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mercoledì 7 settembre 2016

Charlie Hebdo

Le popolazioni colpite dal terremoto nel Lazio e nella Marche sono costrette a subire non solo l’affronto della natura ma anche quello dell’uomo allorché questi si impegna in una delle azioni più ripugnanti, lo sciacallaggio. E non parlo solo degli sciacalli che si aggirano tra le macerie cercando di rubare le povere cose che si sono salvate, parlo soprattutto di quanti, in nome della libertà di espressione, esercitano impunemente il diritto all’indegnità. Mi riferisco a Charlie Hebdo che non ha esitato a sfregiare il buon gusto ancor prima che il buon senso, ironizzando sulla vicenda del terremoto che avrebbe prodotto, secondo il discutibile humour del vignettista Felix, italiani disegnati quali “penne al pomodoro”, “penne gratinate” e persino “lasagne” in forma di corpi ammucchiati a strati e grondanti di salsa-sangue. Si sono scatenate, come era prevedibile, reazioni pro e contro la vignetta di Charlie Hebdo e, pur definendola infelice, in tanti l’hanno difesa nel nome della libertà di satira e del diritto di ciascuno di dire anche le cose più infami. Giusto, la libertà di pensiero è sacrosanta e quindi va bene il diritto di Charlie Hebdo di sproloquiare, ma è altrettanto sacrosanto il diritto di dissentire e di chiamare chi è capace di esprimere schifezze del genere col nome che merita: farabutto. E non solo perché come in questo caso il farabutto offende il senso estetico ed etico, ma anche perché è disonesto. Infatti di rimando alle critiche di cui è stato oggetto, Charlie Hebdo ha pubblicato una seconda vignetta con la quale ha chiamato in causa la mafia. La toppa peggiore del buco, perché credo si possa dire che nel caso specifico la mafia c’entra come il cavolo a merenda. Se infatti è vero che le esperienze passate ci hanno abituato a forme di corruzione e ci fanno temere che esse si possano ripetere anche nella ricostruzione di Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, è altrettanto vero che parliamo appunto di corruzione, un fenomeno nel quale noi italiani certamente eccelliamo ma che prolifera sotto tutte le latitudini ed è chiamata col suo nome senza scomodare la mafia. In Italia invece no, la corruzione, secondo Charlie Hebdo, è mafia e dunque non solo ci becchiamo l’epiteto di “lasagne”, “penne gratinate e al pomodoro”, ma veniamo spicciativamente liquidati come mafiosi, secondo l’equazione abusata che ci vuole tali in quanto italiani e perciò capaci di esprimerci solo obbedendo a categorie criminali. Per questa miserabile semplificazione che non è esagerato definire razzismo, sappiamo chi ringraziare. Se i campioni della morale a buon mercato che proliferano in casa (non “cosa”) nostra e che hanno fatto della lotta alla mafia una professione redditizia non facendosi scrupolo di barare, fanno sventolare il vessillo di un Paese in cui il peggio è riconducibile sempre e solo alla mafia e propongono teoremi improbabili secondo cui se in Alto Adige abbattono un camoscio, se quattro gaglioffi si fanno complici in attività corruttive nel comune di Pizzighettoni, se a Orgosolo rubano una mandria di pecore, dietro ci sono interessi mafiosi ma ignorano e, in alcuni casi, addirittura coprono patologie molto più gravi nel cui elenco interminabile svetta al primo posto, appunto, la corruzione che ci affligge da sempre e non certo grazie alla mafia che semmai se ne serve come qualsiasi cittadino disonesto, non ci dobbiamo poi lamentare se Charlie Hebdo maramaldeggia sulla nostra mafiosità. La mafia è un bubbone che affligge il corpo della società italiana e va combattuta, senza però dilatarne la portata e inflazionarne il termine secondo la logica totalizzante del politicamente corretto che erige il feticcio e se ne serve per confondere le acque con forme di sciacallaggio che sono fuorvianti e costituiscono un pericolo serio quanto quello della mafia.

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