Le vittime del terremoto, quelle che
hanno perduto la vita e quelle che in vita sono rimaste ma sono alle
prese col dolore e con la costernazione di una esistenza devastata,
sono costrette a subire l’oltraggio di una retorica melensa con cui
certa stampa declina la loro sofferenza e dei soliti proclami con cui
si esibiscono i politici. I soli che obbediscono a un minimo di
sobrietà sono i volontari i quali, silenziosi e pieni di
abnegazione, ci dimostrano di che pasta è fatta una certa Italia
quando è chiamata a gesti di solidarietà. Purtroppo l’esperienza
passata non ci dà molte speranze che le promesse di affrontare e
risolvere gli enormi problemi delle popolazioni terremotate siano
rispettate. Si è visto cosa è successo a L’Aquila, nel Belice e
in altre zone in cui la terra ha tremato e non c’è motivo di
essere ottimisti in questa circostanza. Bravi ad affrontare
l’emergenza, siamo invece incapaci di affrontare il problema della
ricostruzione laddove occorre progettualità, trasparenza,
efficienza, fantasia e quant’altro serve a realizzare fondamenta
solide che non si sbriciolino al primo appuntamento con l’ulteriore
terremoto. Per prima cosa ci dobbiamo dotare di una legislazione che
vincoli le costruzioni a regole ben precise e preveda sanzioni severe
nel caso in cui esse non siano rispettate, e ci dobbiamo impegnare a
ricostruire le case esattamente dove sono state distrutte perché è
lì che sono state seppellite le storie di tanta gente ed è lì che
bisogna farle rinascere. E poi occorre porre mano ad un nuovo
approccio nella cura delle nostre opere d’arte. Siamo un Paese ad
alto rischio sismico e quando dobbiamo fare i conti col terremoto di
turno, in ballo non ci sono solo vite umane e beni privati che,
cancellati dal sisma, rischiano di mettere in ginocchio l’economia
della zona, in ballo ci sono opere d’arte che appartengono
all’umanità e che abbiamo il dovere di tutelare. Lo dobbiamo al
mondo intero ma lo dobbiamo soprattutto a noi stessi, alle infinite
opportunità e alle ricadute positive che questo patrimonio ci offre.
In un Paese normale le vestigia antiche disseminate su tutto il
territorio dovrebbero costituire la prima industria con cui risolvere
problemi annosi di disoccupazione e di sviluppo. Si pensi a cosa
significherebbe per tutti una maggiore cura delle innumerevoli opere
d’arte che possediamo e di cui non abbiamo rispetto né contezza,
quali opportunità di lavoro procurerebbero a maestranze, artisti,
restauratori, imprenditori edili, il ripristino e la messa in
sicurezza di opere esposte agli accanimenti del tempo e della natura
e di quelle seppellite nei nostri scantinati che finora non hanno
visto la luce, una maggiore cura dei siti archeologici, una maggiore
promozione dell’immensa ricchezza che abbiamo e che dovrebbe farci
attestare al primo posto assoluto nel circuito turistico mondiale.
Questo disastro ci offre l’occasione di voltare pagina, e voltare
pagina significa correre in soccorso delle popolazioni disastrate con
un impegno più concreto delle solite parole al vento, ma significa
anche correre in soccorso di tutti i beni di interesse pubblico, fare
un censimento di essi, monitorarne le condizioni, restituirli allo
splendore che meritano, amarli e proteggerli avendo cura che non
vadano in pezzi al primo tremore della terra, aprire cantieri
pulsanti di vita. Sarebbe il modo migliore per soccorrere l’economia
collassata delle zone colpite dai terremoti in ogni angolo d’Italia
e per dare risposte ai tanti in cerca di lavoro, e sarebbe
soprattutto il modo migliore per onorare i nostri morti. Da qualche
parte ho letto che una operazione così massiccia non è fattibile
con le risorse finanziarie di cui dispone l’Italia e che essa può
essere resa possibile solo nell’ambito di una cooperazione europea
che dovrebbe contribuire in termini finanziari e chiudere un occhio
sul nostro debito pubblico. Da ogni angolo dell’Europa ci son
giunte attestazioni di solidarietà e belle parole, parole che ci
commuovono e aprono il cuore alla speranza ma che non devono restare
vuoti esercizi retorici, i nostri governanti facciano si che esse si
traducano in fatti, vadano a Bruxelles non col cappello in mano come
dei questuanti ma con la forza di un progetto credibile, sbattano i
pugni se necessario, ricordino che l’arte italiana è l’arte
dell’Europa e pretendano che essa si comporti da patria comune. L'Europa ci chiede di crescere, bene, il terremoto può essere l’occasione per sperimentare una sorta di terapia della crescita, ed è anche l'occasione per dimostrare che oltre a quella dei volontari esiste
un’altra Italia degna dei nostri morti.
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