul mondo occidentale come una sorta di ordalia che può essere la pietra tombale dell’Europa. Il popolo, spinto sempre più ai margini della società, ha mandato in soffitta la ragione e si è affidato all’istinto primordiale, si è riconosciuto nel populismo che agita il fantasma dei nemici alle porte, ha bocciato la logica dell’inflessibilità che privilegia il rigore dei conti piuttosto che i conti in tasca della gente e si è rivoltato contro chi attenta ai suoi bisogni primari. E’ accaduto in Gran Bretagna, accadrà, emuli gli altri Paesi, nel resto d’Europa. Ma non hanno motivo di gioire quelli che l’hanno favorita né di temere quelli che l’hanno avversata, è una rivolta destinata al fallimento, per dirla con Shakespeare, tanto rumore per nulla. Si può esser certi che, nell’ambito delle trattative tra Europa e Gran Bretagna che accompagneranno quest’ultima fuori dalla Ue, le lobby finanziarie troveranno il modo di mettersi d’accordo lasciando col cerino in mano il qualunquismo inconcludente di quanti strillano contro il potere della grande finanza. L’Europa ha fallito la sua missione e perduto la sua anima liberale, come un novello Crono ha divorato i suoi figli.  

sabato 4 giugno 2016

La festa della Repubblica

Abbiamo festeggiato i 70 anni della Repubblica e tanto per cambiare non ci siamo fatti mancare la solita sbornia di luoghi comuni. Fra essi la vulgata politicamente corretta e universalmente accettata secondo cui i politici della prima repubblica sono stati dei giganti ai quali va il merito delle nostre magnifiche sorti e progressive. Nessuno può negare che i protagonisti della prima stagione repubblicana sono stati i progenitori di importanti riforme che hanno modificato definitivamente la società italiana proiettandola in un futuro al passo con il resto del mondo, la riforma agraria, per esempio, che eliminò i latifondi, la scuola media unica, il servizio sanitario nazionale, l’accesso delle donne alla magistratura, ma non è il caso di parlare di giganti ignorando errori che non possono essere perdonati e dimenticando che questi giganti hanno reso l’Italia quella che è, un Paese in cui il presente versa in condizioni drammatiche e il futuro è un punto interrogativo senza tante speranze. Tutto parte da allora, dagli anni in cui i nostri giganti, ispirati, nel migliore dei casi, da velleitarie ideologie keinesiane e dall’utopia demenziale di una economia pilotata, in cui tutto, specie quello che non si può, è dovuto, hanno sperperato il mitico miracolo economico frutto dello sforzo di un popolo che liberò le sue energie migliori. Hanno varato un welfare che non ci potevamo permettere saccheggiando risorse che non avevamo, hanno vestito lo Stato dei panni dell’imprenditore, lo hanno fatto indebitare e hanno fottuto il futuro dei nostri figli. E già che c’erano, all’ombra di un consociativismo sottobanco che di fatto azzerava la dialettica politica e dunque la democrazia, si sono spartiti ciò che restava. Solo vent’anni fa, quando il danno era ormai fatto, lo Stato allentò la sua presa sull’economia liquidando l’IRI, settima al mondo per fatturato e prima per perdite. Ma è stata solo una goccia in un mare che ha continuato ad essere tragicamente pubblico e in cui squali e boiardi, tutti assieme appassionatamente, hanno pescato e continuano a pescare di frodo accelerando il disastro che è sotto gli occhi di tutti. Siamo prigionieri di un debito che impedisce nuovi investimenti e il riavvio della ripresa, con la conseguenza di una povertà sempre più diffusa e una forbice sempre più larga tra eccessivamente ricchi ed eccessivamente poveri. Basta allungare lo sguardo nelle periferie disastrate delle nostre città per assistere al dramma dei nostri figli, 1 milione di minori, che vivono in povertà assoluta scendendo sempre più in basso verso il degrado morale e sociale. Mancano di cibo, di vestiti, di giochi, di vacanze, abbandonano anzitempo la scuola, sono destinati a cadere nella rete della criminalità. Ed è sotto gli occhi di tutti il dramma dei nuovi poveri che ogni anno sempre più numerosi, oggi sono 5 milioni, rovinano sotto la soglia della sopravvivenza e sono costretti a dormire avendo come tetto le stelle e ad accomodarsi presso la Caritas per un pasto. Per avere un’idea di questa realtà prego accomodarsi al seguito delle associazioni di volontariato impegnate nelle ronde notturne negli angoli più bui delle nostre città alla ricerca di anime perdute. Per non parlare dei nostri giovani che si piazzano al terzultimo posto nella classifica dei disoccupati in Europa, appena davanti a Slovacchia e Grecia, e sono afflitti da una tendenza sempre maggiore all’inattività, frutto della mancanza di prospettive e della rassegnazione. Non cercano più un lavoro perché hanno esaurito infruttuosamente tutti i tentativi, vivacchiano grazie al welfare familiare, sono la testimonianza di una resa che chiama in causa responsabilità antiche e recenti. Diciamolo, c’è poco da festeggiare e il senso della misura dovrebbe suggerire al nostro premier di evitare i toni trionfalistici con cui ci rifila la favola di un’Italia avviata verso un futuro migliore (forse si riferisce all’Italia dei parlamentari e dei commis di Stato che ricevono gli stipendi e i vitalizi più alti d’Europa), quando invece è noto a tutti che siamo avvitati in un triplo salto mortale senza rete che rischia di farci precipitare nelle stesse condizioni della Grecia. Con la produttività cresciuta dal 2000 ad oggi di appena l’1% contro il 17% medio degli altri partners europeo e con la prospettiva che questo trend non muti, dove vogliamo arrivare? Ma non finisce qui. C’è poi l’ipocrisia del rischio millantato piuttosto che reale. Anche lì tentano di darcela a bere. L’antimafia di facciata ci fornisce continuamente esempi di facce toste impegnate a lucrare credibilità, prebende, carriere e scorte, lasciando credere che la loro vita è a rischio solo perché hanno cercato una visibilità strumentale senza dare un autentico contributo alla lotta contro la mafia. I rischi in verità li corrono solo i cittadini costretti a sobbarcarsi i costi di eroi di cartone che hanno fiutato l’eldorado. Enfatizziamo i pericoli della criminalità organizzata (che, sia chiaro, non devono essere sottovalutati) e fingiamo di ignorare che i maggiori pericoli nascono da una classe politica inetta e corrotta che soddisfa appetiti clientelari e gli interessi affaristici dei gruppi di riferimento senza peraltro, in contropartita ad un costo così elevato, riuscire a far funzionare in maniera accettabile la macchina dello Stato, nascono da poteri forti che menano la danza e sono dietro ai più inquietanti misteri mai risolti, collusi, essi si, con la mafia o con quello che di essa è rimasto, una tragica parodia di se stessa che si è illusa di fare il salto di qualità e si è votata alla disfatta prestandosi a fungere da utile idiota al servizio di disegni di cui non aveva consapevolezza, nascono dai privilegi delle caste che erodono le risorse della collettività, da un fisco vorace e ingiusto, da lobby che imperversano indirizzando le leggi verso gli interessi che hanno in cura, dalla progressiva polverizzazione della media borghesia e con essa della spina dorsale del tessuto sociale, dalla rinuncia della gente ad amare il proprio Paese. E’ l’epica cialtrona di un popolo che non ha più ideali né speranze, è lo spaccato di un Paese che inganna continuamente se stesso millantando virtù che non possiede, che mette in scena festeggiamenti solenni nell’anniversario della nascita della Repubblica che amiamo ma che abbiamo tradita mancando l’impegno contratto con essa, ed esibisce tra le fila delle autorità in parata, in occasione del 2 giugno, sepolcri imbiancati che fanno pernacchie ad un popolo che non rappresentano.

venerdì 20 maggio 2016

La morte di Pannella

E’ morto Pannella e si può ben dire che siamo tutti in lutto, perché Pannella ha rappresentato anche quelli che dissentivano da lui. I successi delle sue battaglie infatti, anche quelle non condivise dai suoi avversari, sono diventati patrimonio di tutti, e tutti perdonavano i suoi eccessi riconoscendo l’onestà delle sue battaglie, l’incorruttibilità dell’utopia dettata dall’amore per ideali estremi difesi persino con le provocazioni più sfrontate. In nome dei suoi ideali e contravvenendo alle logiche degli schieramenti scontati, è stato capace di allearsi sia con Berlusconi, sia con Prodi. Io personalmente porto la testimonianza di un mondo al quale fino a qualche tempo fa ho appartenuto e di cui ancora oggi mi sento idealmente parte, il mondo delle carceri dove, quando maggiormente si avverte la sofferenza della detenzione, è a Pannella e ai suoi scudieri che i detenuti pensano, a Rita Bernardini, a Emma Bonino, ad Adele Faccio, ad Adelaide Aglietta, protagoniste di battaglie per una giustizia giusta. Ricordo la gratitudine e l’ammirazione che leggevo negli occhi dei miei compagni quando parlavano del Pannella capace di accettare l’iscrizione al Partito Radicale di Giuseppe Piromalli per protesta contro il regime del carcere duro ai mafiosi, di candidare e fare eleggere in Parlamento Enzo Tortora ingiustamente condannato per mafia e spaccio di droga, di essere in prima fila contro gli abusi della carcerazione preventiva, del 41 bis e dell’ergastolo. Ricordo che egli era sentito uno dei nostri, come una sorta di santo laico che non se la tirava e non temeva di mischiarsi con un mondo disprezzato dai più, e sono certo che, venuto a mancare lui, è negli eredi che hanno raccolto il suo testimone che i detenuti ripongono le loro speranze. Potrei dire del coraggio delle sue scelte, potrei elencare una lista interminabile delle sue battaglie civili, la battaglia contro la pena di morte, per l’approvazione della legge sull’aborto e sul divorzio, per il diritto di eutanasia, potrei lodare la sua onestà nel fare ammenda degli errori che commetteva quando si faceva trascinare dall’irruenza delle sue crociate, a volte prendendo di mira degli innocenti, ma avendo il coraggio di chiedere scusa pubblicamente come ha fatto con il Presidente Leone inviandogli una lettera in cui riconosceva di averlo accusato ingiustamente, potrei declinare la mia ammirazione perché ha osato quello che tanti di noi non hanno osato mettendosi in gioco fino alle estreme conseguenze, per il personaggio visionario che è stato, per avere tentato di riscattare la dignità degli emarginati, per non avere avuto peli sulla lingua nella denuncia delle impunità delle caste. Ci sono mille motivi per tessere le sue lodi ma è meglio lasciar perdere, non si sa mai col suo carattere, meglio limitarsi ad un semplice : grazie Marco.   

martedì 10 maggio 2016

Il valore delle regole

Succede che nel mondo dell’intransigenza morale le regole molto spesso vengano sospese e venga stabilito cosa è giusto o ingiusto a seconda dei criteri dettati dal monopolio dell’etica. E’ ispirandosi a questa logica che appare giusto gettare gli inquisiti in pasto alla macelleria mediatica se appena trapela la notizia di un avviso di garanzia e trasformare quello che dovrebbe essere un elemento a tutela del cittadino in uno strumento di tortura. L’avvocato Ingroia ha puntato il dito contro la “crocifissione mediatica” subita dal suo assistito Maniaci a seguito delle “rivelazioni di segreto d’ufficio”, quella stessa crocifissione che gli inquisiti subivano quando il magistrato Ingroia svolgeva la funzione di procuratore aggiunto presso la Procura del Tribunale di Palermo e gli spifferi sui segreti d’ufficio erano una consuetudine anche allora. Accogliamo con soddisfazione la distinzione che egli fa tra l’aspetto giuridico e quello etico delle condotte del suo assistito, producendosi in una netta inversione di tendenza rispetto alle sue precedenti convinzioni declinate quando sosteneva il primato dell’etica rispetto al diritto. E’ vero, un conto è l’etica, un conto sono le responsabilità penali e l’etica disinvolta del signor Maniaci, poiché non travalica nell’illecito, non merita di essere sanzionata penalmente, ma merita, eccome, di essere censurata alla luce di ciò che trapela dalla intercettazioni. Secondo quanto riportato dalla stampa infatti, egli considerava il suo impegno antimafioso una specie di bancomat con cui acquisire prestigio pregustando i vantaggi che gliene sarebbero derivati (“mi danno la scorta, sono una potenza”), irrideva i protagonisti dell’antimafia onesta e i servitori dello Stato trattando da allocchi coloro che credevano in lui e con lui solidarizzavano, fino al punto da definire str….il Presidente del Consiglio, spacciava per intimidazioni mafiose episodi delittuosi maturati nel contesto di uno squallido conflitto pecoreccio, insomma si cuciva addosso panni troppo larghi taroccando il suo impegno di icona antimafia per finalità strumentali. Il signor Maniaci ha tentato di farcela credere, urlando la sua intransigenza farlocca nella quale ha finito per restare impigliato egli stesso. Adesso è arrivato il suo turno di finire sulla graticola, la sua testa di tribuno antimafia sta rotolando nella polvere e sul piano penale sta pagando un conto che, bisogna dirlo, non merita, mascariato com’è dal suo indebito inserimento nello stesso provvedimento che ha portato all’arresto di nove mafiosi. Accusato di avere estorto pochi miserabili euro, subisce la legge del contrappasso, vittima della corsa a chi è più intollerante alla quale egli stesso ha partecipato. L’avvocato Ingroia a sua volta atterra tra i comuni mortali e si ritrova intruppato tra quanti combattono ogni giorno la dura battaglia per far valere uno straccio di diritto, piuttosto che impegnato, come faceva un tempo, in crociate moralistiche che “fanno precipitare le società nel dispotismo etico” (Luciano Violante). Scopriamo un Ingroia nell’inedita veste di garantista che non le manda a dire ai suoi ex colleghi. Meglio tardi che mai, solo che il nostro si accorgerà presto che nelle sue nuove vesti non avrà vita facile, saprà quanto costa promuovere il rispetto delle regole, se vorrà, potrà assaporare il gusto della buona battaglia in nome dell’etica dei principi piuttosto che dei privilegi e magari, chi lo sa, ci risparmierà i toni di chi cade dal pero, scandalizzato per il giustizialismo con il quale adesso è lui come avvocato a dover fare i conti e che era nelle sue corde in un’altra stagione, quando i conti dovevano farli gli altri .  

venerdì 29 aprile 2016

Voglia di giustizia

In questi giorni sui giornali è apparsa la notizia di una indagine per estorsione che sarebbe in corso nei confronti di Pino Maniaci direttore dell’emittente televisiva Telejato, protagonista di tante inchieste e denunce specie contro la mafia. La reazione di Maniaci non si è fatta attendere. Egli infatti è andato all’attacco sostenendo senza tante perifrasi che l’indagine nei suoi confronti è una ritorsione della Procura per avere egli osato attaccare un santuario della magistratura, allorché ha scoperchiato la pentola dei presunti illeciti nella gestione dei beni confiscati da parte dei giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Maniaci che in passato non ha avuto dubbi sulla correttezza dell’operato dei giudici quando l’obiettivo erano altri, non ha parimenti dubbi sulla faziosità degli stessi adesso che l’obiettivo è lui. A sua volta Maniaci è stato bacchettato da coloro che, non avendo anche essi dubbi, gli hanno ricordato che la fiducia nel lavoro dei magistrati e nella magistratura non deve mai essere messa in discussione. Io che invece sono pieno di dubbi, qualche pensiero me lo faccio, sia sul dogma dell’infallibilità della magistratura che sulla buona fede di tanti manettari. Quando si parla di magistratura non si può negare il suo ruolo di baluardo in difesa della società purché essa abbia come unica bussola l’applicazione della legge. La magistratura è una istituzione insostituibile e la sua indipendenza è sacrosanta come la presunzione della sua onestà. I dubbi sorgono quando alcuni magistrati scambiano la severità per intolleranza e le categorie della legge per categorie morali e trasformano lo spirito di servizio in arroganza con cui invece di servire la legge, la inventano promuovendo crociate che pretendono di redimere la società. Si seggono sul pulpito e ci impartiscono lezioni di superiorità morale mettendo all’indice gli indagati prima ancora di pronunciarsi sulla loro colpevolezza in un’aula di tribunale. La sortita del dottore Davigo contro i politici definiti ladroni per antonomasia che per giunta non si vergognano, è un esempio fra i tanti. Questo accade perché purtroppo il nostro non è un Paese normale. Non è normale infatti un Paese incapace di produrre, nella maggior parte dei casi, autentici servitori dello Stato, paladini solitari e sobri della legge, ma capacissimo di produrre uomini che equivocano sul ruolo del potere al quale appartengono e lo trasformano in casta. Che cosa è infatti se non casta un potere che, godendo di una assoluta indipendenza rispetto ad altri poteri e avendo l’obbligo morale di autogestire questa indipendenza con una severità nei confronti di se stesso maggiore di quella usata nei confronti di altri, si comporta da organismo al di sopra della legge? Hanno forse pagato i giudici che perseguitarono ingiustamente e disonestamente Enzo Tortora? No, anzi sono stati promossi? E il carcere preventivo tanto abusato nei confronti dei comuni mortali, perché non è inflitto con lo stesso zelo a quei giudici su cui gravano gravi indizi di colpevolezza? Di che cosa si lamenta Maniaci e di che cosa si lamenteranno domani altri cronisti giudiziari che vanno a nozze con i teoremi dell’accusa, quando sarà il loro turno di finire nella macelleria delle colpe sospette e non provate ma date ugualmente per certe? Quanti sono i galantuomini, tra i giornalisti che sbattono il mostro in prima pagina, capaci di chiedere scusa ai mostri innocenti come fecero Pannella e Bonino quando inviarono al Presidente Leone una lettera rammaricandosi per averlo accusato ingiustamente di essere implicato nell’affare Lockheed? Lo Stato di diritto può essere una parola vuota se non è tutelato dalla coscienza onesta di quanti hanno un ruolo pubblico, siano essi magistrati e giornalisti, ma anche dei cittadini comuni che dovrebbero evitare di inveire contro il presunto reo alla stregua delle popolane che tumultuavano ai piedi della ghigliottina all’epoca della rivoluzione francese.

sabato 16 aprile 2016

Il referendum sulle trivelle

Il referendum sulle trivelle di domani ha acceso un dibattito, non tanto sul merito, quanto sulla legittimità di astenersi o meno dal voto. La Costituzione all’articolo 48 recita che votare è un dovere civico e il presidente della Consulta, forte del dettato costituzionale, sostiene che votare esprime la pienezza della cittadinanza. Chi si schiera per la partecipazione al voto arriva ad affermare che l’astensione è una deriva ingannevole e sleale perché sabota il referendum sommando gli indifferenti ai contrari, mentre chi vota resta solo col suo si: un espediente bello e buono (Ainis ). Altri ( Panebianco ) sostengono che l’astensione è una espressione legittima quanto quella di votare perché, se è previsto il raggiungimento del quorum come condizione perché passi il referendum, significa che l’astensione non è un espediente ma un diritto previsto come il si e il no. Se parliamo del merito, tutte le posizioni sono rispettabili ma pare che questo dibattito sul referendum più che parlare di merito si sposti sul piano dell’etica, visto che parecchi sostenitori del si, invece di spiegarci la bontà delle loro ragioni, denunciano la mancanza di senso civico degli astensionisti. Naturalmente sorvolano sull’espediente al quale ricorrono anche essi quando, issando la bandiera del senso civico, si disinteressano del quesito e utilizzano il referendum quale strumento di lotta contro il governo, in questo, bisogna dirlo, incoraggiati dalle esternazioni di Renzi. Su cosa i signori del si fondano la presunzione dell’ etica del voto, lo abbiamo visto. La fondano sul dettato costituzionale che parla di dovere civico. Ma la nostra Costituzione, anche se è “la più bella del mondo”, è emendabile e l’articolo 48 lo è ancora di più, perché non è accettabile che un sacrosanto diritto al voto, che ciascuno può esercitare o no senza alcuna implicazione di carattere morale, venga spacciato per un dovere che ricorda tanto l’obbligo al voto imposto nei Paesi dove, guarda caso, l’affluenza al voto è del 100%.  

martedì 12 aprile 2016

Romanzi imbarazzanti

Non sono solito leggere “la Repubblica” e dunque intervengo solo adesso su una notizia che ho appreso in ritardo. Ho appreso cioè che su “la Repubblica” di domenica 10 aprile è apparso un servizio con tanto di foto del sottoscritto, a proposito dell’ospitalità concessa dalla Fonderia Oretea alla presentazione del mio romanzo “La vita di un uomo”. L’articolo è calato nell’ambito della vicenda che ha visto Salvo Riina ospite di Bruno Vespa su “Porta a porta” e fa un accostamento tra le due ospitate assolutamente infelice. Quale è infatti l’attinenza tra la presentazione del mio libro e l’intervista a Riina? Questi nell’intervista ha fatto dichiarazioni che palesano una chiara forma di assoggettamento ai disvalori mafiosi disponendo di una platea di dimensioni nazionali che ne ha dilatato l’eco. Per inciso sono convinto che il solo a uscire con le ossa rotte dall’intervista è stato proprio il signor Riina messo in ridicolo dalle sue stesse improbabili dichiarazioni e subissato da una valanga di critiche feroci. La società, grazie a Dio, possiede gli anticorpi necessari a isolare certi virus e il signor Riina è rimasto solo, terribilmente solo tra le macerie del suo mondo sconfitto. Ma, tornando al punto, io che c’entro con tutto questo, quale è l’accostamento? Non c’è confronto con la modesta dimensione della platea in cui si è svolta la presentazione del mio romanzo e, cosa fondamentale, alla Fonderia Oretea non si è colta l’occasione per esprimere condivisioni mafiose. Peraltro la Fonderia è una struttura che il Comune mette a disposizione per eventi culturali e artistici e il mio romanzo ha le carte in regola per accedere al diritto di usufruire di quella struttura. E’ stato scritto, è vero, da un condannato per mafia, ma chi lo ha letto sa che il romanzo ha un suo valore letterario che non può offrirsi a nessun equivoco, non fa l’apologia della mafia, anzi, contiene un messaggio che parla di un percorso di riscatto rispetto al mondo mafioso e, in occasione della presentazione, non è stato utilizzato per messaggi criptici o per flirtare con la mafia. Alla Fonderia si è parlato solo di lettere, di sofferenza, di dolore e di lacrime. Bisognerebbe leggere il libro, solo che se ne fa a meno e si va per le spicce, utilizzando la scorciatoia che nega a un condannato per mafia il diritto di pensare, anche se pensa cose positive, e di guadagnarsi lo spazio in cui esprimere quello che pensa, perché ad un condannato per mafia nulla è dovuto, tranne il disprezzo. Il merito non conta, non vale la pena di fare una valutazione intrinseca del valore del libro, meglio circondarlo col silenzio riservato ai reprobi, come nei fatti è puntualmente accaduto, salvo tirarlo fuori dal cilindro quando serve per sparare a zero contro lo sfrontato che si permette di sfidare l’opinione pubblica con la pretesa di alzare la testa. Meglio andare sul sicuro e ribadire ciò che è politicamente corretto: un“mafioso” non ha diritto di pensiero e di parola e tanto meno ha diritto ad essere ospitato in una struttura pubblica. Signora Nicolosi, che facciamo, mettiamo al rogo i libri e le opere di personaggi discussi come Celine e Caravaggio facendo finta di dimenticare che la Santa Inquisizione ha fatto il suo tempo e dopo di essa sull’Europa si è abbattuto uno tsunami conosciuto sotto il nome di illuminismo?