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domenica 18 settembre 2016

I gattopardi

In un suo editoriale di qualche tempo fa sulla Sicilia Aldo Cazzullo lamentava la condizione in cui versa l’isola, interrogandosi su come sia possibile che una terra che ha dato i natali a Verga, Pirandello, Sciascia e altri straordinari protagonisti che hanno connotato quasi per intero la letteratura italiana del Novecento, sia la stessa terra che ha dato i natali a Lombardo, Crocetta e Cuffaro. Non riusciva a darsi una spiegazione. Una spiegazione invece se l’è data Ernesto Galli della Loggia quando anche egli, in un articolo di fondo apparso sul Corriere, ha denunciato lo stato comatoso in cui versa il Sud. In questo articolo egli descrive il quadro desolante di una realtà in disfacimento caratterizzata da una classe dirigente e politica imbarazzante (porta l’esempio del penoso intervento dell’onorevole Barbagallo nell’aula dell’Assemblea Regionale Siciliana), dall’assenza di prospettive di sviluppo, dall’elevatissimo tasso di disoccupazione, dalla carenza di servizi e infrastrutture, dall’inefficienza dell’elefantiaca burocrazia e naturalmente dalla presenza invasiva della criminalità organizzata. La causa di questo sfascio è dovuta, secondo Galli della Loggia, ad una antica indigenza, a secoli di malgoverno ma soprattutto alla latitanza dello Stato. Lo Stato in verità, secondo la sua analisi, ha tentato di correggere questa tendenza facendo da omogeneizzante culturale e sociale, favorendo lo scambio fecondo delle diverse sensibilità, conoscenze, usi, culture, idee che hanno arricchito il tessuto sociale dell’intera Nazione e l’hanno reso più coeso. Purtroppo, dopo gli anni 70, per una serie di motivi legati al mutato quadro politico e sindacale, è venuta meno questa funzione collante e lo Stato ha fatto un passo indietro rinunciando al suo ruolo di guida del Paese in settori strategici, delegando alle istituzioni periferiche una serie di prerogative importanti e lasciando campo libero all’autarchia, al familismo, al clientelismo, ai miserabili interessi localistici, in definitiva ai guasti che affliggono il Sud. La causa dei mali del Sud secondo Galli della Loggia è dunque da attribuire alla sopravvenuta latitanza dello Stato, non certo a “qualche malformazione genetica dei nostri concittadini di quelle regioni”. Dice proprio così, “concittadini di quelle regioni” e “quelle regioni” danno la misura della distanza che l’autore percepisce inconsciamente da terre lontane abitate da una umanità di cui fatica a decifrare l’indole. Se Galli della Loggia avesse consapevolezza di come siamo fatti veramente noi meridionali e i siciliani in particolare, eviterebbe giudizi frettolosamente assolutori, saprebbe che è vero il contrario di quanto egli afferma, che siamo irrimediabilmente malformati. Lo siamo da quando, alle prese con gli eventi che hanno attraversato la nostra storia, abbiamo dovuto fare i conti con essa e schivarne le insidie in un contesto in cui già allora latitava un potere centrale garante dei diritti di ognuno, da quando abbiamo dovuto imparare a contare solo su di noi e siamo diventati per questo motivo individualisti privi di illusioni, asociali guardinghi e sospettosi, levantini, padreterni alle prese col nostro smisurato ego, in guerra con tutto ciò che interferisce con esso. E’ così che ci siamo formati, con i molti vizi e le poche virtù che sono diventati il nostro patrimonio genetico. Prigionieri dei nostri geni, animali bradi privi di un sentire comune, rifiutiamo qualsiasi tentativo di inclusione. Ci è mancato uno Stato nel quale identificarci, e di conseguenza il senso dello Stato, e sbaglia, a mio avviso, Galli della Loggia quando afferma che lo Stato ha rinunciato a svolgere il suo ruolo negli anni 70. Lo Stato dalle nostre parti è sempre stato assente, persino in tempi recenti, quando una parvenza di unità ce ne ha regalato uno patrigno contro il quale abbiamo coltivato diffidenza e rancore. Capaci di dare il peggio di noi persino nelle grandi battaglie ideali che riusciamo a insozzare con secondi miserabili fini o, bene che vada, di esprimere personaggi patetici come l’onorevole Barbagallo, andiamo incontro al nostro destino senza sforzarci di imboccare la via per evitarlo, tranne che non prendiamo il largo dalle acque limacciose del nostro brodo di coltura e guadagniamo l’antica via dell’esilio. A mio figlio che si è visto costretto a riporre i suoi sogni nel cassetto e ha dovuto emigrare in Francia col cuore colmo dell’amore per la sua terra e il proposito di tornarvi, ho raccomandato di scordarsi di Palermo e non permettere a questa città infelice di sporcargli l’anima.  

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