Le popolazioni colpite dal terremoto
nel Lazio e nella Marche sono costrette a subire non solo l’affronto
della natura ma anche quello dell’uomo allorché questi si impegna
in una delle azioni più ripugnanti, lo sciacallaggio. E non parlo
solo degli sciacalli che si aggirano tra le macerie cercando di
rubare le povere cose che si sono salvate, parlo soprattutto di
quanti, in nome della libertà di espressione, esercitano impunemente
il diritto all’indegnità. Mi riferisco a Charlie Hebdo che non ha
esitato a sfregiare il buon gusto ancor prima che il buon senso,
ironizzando sulla vicenda del terremoto che avrebbe prodotto, secondo
il discutibile humour del vignettista Felix, italiani disegnati quali
“penne al pomodoro”, “penne gratinate” e persino “lasagne”
in forma di corpi ammucchiati a strati e grondanti di salsa-sangue.
Si sono scatenate, come era prevedibile, reazioni pro e contro la
vignetta di Charlie Hebdo e, pur definendola infelice, in tanti
l’hanno difesa nel nome della libertà di satira e del diritto di
ciascuno di dire anche le cose più infami. Giusto, la libertà di
pensiero è sacrosanta e quindi va bene il diritto di Charlie Hebdo
di sproloquiare, ma è altrettanto sacrosanto il diritto di
dissentire e di chiamare chi è capace di esprimere schifezze del
genere col nome che merita: farabutto. E non solo perché come in
questo caso il farabutto offende il senso estetico ed etico, ma anche
perché è disonesto. Infatti di rimando alle critiche di cui è
stato oggetto, Charlie Hebdo ha pubblicato una seconda vignetta con
la quale ha chiamato in causa la mafia. La toppa peggiore del buco,
perché credo si possa dire che nel caso specifico la mafia c’entra
come il cavolo a merenda. Se infatti è vero che le esperienze
passate ci hanno abituato a forme di corruzione e ci fanno temere che
esse si possano ripetere anche nella ricostruzione di Amatrice,
Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, è altrettanto vero
che parliamo appunto di corruzione, un fenomeno nel quale noi
italiani certamente eccelliamo ma che prolifera sotto tutte le
latitudini ed è chiamata col suo nome senza scomodare la mafia. In
Italia invece no, la corruzione, secondo Charlie Hebdo, è mafia e
dunque non solo ci becchiamo l’epiteto di “lasagne”, “penne
gratinate e al pomodoro”, ma veniamo spicciativamente liquidati
come mafiosi, secondo l’equazione abusata che ci vuole tali in
quanto italiani e perciò capaci di esprimerci solo obbedendo a
categorie criminali. Per questa miserabile semplificazione che non è
esagerato definire razzismo, sappiamo chi ringraziare. Se i campioni
della morale a buon mercato che proliferano in casa (non “cosa”)
nostra e che hanno fatto della lotta alla mafia una professione
redditizia non facendosi scrupolo di barare, fanno sventolare il
vessillo di un Paese in cui il peggio è riconducibile sempre e solo
alla mafia e propongono teoremi improbabili secondo cui se in Alto
Adige abbattono un camoscio, se quattro gaglioffi si fanno complici
in attività corruttive nel comune di Pizzighettoni, se a Orgosolo
rubano una mandria di pecore, dietro ci sono interessi mafiosi ma
ignorano e, in alcuni casi, addirittura coprono patologie molto più
gravi nel cui elenco interminabile svetta al primo posto, appunto, la
corruzione che ci affligge da sempre e non certo grazie alla mafia
che semmai se ne serve come qualsiasi cittadino disonesto, non ci
dobbiamo poi lamentare se Charlie Hebdo maramaldeggia sulla nostra
mafiosità. La mafia è un bubbone che affligge il corpo della
società italiana e va combattuta, senza però dilatarne la portata e
inflazionarne il termine secondo la logica totalizzante del
politicamente corretto che erige il feticcio e se ne serve per
confondere le acque con forme di sciacallaggio che sono fuorvianti e
costituiscono un pericolo serio quanto quello della mafia.
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