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giovedì 7 luglio 2016

La vanità intellettuale

Leggendo un brano dell’intervento sulla vanità in cui Claudio Magris, ospite alla Milanesiana, distingue tra la vanitas che guarda con pessimismo alla caducità umana e la vacuità pretenziosa di chi si compiace di sé, ho maturato ancora di più la convinzione che la vacuità è uno dei tratti identitari di certi intellettuali di oggi, esemplari prosopopeici di una fauna che si arroga il monopolio di pensare e il diritto di stabilire ciò che è giusto o no “usando il marchio dell’infamia ideologica”(Galli della Loggia). Ad essi è concesso tutto. E’ concesso per esempio a Bernard-Henri Levy di liquidare con epiteti spregiativi quanti hanno votato a favore della Brexit, infischiandosi del fatto che questa scelta, anche se può non essere condivisibile, è tuttavia la scelta del 52% degli inglesi. I signori inglesi sono serviti, adesso sanno che essi sono in maggioranza “volgari”, “incompetenti”, “ignoranti”, “cretini”, mentre invece sono dei geni quelli come il signor Levy che con la loro spocchia hanno allargato il fossato con una opinione pubblica ormai stanca, che si è ribellata al proprio destino di agnello sacrificale e ha deciso di ricorrere agli strumenti “rozzi” che le suggerisce la pancia, la sola ragione di cui dispone contro l’emarginazione decretata dal colonialismo degli ottimati. La supponenza e la presunzione sono le costanti ricorrenti presso gli intellettualoidi sotto tutte le latitudini e lasciano sul terreno le macerie di crociate improbabili che hanno come unico obiettivo quello di lustrare il blasone di carriere altrimenti impensabili. Nelle nostre contrade imperversano gli aspiranti intellettuali che hanno preso in prestito la croce di Adenauer e hanno stilato nelle colonne di destra e di sinistra l’elenco di ciò che è degno o indegno secondo categorie morali che hanno sancito stabilendo capisaldi dai quali non si può derogare. Non si può derogare per esempio dal dogma che la costituzione italiana è la più bella del mondo ed è immodificabile, non si può derogare dall’assioma che a destra milita tutto il becero e a sinistra fanno bella mostra di sé le stimmate delle magnifiche sorti e progressive della nostra bella Italia, non si può derogare dall’impostura che la nostra Repubblica nasce dalla sola matrice stabilita dai vincenti, che la magistratura è l’unica depositaria della verità decretata in splendido, insindacabile isolamento, senza il contrappeso di controlli esercitati da poteri fuori da essa. E’ accettato a cuor leggero che l’epopea antimafiosa venga scippata ai suoi eroi e ai suoi martiri e agitata come un frustro vessillo dai soliti furbi travestiti da integerrimi sacerdoti, sepolcri imbiancati che profanano il tempio. Persino Sciascia ha dovuto fare i conti con questi pennivendoli che hanno narrato la realtà che conveniva loro e gli hanno rinfacciato l’assenza di forzature ideologiche, disconoscendo il valore di una ricerca rigorosa che si è sforzata di capire e ha raccontato una realtà autentica attraverso pennellate asciutte e oneste senza con ciò indulgere ad alcun cedimento morale. A Sciascia si contrappone un pot-pourri culturale che, attraverso un manicheismo di convenienza, falsifica la realtà e indirizza la verità a suo piacimento alimentando artificiosamente le paure, titillando i pruriti forcaioli della brava gente e facendone uno strumento di potere. Ho letto recentemente un libro strano al quale i soliti sospettosi censori hanno riservato un vero e proprio ostracismo. Disorientati dal contesto, se ne sono tenuti alla larga non cogliendo il significato di una narrazione che con pennellate ironiche si sforza di fare emergere i limiti del mondo mafioso attraverso la caricatura dei suoi personaggi impietosamente ridicoli. Un libro simile è un contributo di gran lunga più efficace dei tanti proclami farlocchi di cui si nutrono gli antimafiosi di professione.

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