Succede che nel mondo
dell’intransigenza morale le regole molto spesso vengano sospese e
venga stabilito cosa è giusto o ingiusto a seconda dei criteri
dettati dal monopolio dell’etica. E’ ispirandosi a questa logica
che appare giusto gettare gli inquisiti in pasto alla macelleria
mediatica se appena trapela la notizia di un avviso di garanzia e
trasformare quello che dovrebbe essere un elemento a tutela del
cittadino in uno strumento di tortura. L’avvocato Ingroia ha
puntato il dito contro la “crocifissione mediatica” subita dal
suo assistito Maniaci a seguito delle “rivelazioni di segreto
d’ufficio”, quella stessa crocifissione che gli inquisiti
subivano quando il magistrato Ingroia svolgeva la funzione di
procuratore aggiunto presso la Procura del Tribunale di Palermo e gli
spifferi sui segreti d’ufficio erano una consuetudine anche allora.
Accogliamo con soddisfazione la distinzione che egli fa tra
l’aspetto giuridico e quello etico delle condotte del suo
assistito, producendosi in una netta inversione di tendenza rispetto
alle sue precedenti convinzioni declinate quando sosteneva il primato
dell’etica rispetto al diritto. E’ vero, un conto è l’etica,
un conto sono le responsabilità penali e l’etica disinvolta del
signor Maniaci, poiché non travalica nell’illecito, non merita di
essere sanzionata penalmente, ma merita, eccome, di essere censurata
alla luce di ciò che trapela dalla intercettazioni. Secondo quanto
riportato dalla stampa infatti, egli considerava il suo impegno
antimafioso una specie di bancomat con cui acquisire prestigio
pregustando i vantaggi che gliene sarebbero derivati (“mi danno la
scorta, sono una potenza”), irrideva i protagonisti
dell’antimafia onesta e i servitori dello Stato trattando da
allocchi coloro che credevano in lui e con lui solidarizzavano, fino
al punto da definire str….il Presidente del Consiglio, spacciava
per intimidazioni mafiose episodi delittuosi maturati nel contesto di
uno squallido conflitto pecoreccio, insomma si cuciva addosso panni
troppo larghi taroccando il suo impegno di icona antimafia per
finalità strumentali. Il signor Maniaci ha tentato di farcela
credere, urlando la sua intransigenza farlocca nella quale ha finito
per restare impigliato egli stesso. Adesso è arrivato il suo turno
di finire sulla graticola, la sua testa di tribuno antimafia sta
rotolando nella polvere e sul piano penale sta pagando un conto che,
bisogna dirlo, non merita, mascariato com’è dal suo indebito
inserimento nello stesso provvedimento che ha portato all’arresto
di nove mafiosi. Accusato di avere estorto pochi miserabili euro,
subisce la legge del contrappasso, vittima della corsa a chi è più
intollerante alla quale egli stesso ha partecipato. L’avvocato
Ingroia a sua volta atterra tra i comuni mortali e si ritrova
intruppato tra quanti combattono ogni giorno la dura battaglia per
far valere uno straccio di diritto, piuttosto che impegnato, come
faceva un tempo, in crociate moralistiche che “fanno precipitare le
società nel dispotismo etico” (Luciano Violante). Scopriamo un
Ingroia nell’inedita veste di garantista che non le manda a dire ai
suoi ex colleghi. Meglio tardi che mai, solo che il nostro si
accorgerà presto che nelle sue nuove vesti non avrà vita facile,
saprà quanto costa promuovere il rispetto delle regole, se vorrà,
potrà assaporare il gusto della buona battaglia in nome dell’etica
dei principi piuttosto che dei privilegi e magari, chi lo sa, ci
risparmierà i toni di chi cade dal pero, scandalizzato per il
giustizialismo con il quale adesso è lui come avvocato a dover fare
i conti e che era nelle sue corde in un’altra stagione, quando i
conti dovevano farli gli altri .
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