In un suo editoriale di qualche tempo
fa sulla Sicilia Aldo Cazzullo lamentava la condizione in cui versa
l’isola, interrogandosi su come sia possibile che una terra che ha
dato i natali a Verga, Pirandello, Sciascia e altri straordinari
protagonisti che hanno connotato quasi per intero la letteratura
italiana del Novecento, sia la stessa terra che ha dato i natali a
Lombardo, Crocetta e Cuffaro. Non riusciva a darsi una spiegazione.
Una spiegazione invece se l’è data Ernesto Galli della Loggia
quando anche egli, in un articolo di fondo apparso sul Corriere, ha
denunciato lo stato comatoso in cui versa il Sud. In questo articolo
egli descrive il quadro desolante di una realtà in disfacimento
caratterizzata da una classe dirigente e politica imbarazzante (porta
l’esempio del penoso intervento dell’onorevole Barbagallo
nell’aula dell’Assemblea Regionale Siciliana), dall’assenza di
prospettive di sviluppo, dall’elevatissimo tasso di disoccupazione,
dalla carenza di servizi e infrastrutture, dall’inefficienza
dell’elefantiaca burocrazia e naturalmente dalla presenza invasiva
della criminalità organizzata. La causa di questo sfascio è dovuta,
secondo Galli della Loggia, ad una antica indigenza, a secoli di
malgoverno ma soprattutto alla latitanza dello Stato. Lo Stato in
verità, secondo la sua analisi, ha tentato di correggere questa
tendenza facendo da omogeneizzante culturale e sociale, favorendo lo
scambio fecondo delle diverse sensibilità, conoscenze, usi, culture,
idee che hanno arricchito il tessuto sociale dell’intera Nazione e
l’hanno reso più coeso. Purtroppo, dopo gli anni 70, per una serie
di motivi legati al mutato quadro politico e sindacale, è venuta
meno questa funzione collante e lo Stato ha fatto un passo indietro
rinunciando al suo ruolo di guida del Paese in settori strategici,
delegando alle istituzioni periferiche una serie di prerogative
importanti e lasciando campo libero all’autarchia, al familismo, al
clientelismo, ai miserabili interessi localistici, in definitiva ai
guasti che affliggono il Sud. La causa dei mali del Sud secondo Galli
della Loggia è dunque da attribuire alla sopravvenuta latitanza
dello Stato, non certo a “qualche malformazione genetica dei nostri
concittadini di quelle regioni”. Dice proprio così, “concittadini
di quelle regioni” e “quelle regioni” danno la misura della
distanza che l’autore percepisce inconsciamente da terre lontane
abitate da una umanità di cui fatica a decifrare l’indole. Se
Galli della Loggia avesse consapevolezza di come siamo fatti
veramente noi meridionali e i siciliani in particolare, eviterebbe
giudizi frettolosamente assolutori, saprebbe che è vero il contrario
di quanto egli afferma, che siamo irrimediabilmente malformati. Lo
siamo da quando, alle prese con gli eventi che hanno attraversato la
nostra storia, abbiamo dovuto fare i conti con essa e schivarne le
insidie in un contesto in cui già allora latitava un potere centrale
garante dei diritti di ognuno, da quando abbiamo dovuto imparare a
contare solo su di noi e siamo diventati per questo motivo
individualisti privi di illusioni, asociali guardinghi e sospettosi,
levantini, padreterni alle prese col nostro smisurato ego, in guerra
con tutto ciò che interferisce con esso. E’ così che ci siamo
formati, con i molti vizi e le poche virtù che sono diventati il
nostro patrimonio genetico. Prigionieri dei nostri geni, animali
bradi privi di un sentire comune, rifiutiamo qualsiasi tentativo di
inclusione. Ci è mancato uno Stato nel quale identificarci, e di
conseguenza il senso dello Stato, e sbaglia, a mio avviso, Galli
della Loggia quando afferma che lo Stato ha rinunciato a svolgere il
suo ruolo negli anni 70. Lo Stato dalle nostre parti è sempre stato
assente, persino in tempi recenti, quando una parvenza di unità ce
ne ha regalato uno patrigno contro il quale abbiamo coltivato
diffidenza e rancore. Capaci di dare il peggio di noi persino nelle
grandi battaglie ideali che riusciamo a insozzare con secondi
miserabili fini o, bene che vada, di esprimere personaggi patetici
come l’onorevole Barbagallo, andiamo incontro al nostro destino
senza sforzarci di imboccare la via per evitarlo, tranne che non
prendiamo il largo dalle acque limacciose del nostro brodo di coltura
e guadagniamo l’antica via dell’esilio. A mio figlio che si è
visto costretto a riporre i suoi sogni nel cassetto e ha dovuto
emigrare in Francia col cuore colmo dell’amore per la sua terra e
il proposito di tornarvi, ho raccomandato di scordarsi di Palermo e
non permettere a questa città infelice di sporcargli l’anima.
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