Bello il Natale, bello il solito rituale dei sentimenti
buonisti solennemente proclamati e non
autenticamente sentiti, belle le famiglie raccolte attorno al focolare domestico
intente, come ogni anno in questi giorni, a mentire sui buoni propositi che
saranno puntualmente disattesi, bello il trionfo delle luminarie per le strade
e lo splendore delle luci nelle vetrine dei negozi traboccanti di doni
luccicanti che sono un insulto alla miseria, bella la solidarietà per gli
ultimi compuntamente declinata ma dimenticata
per il resto dell’anno, belle le tavole riccamente imbandite e la crapula
smodata i cui avanzi prenderanno la via dei cassonetti dove i poveri andranno a
rovistare, belle le roboanti omelie degli improvvisati apostoli della carità
gonfi del sacro fuoco che metteranno in soffitta non appena sarà calato il
sipario sulla scena della rappresentazione in cartellone, bella l’ipocrisia di
un farisaico e mieloso afflato umanitario che durerà lo spazio di un mattino,
bello il grido del Papa contro lo scandalo della povertà mestamente destinato a
cadere nel vuoto di coscienze pie, bella l’aria ecumenica che invita a volerci
bene mentre il pugnale che colpirà alle spalle si nasconde tra le pieghe
dell’inganno, bello il clima festante che ignora il dolore del mondo. L’eco del
clamore pagano arriva nelle stanze della tortura ed aggiunge dolore a dolore infliggendo
una pena ancora più crudele della pena consueta. L’eco crudele giunge nelle
carceri e nelle bidonville, nei lebbrosari dei malati terminali, nelle mense in
cui si consumano le lacrime distillate da pasti non consumati, nei luoghi della
discarica in cui la società abbandona gli anziani, inutili resti di una umanità
che fu, nel desolato mondo dei reietti esclusi dal consorzio cosiddetto civile, in
tutti i luoghi dove l’uomo ha rinnegato se stesso. A tutti giungono proclami
che non dicono nulla e si aggrappano sconciamente alla inadeguatezza di una
pietà che pronuncia parole vuote, così come è vuoto l’augurio di buon Natale.
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martedì 25 dicembre 2018
venerdì 23 novembre 2018
Angeli e demoni
Si avvicinò con un sorriso sdentato e timido mimando con
l’indice e il pollice il segno dei piccioli e bofonchiando: “Scusassi,
scusassi”. L’aspetto era miserevole ma lasciava trasparire un trascorso stato
di benessere dal quale quell’uomo vestito
di una modesta ma linda grisaglia si era dimesso per ragioni che erano testimoniate
dalla sua dentatura irrimediabilmente consunta. La carie aveva cavalcato in
compagnia della incipiente indigenza ed era stata l’avanguardia dello stato di
povertà assoluta nel quale quel borghese piccolo piccolo sarebbe stato
traghettato. I denti guasti erano il biglietto da visita della sua condizione di
nuovo povero che, impegnato a tentare di arginare la rovina economica
incombente, non aveva avuto tempo, testa e risorse per occuparsi dei denti che stava perdendo. Ora era troppo tardi e se ne andava in giro a
questuare all’insegna di quel suo sorriso osceno. Fermo davanti a me, il capo
chino, in un’attesa priva di speranza, si
illuminò di stupore quando si accorse che armeggiavo col portafogli alla
ricerca di una banconota da offrirgli. Chissà dove viveva, chissà dove dormiva!
Ad un tratto mi vennero in mente i ritratti della galleria dei reietti nei
quali mi sono imbattuto durante la mia vita. Mi ricordai di quel distinto
signore che, sorpreso a rovistare nel cassonetto dell’immondizia all’imbrunire
quando il pudore trova riparo nelle prime ombre della sera, si giustificò con
aria colpevole e lo sguardo implorante, dicendo che era impegnato a cercare
qualcosa di suo che, chissà come, era andato a finire nel cassonetto. Ricordai
il suo imbarazzo e le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi spalancati in un
abisso di disperazione. Mi ricordai di Aldo e Giovanna agghindati e sorridenti
mentre, reduci dalla messa pomeridiana nella Chiesa della Mercede, passavano
con aria noncurante davanti al Boccone del Povero e, guardandosi circospetti
attorno, sgattaiolavano nei locali della mensa. Mi ricordai di Cecilia e
Alberto raggomitolati sotto una coperta di fortuna al riparo nei portici della
Chiesa di San Michele che, stretti in un abbraccio d’amore, le mani rinsecchite
dal freddo abbrancate le une alle altre, accoglievano con un sorriso grato gli
angeli della notte che portavano un pasto caldo. Mi ricordai di Costanza, tosta
e annerita dalla fuliggine del fuoco acceso ai bordi della tenda nella quale
era accampata e che divenne la sua urna funeraria quando le fiamme la
inghiottirono. Mi ricordai di Giovanni che diede un calcio ai suoi sogni di
promettente studente di filosofia e, come Diogene, si rifugiò nella sua botte
di frustrazione dalla quale usciva con sguardo furente. Mi ricordai di me migrato
dall’opulenza all’indigenza dopo avere attraversato un pezzo della mia vita
popolato da incubi. Mi chiesi allora, con l’irritazione di chi non capiva, perché
tanti nostri connazionali si spingono negli angoli più sperduti del mondo per
offrire la loro solidarietà a bisognosi lontani invece che ai nostri. Sennonché
ho letto gli insulti che sul web sono piovuti addosso alla povera Silvia
Romano, la ragazza rapita in Kenia, “colpevole” della sua generosità in un
posto così lontano, e mi sono vergognato della mia irritazione, anche perché
non ho attenuanti. Sono onorato dall’amicizia di una donna straordinaria che
spende la sua esistenza per gli altri senza porre confini geografici o di pelle
alla sua generosità. Dovrei sapere che cosa muove l’animo di persone come la
mia amica e Silvia Romano, così distanti anagraficamente e così vicini nel modo
di intendere la loro vita, donandola agli altri senza confini e senza
pretendere nulla in cambio. La mia amica non ha dimenticato lo slancio dei suoi
vent’anni e continua a sognare, dobbiamo sperare che, quando ci verrà
restituita, Silvia, a dispetto della sua terribile esperienza, continuerà ad
amare e anche lei a sognare e così riscattare l’umanità dall’infamia degli
sciacalli che appestano il mondo dei social e non solo quello.
giovedì 1 novembre 2018
L'etica dei nuovi governanti
Ero convinto con Churchill che la democrazia fosse la
peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre, ma ci ha pensato Di
Maio a mettere in crisi le mie convinzioni: grazie a lui ho scoperto che non
c’è niente di peggio di una democrazia capace di eleggere alla guida del Paese uomini
come il nostro vicepremier. Non varrebbe la pena di aggiungere altro
all’impareggiabile palmarès di questo incorreggibile gaffeur, ma le
performances che egli sforna a getto continuo suscitano reazioni pavloviane cui
è difficile sottrarsi. Uno che prima di governare l’Italia si è distinto per avere
ricoperto l’alto incarico di steward al S.Paolo di Napoli, si permette di trinciare
giudizi sui massimi sistemi senza avvertire i limiti della sua inadeguatezza.
Seduto sul trespolo, questo campione del rigore politico che già ci aveva
folgorati sulla via dell’impeachment al Capo dello Stato e ci aveva deliziato
sulle “manine” che, secondo lui, hanno inserito “a sua insaputa” norme in
provvedimenti del governo di cui lui è una delle guide, adesso si produce
nell’ultima delle sue imprese bacchettando nientemeno che Mario Draghi colpevole
di “ avvelenare nonostante sia italiano il clima ulteriormente”, solo perché ci
mette in guardia dai pericoli dello spread. Come se fosse scontato che Draghi,
per il fatto di essere italiano, debba rinunciare alla sua indipendenza di
giudizio e compiacere Di Maio. Evidentemente
al nostro giovane ministro sfugge il dettaglio che Mario Draghi è il Presidente
della BCE, che il suo ruolo gli impone l’obbligo di proteggere le sorti
dell’economia europea da iniziative che ritiene rischiose per esse e gli da il
diritto di esprimere il suo dissenso forte e chiaro in assoluta autonomia
persino rispetto al suo passaporto. E’ chiaro che svolgendo il suo incarico con
rigore e competenza come ha dimostrato di sapere fare Draghi guadagnandosi il
rispetto e la stima del mondo intero, fa anche l’interesse dell’Italia non
avallando iniziative scriteriate come pretende Di Maio e anzi mettendo in
guardia il suo Paese da quelli come lui. Ma stiamo parlando di una etica che
sfugge al nostro statista il quale si abbevera alle farneticazioni della rete e
disprezza il sapere, considerandolo una forma
di arroganza. E
a proposito di etica, un breve commento in margine alle reazioni suscitate
dalla sentenza di Strasburgo che ha condannato l’Italia per avere continuato ad
applicare il regime di 41 bis a
Provenzano nonostante le sue condizioni di salute. Contro di essa dalle parti
dell’universo gialloverde, in particolare da parte di Salvini che nella
circostanza ha definito l’Europa un inutile baraccone, si sono levate, puntuali, indignate proteste per quella che ritengono
una invasione di campo e un tentativo di mettere in discussione il 41 bis, e si
è sostenuto che nessun diritto è stato violato visto che Provenzano è stato
curato al meglio in una struttura ospedaliera. E’ appena il caso di ricordare a
questi misericordiosi farisei che anche gli animali destinati al macello
vengono pasciuti con gli alimenti migliori affinché le loro carni arrivino
nelle tavole dei consumatori più saporite. Ma qui si sta parlando di un uomo e del
suo essere ontologicamente inteso prescindendo dai suoi predicati accidentali, di
cui ha scritto un certo Aristotele, e non credo che lo Stato italiano, il quale
giustamente ha inflitto a Provenzano le dure pene che meritavano le sue colpe, abbia
rispettato negli ultimi suoi giorni di vita il suo essere in quanto tale prescindendo
dalle sue colpe. Credo piuttosto che l’Italia si sia lasciata prendere la mano dal
ricordo della empietà di Provenzano e in omaggio ad essa abbia tollerato che un
uomo ridotto a vegetale continuasse a subire la tortura del 41 bis. E’ questo
che ha sanzionato Strasburgo, non il 41 bis in sé, e questo, con tutto il rispetto
per il punto di vista dei nostri censori,
è un richiamo alla giustizia da non confondere con la vendetta.
venerdì 26 ottobre 2018
La favola della democrazia diretta
I nuovi arrivati ai vertici del potere, in preda ad una
insopprimibile sindrome di hybris, ci
ossessionano con il mantra della legittimazione elettorale: secondo questi
signori, i soli che meritano di essere presi in considerazione sono gli eletti
anche se inetti. Issati a bordo del potere a furor di un popolo con la bava
alla bocca che ha come unico scopo quello di farla pagare a chi li ha li ha
lasciati eredi del disastro attuale, questi miracolati non hanno saputo
cogliere l’occasione offerta dalla loro buona stella e trasformarla in
opportunità. Nella presunzione che il suffragio li esima dalla competenza, non
hanno avvertito il senso del ruolo insperatamente conquistato e non si sono
sforzati di realizzare il bene dei cittadini con l’arte del possibile ma, al
contrario, si sono prodotti in una vera e propria eterogenesi dei fini proponendo
rimedi che rischiano di peggiorare anziché migliorare le condizioni di salute
dell’ammalato. Si scagliano contro la democrazia rappresentativa che affida il
compito di governare alle élite selezionate attraverso un lungo percorso
formativo, pretendendo di realizzare la cosiddetta democrazia diretta che manda
al potere i campioni di un velleitarismo e di un pressappochismo il cui
indirizzo all’azione politica è dettato dal gradimento di una base fanatica che
trasmette veleni anziché saggezza. Il coraggio della solitudine degli uomini di
Stato che sanno andare controcorrente pur di fare il bene comune, è un
ingrediente che non appartiene agli attuali governanti i quali sanno solo perseguire l’obiettivo
contingente del consenso ad ogni costo, anche a costo di sfasciare la macchina
dello Stato. Evocano pericoli esterni, si scagliano contro fantomatici poteri
forti e contro l’Europa matrigna (che ha tanto da farsi perdonare per avere tradito
la sua vocazione solidale adottando una politica restrittiva che ha scoraggiato
la crescita, fatto diminuire il PIL, aumentare il debito e ha contribuito a innescare
rigurgiti “sovranisti”, ma alla quale
non c’è alternativa che non sia l’isolamento con conseguenze facilmente immaginabili), quando
invece l’unico vero pericolo arriva dai mercati, giudici inflessibili che non cedono
alla suggestione dei proclami. I numeri, veri indicatori del nostro stato di
salute, dicono che lo spread ha superato quota 300, che il nostro debito
pubblico è il più elevato d’Europa, dopo quello greco, che lo spettro del piano
B è ancora dietro l’angolo nonostante le rassicurazioni, che l’aumento del
deficit rispetto al PIL serve solo alla spesa corrente e ad alimentare un
assistenzialismo improduttivo e non una crescita che nelle proiezioni degli analisti è
addirittura dato sempre più in coda al
treno europeo, che prima o poi si porrà mano alla falcidia dei risparmi
privati, che i proclamati investimenti pubblici e le ventilate riforme
strutturali sono smentiti dalla tentazione di abbandonare alla incompiutezza
opere straordinarie e strategiche per il futuro del Paese, con enormi ricadute
in termini di occupazione e sviluppo, quali la Tav, la Tap, il tunnel del
Brennero scavato già per 90 chilometri e costato 1,8 miliardi,etc., e di
imbarcare nel carrozzone pubblico aziende decotte come l’Alitalia. Questo
scenario da ultima spiaggia è sotto gli occhi dei mercati i quali traggono le
loro conclusioni con spietata coerenza. Cercare altrove responsabilità è
strumentale e disonesto.
sabato 13 ottobre 2018
Travaglio
Durante un duello televisivo con Severgnini, Marco Travaglio
ha sentenziato: “Due istituzioni, FMI e Bankitalia non sono elettivi e non
possono permettersi di dire ai governi quali leggi devono fare, quali devono
mantenere, quali non possono cambiare e quali possono cambiare. Avrebbero
semmai potuto dire che le stime di crescita del governo sono troppo
ottimistiche e questo è quello che hanno detto agli altri governi. Invece con
questo governo hanno fatto qualcosa di più, hanno detto che cosa non si può
toccare. Io capisco che a tanti non importa che la maggioranza degli elettori
chieda che siano riformati il iobs Act e la legge Fornero e sia introdotto il
reddito di cittadinanza ma, purtroppo, fino a quando nella Costituzione ci sarà
scritto che la sovranità appartiene al popolo, la sovranità apparterrà al
popolo e non a Bankitalia o al FMI. Quando il popolo si pronuncia e premia due
forze che vogliono riformare delle leggi queste ultime vanno riformate. Si può
criticare quelle forze che non trovano le coperture ma non gli si può dire che
cosa possono o non possono fare, perché quelle scelte riguardano la politica”.
In un suo editoriale apparso sul Corriere dell’altro ieri il prof. Cassese
sostiene esattamente il contrario. Egli infatti, commentando la dichiarazione
dell’on. Di Maio che invita Bankitalia a candidarsi alle prossime elezioni
affermando che solo ricevendo il mandato dalla volontà popolare essa può
sindacare l’azione del governo, scrive: “Per il vicepresidente del Consiglio tutto
il potere discende dal popolo ed è sempre il popolo che, mediante le elezioni,
deve pronunciarsi. La democrazia è ridotta ad elezioni e anche i vertici della
Banca d’Italia debbono presentarsi all’elettorato o sottostare alla volontà del
governo. Questa è una versione romanzata della democrazia che, invece, ha al
suo interno poteri e contropoteri, non tutti con una investitura popolare
diretta. Le corti giudiziarie, la Corte costituzionale, le autorità
indipendenti, le università, sono corpi autonomi, alcuni garantiti come tali
dalla Costituzione.” E procede spiegando che cosa è il pluralismo in
democrazia, come si impedisce la tirannide della maggioranza e si garantiscono
i diritti individuali nei confronti dell’opinione e dei sentimenti prevalenti
grazie ai pesi e contrappesi che servono a equilibrare i poteri dello Stato,
come ci hanno insegnato pensatori quali Alexis de Tocqueville e Stuart Mill le
cui idee sono state alla base della democrazia moderna. La lezione del prof.
Cassese dovrebbe servire a far capire a Travaglio che la sovranità popolare non
può tutto e va esercitata solo entro i confini posti dal dettato costituzionale
il quale peraltro attribuisce ad altri poteri altrettanta sovranità non
condizionabile. Che è vero che agli eletti dal popolo non si può dire quello
che debbono fare ma è altrettanto vero che gli si può benissimo dire quello che
non possono fare. E una cosa che non
possono fare, neanche in omaggio alla volontà del popolo, è sfasciare lo Stato.
Ci sono gli anticorpi costituzionali che l’impediscono e dovrebbe esserci anche
il buonsenso degli stessi eletti i quali debbono sapere esercitare il loro
ruolo di guida e discernere ciò che la dura realtà consente di fare,
contrastando l’assalto all’albero della cuccagna dei loro stessi elettori e scoraggiando
istanze che, ahinoi, appartengono al libro dei sogni. E’ nobile tentare di
correggere una realtà che tutti riconosciamo ingiusta e fanno bene i nuovi
governanti a tentare di farlo purché non si lascino prendere la mano dalle loro
buone intenzioni e non ci raccontino la favola dell’abolizione della povertà. Di
buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno tanto per citare il buon Marx
e non è il caso di buttare con l’acqua sporca anche il bambino. E tanto per
essere chiari, come fa giustamente notare il prof. Cassese, 16 milioni di
votanti che hanno premiato i due partiti di governo, non sono la maggioranza
degli italiani aventi diritto di voto.
venerdì 12 ottobre 2018
Saviano
Da cronista impegnato a inseguire per i vicoli di Scampia notizie
sui fatti di sangue della camorra, a icona della galleria delle patacche
allestita dai sacerdoti del politicamente corretto, Saviano ne ha fatta di
strada. Star tra le più ambite nei
salotti che contano, al punto da essere stato ricevuto all’Eliseo e avere
vissuto una serata da protagonista a casa di Bernard-Henry-Lévy, idolo dei talk
show che se lo contendono trattandolo come un oracolo, egli è l’esempio di come
dal nulla nasce un mito. La fulminea escalation del guaglione rampante si inquadra
nella necessità della nomenklatura intellettuale imperante di sostituire vecchi
arnesi, contrabbandati per anni quali paladini dei diritti fondamentali e nel
frattempo andati in pezzi, con nuovi campioni
improbabili ma utili ad alimentare il mito di un déjà-vu caduto in disgrazia. E’
una necessità che non riguarda solo la galassia italiana tanto è che l’inossidabile Bernard Henry-Levy, cui non fa
certo difetto la faccia tosta e che è stato uno degli artefici della crociata
contro Gheddafi millantando la difesa dei diritti umani, con i risultati che
sono sotto gli occhi di tutti, non pago del suo capolavoro, si è lanciato nella
nuova titanica impresa di portare sugli scudi nientemeno che Saviano
difficilmente individuabile quale titolare di meriti che giustifichino la sua accoglienza
come ospite d’onore in uno dei salotti più esclusivi dell’intellighenzia francese.
Pur di issare uno straccio di vessillo ideologico lo spocchioso Henry-Levy è
disposto ad accontentarsi di un tribuno che ha saputo dargliela a bere, senza
star lì a fare troppo lo schizzinoso. D’altronde in fatto di patacche la
Francia non è seconda a nessuno, avendo essa ospitato nientemeno che nelle
vesti di rifugiati politici, fior di galantuomini come Toni Negri e Cesare
Batisti, fatte naturalmente le debite differenze. I nostri intellettuali dal
loro canto, a corto di argomenti e di eroi, sconfitti in tutti i campi in cui
si sono cimentati e dove hanno lasciato solo macerie, hanno eletto a loro campione Saviano il quale
non si è fatto pregare e, investito del ruolo, non ha esitato a proclamarsi la
coscienza più autentica di una Italia virtuosa. Ispirandosi a categorie
manichee egli stabilisce cosa è giusto o cosa non lo è, chi è santo e chi è
diavolo, se condannare Salvini che, essendo un diavolo non può non avere violato
la legge, e assolvere Mimmo Lucano che ha, si, violato la legge ma con i panni
del santo. Niente di nuovo in un universo che da sempre procede per dogmi, in
cui si fa valere il principio di due pesi e due misure a seconda della
categoria di appartenenza, ma non lamentiamoci poi se i barbari sono alle
porte. Nessuno disconosce i meriti e il coraggio di Saviano dimostrati nella
sua denuncia dei misfatti della camorra e l’idea di privarlo della scorta è
insensata, ma è altrettanto insensato fare di lui il re travicello che decide
che cosa è giusto e cosa non lo è. Il signor Saviano costruisca pure sulla sua
vicenda una fruttuosa rendita di posizione ma per carità non pretenda di
colonizzare le nostre coscienze raccontandoci che la sua coscienza è più
consapevole e candida della nostra.
mercoledì 3 ottobre 2018
Di Maio
Se fossimo un popolo che ha a cuore il proprio destino
dovremmo sentire il puzzo di carne marcia che esala dal nostro organismo in
putrefazione. Siamo un Paese allo
sfascio e la finanza allegra alla quale si dedicano i grillini ricorda l’anima
spensierata dei governanti che li hanno preceduti e lasciati eredi di vizi
antichi. Questi strani personaggi piombati sulla scena politica e il loro capo,
l’on. Di Maio, più che a politici somigliano ad un allegra brigata di fanciulli
che si baloccano con un giocattolo più grande di loro trotterellando sul
cavallo a dondolo della decrescita felice.
L’on. Di Maio ha nel volto glabro di bambino mai cresciuto le fattezze
di un pierino capriccioso che scambia le favole con la realtà e fa le bizze se
non viene accontentato. Calca la scena nazionale e internazionale come fosse il
cortile di casa e gioca le partite dei grandi dove sono in ballo le sorti delle
nazioni come una partita a tresette nel circolo di quartiere. Il guaio è che egli è solo la punta dell’iceberg
di una massa informe, incapace di pensare, sedotta dagli spin doctor che manipolano
le menti e drogano la rete inserendo in essa veleni che incitano alla rivolta e
producono refrains demenziali. Siamo alla dissennatezza in libera uscita e Di
Maio ne è l’interprete più autentico. Vedere all’opera il nostro vice
presidente del Consiglio fa tremare i polsi. Poiché è stato eletto dal popolo l’on.
Di Maio ritiene di potersi permettere tutto, anche di infischiarsi della
Costituzione e di ribaltare prassi collaudate, piegare uomini e regole ai suoi
capricci, chiedere avventatamente l’impeachment contro il Capo dello Stato,
fare la guerra alle autorità indipendenti accusandole di essere nemiche del
popolo, fuggire dalle proprie responsabilità ed evocare fantomatici congiurati che
tramano nell’ombra, condurre battaglie che appaiono generose ma che sono velleitarie. La battaglia in difesa dei più deboli di cui
pretende di farsi unico interprete l’on. Di Maio, è sacrosanta e non è certo
lui che ce lo deve ricordare perché essa rientra tra i compiti fondamentali della
politica, ma è altrettanto saggio non fare correre nel nome di questa battaglia rischi
mortali al Paese con ricette suicide. Ed
è sacrosanta anche la battaglia contro la finanza globale che ha ormai preso il
sopravvento sulla politica, una battaglia che però deve sapere recuperare
anziché demonizzare la politica, l’unico strumento, se utilizzato in maniera
virtuosa, di cui disponiamo a sostegno della
stessa sopravvivenza della democrazia e della lotta a favore dei più deboli. Gli
avversari politici infine non sono nemici da mettere all’indice solo perché osano
opporsi al dogma del pensiero unico predicato dal nostro, essi al contrario hanno
il merito di dare un contributo di idee che possono essere condivise o no ma
che sono legittime e utili al dibattito politico. Issato dal popolo ai vertici
dello Stato, preso di sé e della presunzione di operare miracoli come
nientemeno quello di abolire la povertà, l’on. Di Maio svolge diligentemente e
più o meno consapevolmente il ruolo di utile idiota al servizio del famigerato
piano B di cui si è infatuato probabilmente perché non ha ben ponderato la
portata delle conseguenze che ne deriverebbero. Quando da piccoli giocavamo a
mosca cieca capitava spesso di dovere fare i conti con bizzosi compagnetti che
non accettavano le regole del gioco e pretendevano di imporre quelle che gli
suggeriva l’educazione al soddisfacimento del loro ego impartita da genitori
inadeguati. I progenitori di Di Maio, purtroppo per noi, non sono inadeguati ma
perfidamente capaci di confezionare il pupo che interpreta fedelmente la parte
che gli è stata assegnata. Ci sorge però un dubbio, forse non abbiamo capito un
bel nulla, forse non abbiamo capito che il nostro Richelieu pensa con la
propria testa e ha una propria strategia, quella cioè di andare ai materassi
(lo ha scritto a suo tempo Grillo), cavalcare l’ira della gente perpetuando un
clima di conflitto in cui agitare la solita bandiera populista che colmi il
vuoto nel quale volteggia la sua distopia e, anche grazie alla concessione di
mance assistenziali, continuare a incassare dividendi elettorali. Un’altra
spiegazione potrebbe essere la voglia di rivincita di chi, baciato dalla
fortuna, si è ubriacato del suo nuovo stato, ha perso il senso della misura e,
come tutti i nuovi arricchiti, si prende la sua brava rivincita abusando del potere
conquistato e illudendosi così di riscattare il suo passato di travet. E l’interesse del popolo? Quella è un’altra
storia che non ha niente a che vedere con la battaglia dell’on. Di Maio.
venerdì 21 settembre 2018
L'Europa dei Rodomonte
Prima la signora Bachelet che ha messo nel mirino l’Italia,
adesso il signor Asselborn, ministro degli esteri del Lussemburgo che
aggredisce Salvini reo di avere
affermato che in Italia non abbiamo bisogno di schiavi e che se proprio ci
tiene sia il Lussemburgo ad accoglierli, e finisce in bellezza con un
perentorio “et merde, alors”. Sembra proprio che quando si tratta dell’Italia
tutti si scoprano dei giganti. Ce lo meritiamo perché non abbiamo mai saputo
proporci in Europa in modo credibile, abbiamo sottovalutato il nostro ruolo in
seno ad essa, abbiamo gestito i nostri conti in maniera da dovere piatire
continuamente deroghe alle regole comunitarie, ci siamo fatti la fama di Paese
poco affidabile e il risultato è che viene facile anche all’ultimo arrivato
mancarci di rispetto. La responsabilità chiaramente non è dei nuovi governanti
ma di chi li ha preceduti, di coloro cioè che, impegnati a specchiarsi nelle
acque del loro narcisismo e a darsi battaglia circumnavigando il proprio
ombelico, non hanno saputo dare alla loro azione politica un respiro
internazionale, non hanno saputo fare nulla per evitare la retrocessione
dell’Italia nella fascia dei Paesi ininfluenti e anzi hanno fatto di tutto con
la loro inadeguatezza perché ciò accadesse. Ormai fuori gioco, questi signori
sanno solo guardare scandalizzati all’avanzata dei” barbari” e tentare di
screditarli tifando per Bachelet e Asselborn, e poco importa se, così facendo,
si schierano contro il loro Paese ma soprattutto contro una onesta narrazione
dei fatti. Se parliamo dei nuovi arrivati le cose non vanno meglio. Seppure incolpevoli
del disastro che hanno ereditato, essi sono colpevoli delle conseguenze che sta
producendo il loro dilettantismo incapace di affrontare l’emergenza con il buon
senso e il pragmatismo che la situazione impone. Anche loro infatti, sudditi di
una ideologia stracciona, invece di studiare e trovare soluzioni adatte alla
bisogna, invece di fare analisi lucide e adottare decisioni che servano a
sanare il disastro che hanno trovato, non hanno saputo fare di meglio che
cavalcare la rabbia della gente inseguendo traguardi irreali e, se parliamo di
Europa, ingaggiando un braccio di ferro che non possiamo permetterci e che ci
aliena le simpatie dei più. Il risultato è che persino un signor Asselborn
qualsiasi si può permettere di trattarci come ha fatto. Perché poi? Se è vero
che Salvini ha usato il termine schiavi, è pure vero che il signor Asselborn ci
ha marciato in assoluta malafede. Quando infatti Salvini, oltre a illudersi che
le nostre donne procreeranno nuove forze lavoro, afferma che l’Italia non vuole
accogliere nuovi schiavi, non intende etichettare spregiativamente i migranti
ma fare l’ovvia considerazione che una accoglienza offerta in un contesto che
non è in grado di integrarli dignitosamente, rischia di avviare questi
disgraziati ai lavori più degradanti se non addirittura al malaffare e
all’accattonaggio, in definitiva ad una nuova forma di schiavitù. E l’invito al
Lussemburgo di accoglierli a casa propria non può suonare offensivo per un
Paese che si dice solidale. Dove è dunque lo scandalo? Si ha come l’impressione
che non si riesca a perdonare a Salvini la colpa di esistere e gliela si voglia
far pagare censurandolo anche quando dice cose ragionevoli. Non è una forma di razzismo oltre che una
mancanza di garbo istituzionale quella che il signor Asselborn riserva al
nostro ministro quando lo contesta immeritatamente e lo apostrofa con quei
toni, lanciando addirittura il microfono sul tavolo? Per una volta che Salvini riesce
a non andare fuori dal seminato ci pensa il signor Asselborg a non farci
mancare atteggiamenti da bullo. Che lezioni ci può dare poi un signore che
rivendica al Lussemburgo il merito di una della pagine più nere della
migrazione europea? Quando l’ineffabile ministro degli esteri lussemburghese si
vanta dell’accoglienza riservata dal Lussemburgo ai migranti italiani nel
dopoguerra, sembra non rendersi conto che i nostri poveri compatrioti in quelle
contrade vissero una vita disumana e molti di loro, 136 per la precisione,
morirono nell’inferno di Marcinelle. Di che cosa dunque mena vanto il signor
Asselborn e Salvini che fa? Proprio lui che ci ha abituato ad un profilo
tonitruante quando gioca in casa, non ha saputo rimbeccare questo galantuomo col
giusto piglio. Siamo messi veramente bene! Fortunatamente la spacconata del
signor Asselborn ci salva dal gradino più basso, c’è chi sta peggio di noi, ma
ciò non toglie che siamo incapaci e imbelli.
sabato 15 settembre 2018
Totò Cuffaro e la sua nuova coscienza
Presso l’aula dell’ARS intestata a Piersanti Mattarella si è
svolto nei giorni scorsi un convegno sul sistema carcerario e sul disagio dei
familiari dei detenuti, promosso dall’on. Figuccia, relatori Salvatore Cuffaro,
ex detenuto, come recitava la locandina, il prof. Fiandaca ed altri che si sono
succeduti con i loro interventi. Sia il parterre che il tavolo della presidenza
offrivano un bel colpo d’occhio. La gente era tanta, come accade quando scende
in pista l’ex presidente della Regione Siciliana, e confesso che una così folta
presenza mi ha fatto dubitare della sincerità di quella partecipazione. In un
Paese come l’Italia in cui i benpensanti, bene che vada, storcono la bocca quando
si parla di carcere e, se sono in vena di giustizia sommaria, chiedono che la
cella diventi la tomba del detenuto, non c’è da farsi molte illusioni. Cuffaro
gode tuttora di parecchio seguito ed era difficile distinguere tra l’affetto
che gli ancora numerosi seguaci nutrono per lui e l’interesse sincero per
l’argomento oggetto del dibattito. La materia non è facile da affrontare, bisogna
essersi sporcati veramente le mani per sapere di cosa si parla, bisogna avere
sudato lacrime e sangue per sapere esprimere appieno l’idea di che cosa è la
condizione del detenuto. Non è solo il corpo che viene imprigionato, è l’anima
la vera vittima di una necrosi che uccide lo spirito giorno per giorno e ti
trascina in un abisso senza ritorno se una mano pietosa non ti soccorre. Ebbene
i relatori del convegno hanno saputo rendere il senso di questa tragedia, hanno
preso per mano l’uditorio e l’hanno guidato passo passo nei sentieri di un percorso accidentato narrandone tutte
le asperità e ricevendone in cambio una partecipazione attenta e commossa. Sul
versante strettamente tecnico il prof. Fiandaca ha messo l’accento su alcune storture
del sistema carcerario denunciando l’uso strumentale della legalità e la
mancanza di coraggio della politica che si guarda bene dal prendere il toro per
le corna e affrontare come si deve un problema tanto serio, temendo una
ricaduta negativa in termini elettorali. Il prof. Vitale e la prof.ssa Lo Curto
ci hanno esortato a non dimenticare che i detenuti sono delle persone, che la
solidarietà è una moneta che rende più di quanto non pretenda, che tutti siamo
colpevoli, persino i magistrati i quali, invece che nell’eremo delle loro
coscienze, a volte decidono secondo categorie ideologiche e di appartenenza, che
la detenzione non può essere fatta scontare in modo afflittivo ma deve sapere afferrare
per i capelli uomini che possono essere redenti e a volte salvati da se stessi
prima che decidano di farla finita. I toni sono stati toccanti e hanno avuto
l’apogeo nell’intervento di una ragazza disabile che dalla sua carrozzina ci ha
ammoniti contro il demone del pregiudizio. E naturalmente la chiusura è stata
tutta per Totò Cuffaro al quale nessuno deve insegnare quali sono le corde da
toccare. Ha descritto la sua sofferenza ma soprattutto la sofferenza dei suoi
ex compagni di pena che non ha dimenticato e ai quali offre il contributo del
suo impegno e della sua testimonianza mettendosi in gioco anche a rischio di
essere azzannato dai forcaioli di turno. Chi come me ha vissuto lo stesso
destino di Cuffaro si è sentito a casa, al riparo dalla damnatio, risarcito
dopo anni di emarginazione, in quell’aula che porta il nome di un martire, ha
percepito che quel martire da lassù approvava, che in quell’aula si stava onorando
la pietà mentre fuori da essa andava in scena il siparietto di una sparuta pattuglia di
irriducibili che si esibiva nel solito, logoro copione all’insegna
dell’intolleranza.
giovedì 13 settembre 2018
L'ONU ovvero dell'improntitudine
La signora Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’ONU
di recente nomina, ha esordito col
botto. Secondo lei l’Italia sarebbe un Paese razzista al punto da dovere
essere sottoposto alla verifica degli ispettori dall’ONU. Da che mondo è mondo
il bue chiama cornuto l’asino e allo stesso modo la signora Bachelet, rappresentante
di un organismo che ha perduto la sua credibilità avvitandosi in imbarazzanti
contraddizioni proprio sul tema dei diritti civili, pretende di impartire
lezioni ad un Paese come l’Italia. Non sempre si possono condividere le sparate
di Salvini ma stavolta non si può non essere d’accordo con lui quando afferma
che l’ONU non si può permettere di accusare di razzismo un Paese che è in testa
alla lista delle nazioni che prestano opera di volontariato in tutti gli angoli
del mondo e che sul proprio suolo ha fatto approdare e in parte accolto più
migranti di qualsiasi altro Paese europeo. Né noi italiani possiamo essere
liquidati come razzisti solo perché qualche idiota, che rappresenta solo una
infinitesima parte di quel caritatevole popolo che è il popolo italiano, si
abbandona a qualche gesto di intolleranza. La signora Bachelet ha tutto il
diritto di esprimere il suo dissenso sul provvedimento che ha bloccato a bordo
della Diciotti 177 migranti per diversi giorni, ma non quello di disporre una
ispezione sul nostro territorio trattandoci alla stregua di uno dei tanti Paesi
dall’incerta connotazione democratica di cui trabocca l’ONU e contro cui
proprio l’ONU, chissà perché, si guarda bene dall’intervenire. Da noi, grazie
al cielo, gli anticorpi funzionano, esiste una magistratura che vigila e che nella
fattispecie si è mossa prontamente agendo contro quello che, a torto o a
ragione, ha ritenuto un reato, non c’è dunque bisogno di gendarmi esterni,
abbiamo le nostre istituzioni che funzionano egregiamente e sanno essere un
efficace baluardo dei diritti. Evidentemente gli occhiuti commissari dello
strabico organismo internazionale si sono distratti e hanno colpito il
bersaglio sbagliato rivolgendo all’Italia accuse che dovrebbero rivolgere
all’Europa per il cinismo con cui essa ignora il problema dell’emigrazione riversandolo
tutto sulle spalle dell’Italia. E’ bene chiarire che un conto è la disposizione
discutibile di trattenere per giorni centinaia di migranti sulla Diciotti, un
altro conto è correre ai ripari chiudendo i nostri porti alle navi che
soccorrono i migranti esattamente come fanno tanti altri Paesi affacciati nel
Mediterraneo e quelli dell’entroterra che chiudono le loro frontiere. Il nostro
giro di vite serve proprio a risolvere nell’interesse dei migranti un problema
che da soli non siamo in grado di affrontare o che rischiamo di affrontare male
e non può diventare pretesto per mettere in dubbio la nostra umanità e la nostra
proverbiale disponibilità all’accoglienza. In base a quale principio i migranti
dovrebbero approdare tutti sulle nostre coste e perché, se tentiamo di
impedirlo, siamo accusati di razzismo, mentre invece gli altri Paesi possono tranquillamente
adottare una politica di respingimento senza dovere temere nulla? E’ una domanda
che poniamo alla solerte signora Bachelet
rappresentante di un organismo che ha eletto alla presidenza del
Comitato Consultivo del Consiglio dei diritti umani nientemeno che l’Arabia
Saudita paladina, come tutti sappiamo, dei diritti umani. Ed è una domanda alla
quale dovrebbero rispondere certi personaggi della nostra sinistra i quali,
come al solito, hanno perduto una buona occasione per tacere.
martedì 21 agosto 2018
Genova
A Genova si è consumata una tragedia e, come se non
bastasse, i corvi si sono avventati sul dolore dei genovesi per farne
mercimonio. Una vicenda che non doveva accadere, che doveva essere gestita con
la sobrietà che le circostanze imponevano, ha dato la stura alla consueta
litigiosità italiana. Siamo un popolo dalle due facce, capace di gesti di
eroismo e di solidarietà uniche al mondo, che nella circostanza ha saputo
stringersi con amore attorno a Genova, ma che nella stessa circostanza si è reso
protagonista di condotte imbarazzanti ad opera dei soliti disinvolti uomini
politici. La sobrietà, il dolore e la
volontà sincera di porre mano ai rimedi che il disastro imponeva, una emergenza
che esigeva di far quadrato e di trovare una unità di intenti, hanno lasciato il
posto a una girandola di accuse e giudizi sommari di iconoclasti invasati. E’
stato il festival delle cadute di stile. Ha cominciato la nuova maggioranza
alla quale non è parso vero di fare della tragedia un’occasione ghiotta per sferrare
un attacco agli avversari aizzando la piazza e fomentando voglie di vendetta pur
di lucrare un minimo di consenso, ma dimenticandosi di quando definiva una
“favoletta” il pericolo di crollo del ponte e giudicava inutile un’opera come
la Gronda. Per di più si è avventurata con la solita approssimazione in
propositi che non hanno nulla da spartire col buon senso e il rigore che una
materia così delicata imporrebbe. Fa un certo effetto sentire affermare dal
Presidente del Consiglio che bisogna sbarazzarsi immediatamente della
concessionaria Autostrade senza attendere “le lungaggini della giustizia”. Come
fa un certo effetto sentire il ministro Toninelli preannunciare che si costituirà
parte civile contro la suddetta concessionaria, ignorando che proprio il suo
dicastero, in quanto responsabile dei controlli sulla manutenzione del ponte,
potrebbe essere chiamato anche esso in causa. In questo caso che cosa fa il
signor Ministro, si costituisce parte civile contro se stesso? Evidentemente i
suoi burocrati non hanno fatto in tempo ad avvertirlo. Procedendo nella
carrellata delle minzioni fuori dall’orinale, segnaliamo l’attivismo del signor
Casalino, improbabile portavoce dei penta stellati, il quale non ha avvertito alcun
senso di vergogna quando, nel momento stesso in cui si svolgevano i funerali di
Stato delle vittime, ha inondato di messaggi i siti dei giornali invitandoli a
dare risonanza alla notizia delle ovazioni al suo boss, l’on. Di Maio. L’animo
del signor Casalino vibra di commozione per il tributo riservato al suo capo
più di quanto non riesca a fare per l’atmosfera di dolore che si respirava
durante le esequie. Per la sua parte la concessionaria Autostrade non è stata
da meno fottendosi del dolore dei familiari delle vittime e preoccupandosi, a caldo
e con i cadaveri ancora fumanti, di rivendicare il suo diritto a non essere
intaccato nei suoi interessi. Sull’antica maggioranza è meglio stendere un velo
pietoso. Essa è ritenuta (a torto o a ragione, si vedrà) la compagine che ha concesso un autentico
monopolio ad un privato e che ha avuto nei confronti di esso un atteggiamento
compiacente tanto da autorizzare sospetti inquietanti, ed è percepita come corresponsabile
del disastro. Ha balbettato accusando i legastellati di sciacallaggio e
imbastendo un maldestro tentativo di difesa del proprio operato che è sembrato
una difesa d’ufficio della concessionaria. Un vero e proprio autogol! Tra veleni e voglie di rivalsa la politica,
come si vede, non ha saputo superare i
suoi conflitti, non ha saputo affrontare facendo fronte comune una tragedia che
riguarda tutti, rimboccandosi le maniche
per ricostruire quello che è stato distrutto e rinviando a tempo debito la resa
dei conti. 43 persone sono morte, una città è in ginocchio e attende risposte
dalla politica che non siano il solito déjà vu. E attende anche giustizia. Se dagli
atti delle indagini dovessero emergere incuria, mancanza di prevenzione e di
controlli, se dovesse risultare che la tragedia di Genova è frutto della
collusione tra una finanza vorace e una politica infedele, che ai vertici della politica e della imprenditoria siede
una corruttela che in questa vicenda si è fatta prendere la mano dall’improvvisazione
e dall’ingordigia e ha sacrificato sull’altare del profitto 43 vite come usa
nelle più spietate mattanze di mafia, si abbia il coraggio di mirare in alto e
di punire con esemplare severità.
martedì 7 agosto 2018
La pena di morte
La pena di morte
Ci tocca tornare a parlare dei reietti
dopo che il Papa ha deciso di riscrivere il catechismo affermando che
“la pena di morte è inammissibile perché attenta
all’inviolabilità e dignità della persona”. Il Vangelo, secondo
la lettura intransigente del Papa che, per inciso, contraddice
posizioni di diverso avviso di alcuni Padri della Chiesa, non
consente all’uomo di violare la vita concedendogli solo la libertà
di viverla, seppure con sofferenza, in obbedienza al volere divino.
Che dire? Riesce difficile condividere una logica che non lascia
spazio al libero arbitrio dell’uomo e non gli permette di
ribellarsi al destino persino quando esso condanna al dolore. E
tuttavia anche per chi si schiera dalla parte del Papa si impongono
alcune riserve. Cosa significa infatti parlare di dignità della
persona come fa il Papa limitandosi ad ammonire che la pena di morte
attenta ad essa ma ignorando che la dignità reclama ragioni alle
quali è la vita stessa ad attentare più che la morte? Che dignità
è quella vissuta da chi vive in stato di costrizione senza
prospettiva che questa condizione cessi se non con la morte? E’ la
condizione degli ergastolani, dannati che muoiono ogni giorno vivendo
una vita apparente, che trascinano le loro giornate scandite dal
suono dei loro passi sempre uguali e sempre più stanchi, uomini
murati vivi che cercano di dare un senso ad una esistenza senza più
ragioni, diventati, dopo decenni di carcere duro, estranei a se
stessi, avanzi dolenti dell’antico contesto, ossessionati dal
pensiero onirico latente di quell’infido appuntamento estremo che è
il suicidio, vittime di quella che Girard chiama “vendetta
inutile”, frutto di una società in cui “il malvagio e il debole
non possono cadere più in basso della peggiore bassezza che c’è
anche in tutti noi…..perché, come una foglia non impallidisce
senza la muta complicità di tutta la pianta, così il malvagio non
potrà nuocere senza il tacito consenso di tutti noi” (Kahlil
Gibran). Invocano la morte come una liberazione mentre guardano
all’orizzonte infinito del fine pena mai. E’ un contesto nel
quale la persona è privata della propria dignità dalla vita
piuttosto che dalla morte. In queste condizioni la vita non merita di
essere vissuta e la Chiesa non può restare sorda alla pietà
limitandosi a proclamare il mantra della sacralità della vita anche
quando essa è una parvenza di vita. Per gli ergastolani la morte è
una grazia anche quando è comminata dallo Stato o è decisa dalla
volontà di ciascuno alla resa, e la Chiesa deve avvertire
l’imperativo misericordioso di lasciare morire in pace chi è già
morto dentro.
mercoledì 25 luglio 2018
La tortura
Scontare la vita morendo come sosteneva Anassimandro? Pagare
con la morte e prima ancora con la sofferenza la colpa di esistere? La vita con
la sua crudeltà sembra dar ragione ad Anassimandro e l’uomo appare vittima di
un ingiusto destino. Da sempre ci si interroga sul perché del male senza
riuscire a trovare una risposta soddisfacente, tutti però conveniamo sull’obbligo
morale dell’uomo di porre, per quanto gli è possibile, un argine ad esso. In un
recente commento all’opera di Nietzsche, Claudio Magris, a proposito del male,
scrive: “La tragedia infame dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei
malati, dei torturati, dei massacrati è il cancro del mondo, contro cui è
necessario e così difficile combattere”. Combattere Il male dunque è un
imperativo categorico e anche quando la violenza si impone come accade allorché
lo Stato priva della libertà il cittadino che si macchia di un reato, essa non
può andare oltre i confini previsti dalla legge e trasformarsi in violenza
gratuita o addirittura sconfinare nella tortura. Purtroppo spesso questi
confini non vengono rispettati. Quando pensiamo a Gabriele Cagliari il quale,
dopo quattro mesi di “canile” (è la definizione da lui data alla detenzione
nell’ultima lettera ai suoi familiari) nel carcere di San Vittore prima che
fosse accertata definitivamente la sua colpevolezza, devastato dal dolore e
dalla vergogna, ha posto fine alla sua vita, quando pensiamo ad Enzo Tortora il
quale, accusato di essere un trafficante di droga e un venditore di morte, è
stato lasciato marcire in carcere per mesi da magistrati che si sono rivelati
inadeguati al ruolo, prima di essere riconosciuto innocente, e di lì a poco è
morto di crepacuore, quando pensiamo al suicidio di Raul Gardini rimasto
stritolato nel terribile gioco al massacro di una stagione carica di veleni in
cui il tintinnio delle manette era il refrain ricorrente, quando pensiamo ai 7
innocenti condannati all’ergastolo per l’eccidio Borsellino grazie al
depistaggio di funzionari dello Stato e riconosciuti innocenti solo dopo 15 anni
di detenzione non dovuta, quando pensiamo ai tanti indagati che finiscono sulla
graticola dell’inquisitore e, ancor prima di essere condannati da un tribunale
della Repubblica, sono condannati alla gogna ad opera della folla tumultuante che
li lincia in piazza, e alcuni di essi decidono che non valga più la pena di
continuare a vivere, quando pensiamo ai detenuti in regime di 41 bis i quali la loro vita la perdono un pezzo al giorno
trascinandosi in un incubo che annulla qualsiasi parvenza di umanità (Jean Paul
Costa presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato:
“Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla
detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione
mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato”), quando pensiamo
ad alcuni poteri dello Stato, dalle cui decisioni dipende la vita e la
reputazione di ciascuno di noi, che trasformano la loro indipendenza in
arroganza e impunità e non si curano della giustizia ma della loro volontà di
potenza, non possiamo non dirci allarmati e non è esagerato parlare di tortura.
E quando l’on. Meloni strepita proponendo l’abolizione del reato di tortura, perché,
a suo dire, una tale codifica equivale a privare le forze dell’ordine di uno
strumento essenziale per svolgere efficacemente il loro lavoro, non possiamo
non preoccuparci per questo approccio che pretende di autorizzare la tortura
quale strumento di legge. Il caso Cucchi che ci racconta di un ragazzo
massacrato dalle forze dell’ordine per “svolgere il loro lavoro”, è lì a
ricordarci che la giusta severità comandata dalla legge non può essere un alibi
per infliggere la tortura. Ad alimentare ancora di più questa logica giacobina
ci hanno pensato alcuni nostri intellettuali, omertosi quando devono spartirsi
l’argenteria di famiglia, garruli quando devono contrabbandare la loro fedeltà
a valori su cui costruire rendite di posizione. Questi campioni della doppia
morale dall’alto dei loro privilegi pontificano di giustizia sociale stando
però attenti a non mischiarsi con la plebe perché, per dirla con Ricossa,
“amano il popolo come astrazione ma lo detestano come insieme di persone vive e
cioè rumorose, volgari, sudate,invadenti”, lucrano le loro guarentigie fottendo
i disperati di cui si fanno paladini a parole e naturalmente invocano la forca
ad ogni piè sospinto.
mercoledì 4 luglio 2018
I reietti
In Italia esiste una specie sconosciuta ai più, quella dei
reietti, gli ultimi della società bollati dalle loro colpe o dal pregiudizio e
relegati ai margini del consorzio civile. Di essi si occupano con particolare
impegno i benemeriti ideologi dell’intolleranza che da sempre conducono contro la
specie una vera e propria crociata lasciando sul terreno le vittime prescelte
dal loro dogmatismo etico. Privato di buona parte dei diritti fondamentali, ridotto
a paria della società, il reietto è una preda facile da addentare senza che alcuno
corra in sua difesa. Il ghiro coda di topo, la farfalla monarca, il lemure del
Madagascar possono contare sulla discesa in campo dei buoni contro il pericolo
della loro estinzione, i reietti no, essi
sono marchiati a fuoco senza possibilità di riscatto, sono carne marcia su
cui si avventano i giacobini con la bava
alla bocca che, seduti sul pulpito della loro superiorità morale, negano
qualsiasi chance a chi tenta di risalire la china di una deriva che l’ha visto
soccombente. Privi di dubbi i saccenti promotori dei comitati di salute
pubblica conducono la loro campagna di odio che non concede remissione alle
colpe, e costruiscono attorno agli indegni un cordone sanitario che eviti la contaminazione
del tessuto sano. E’ l’etica che insegue il successo e cavalca l’intransigenza
funzionale all’edificazione delle carriere dei sepolcri imbiancati impegnati ad
apparire, la stessa etica che tiene i vili alla larga dal rischio della
contaminazione. Vengono così eretti muri di indifferenza quando non di ostilità
che guardano con sospetto all’autenticità di un cammino di redenzione e ne
vanificano gli sforzi. I campioni dell’intransigenza e della superiorità morale
che, guarda caso, si identificano con larghi settori dell’establishment
culturale, fanno dell’intolleranza il loro credo e del cinismo lo strumento del
loro successo. A dispetto di essi può però
accadere che anche per i reietti la vita abbia in serbo una qualche forma di
risarcimento, è accaduto a me. Oggetto degli appetiti della stampa quando c’era
da banchettare con la mia vicenda giudiziaria, snobbato quando c’era da dare
testimonianza dei miei timidi tentativi di rinascita, respinto dal raccapriccio
della cosiddetta società civile, sono stato raggiunto dalla carezza di una straordinaria
signora impegnata non a declamare la vuota retorica di un moralismo livido che lascia
alle proprie spalle solo macerie, ma a costruire luoghi di speranza inseguendo
la propria vocazione, mettendo in campo la propria storia di donna baciata dal
successo per aiutare gli ultimi d’Africa, reietti anche loro, cui dona tutto
quello che può di sé, “una piccola goccia che contribuisce a fare l’oceano”,
come è solita affermare. Lei non è si fermata sulla soglia della mia indegnità
ma è andata oltre, si è fatta largo tra le pieghe di un animo in cui è
rischioso addentrarsi, come scrisse di me un noto editorialista, e tuttavia ha
deciso di fidarsi, ha deciso che non meritavo la gogna riservatami dalle tricoteuses
urlanti ai piedi del patibolo, ha creduto che meritassi la sua preziosa
amicizia e me ne ha fatto dono prendendomi per mano e accompagnandomi fuori dalle
mura del lager dove sono rimasto segregato per anni.
giovedì 21 giugno 2018
Salvini
Viene voglia di tifare per Salvini, e infatti buona parte
degli italiani lo fa mentre le solite prefiche, in preda ai consueti isterismi,
non sanno fare di meglio che gridare al lupo tacciando il nostro ministro
dell’Interno di fascismo per i suoi atteggiamenti muscolari e i suoi scivoloni
lessicali che sono un insulto all’intelligenza e sintomo di incultura ma che
tutto sommato attentano solo al buon gusto, sempre che alle parole non seguano
i fatti. Nessuno di loro che si interroghi sul perché, nonostante tutto, tanta
gente abbia decretato il successo del capo leghista. Egli ha i toni del bullo
di periferia, frequentazioni internazionali poco raccomandabili, alleanze
contraddittorie con gente ( Orbàn ) che ha a cuore interessi contrari ai nostri,
ha detto peste e corna dei meridionali salvo scendere successivamente in mezzo
a loro agitando la bandiera delle loro rivendicazioni con una disinvoltura da
funambolo della coerenza, millanta progetti che sa di non potere realizzare, ha
un eloquio poco istituzionale ( è finita la pacchia ), azzarda sfide che ci fanno
rischiare l’emarginazione, eppure imperversa col vento in poppa e con la prospettiva di fare il pieno al prossimo
turno elettorale. Se invece di ricorrere a facili demonizzazioni facessimo un’analisi onesta, capiremmo che
Salvini è il frutto di errori che sono
stati fatti e continuano ad essere fatti da tutti e ai quali bisogna sforzarsi
di porre rimedio. Una delle ragioni che spiegano il suo successo è il pugno
duro contro l’approdo nelle nostre coste dei migranti, e certo non ha aiutato a
ridimensionare la sua intransigenza (
anzi, il contrario ) l’uscita infelice dei francesi che con una faccia tosta
degna di miglior causa pretendono di dare lezioni di umanità sul fronte
dell’accoglienza a noi italiani che siamo tra i primi al mondo nell’universo
del volontariato e della solidarietà, e al contempo chiudono le porte di casa
loro respingendo i migranti a Ventimiglia e blindando i loro porti. Ahinoi, la Francia
non perde il vizio di salire in cattedra e impartire lezioni con la solita
prosopopea e il solito complesso di superiorità inconcludente e velleitario. La
miopia e l’inadeguatezza dell’Europa hanno fatto il resto e Salvini ha avuto buon gioco a farsi passare per paladino del
suo popolo con la narrazione dell’attacco portato ai nostri interessi dalle élites europee e del peggioramento
delle già precarie condizioni dei nostri concittadini più poveri a causa della
concorrenza dei disperati d’Africa, contro cui può impunemente impugnare la
bandiera dell’euroscetticismo e della xenofobia. Si può dire senza tema di smentita che il progenitore di Salvini è
l’Europa. Se alla Francia è stata data
la possibilità di fare sfracelli in Libia con il conseguente verminaio della
guerra di tutti contro tutti che ha fatto saltare il tappo all’ondata
migratoria incontrollata (in nome di una crociata umanitaria che nascondeva la solita
smania di grandeur), se alla Germania e ai Paesi del Nord Europa è stato
consentito di praticare una cieca politica di rigore che ha avuto come primo
obiettivo il consolidamento delle loro economie forti senza alcuna
considerazione per il welfare dei Pesi più poveri, se è stato consentito loro di
gestire la crisi finanziaria greca con una intransigenza pelosa che ha salvato
alcune banche tedesche buone a lucrare grossi guadagni sulla pelle della Grecia
in tempi di vacche grasse ma non a pagare le conseguenze del rischio assunto
allorché i loro investimenti sono diventati carta straccia, e di fare invece la
faccia feroce contro lo Stato italiano quando questo è corso in aiuto delle
nostre banche in crisi, se al contrario l’Italia, con la zavorra del suo debito
pubblico e con la sua insipienza, si è autorelegata al ruolo di comparsa senza
alcun peso nelle decisioni che contano ed è costretta a presentarsi col
cappello in mano tutte le volte che chiede un minimo di flessibilità, mentre invece
altri Paesi ne hanno abusato senza che ciò abbia destato scandalo, se ai Paesi
dell’est europeo è stato consentito di attingere a piene mani dalle risorse
europee ma non è stato imposto di rispettare gli obblighi ai quali sono
vincolati, se l’Italia e la Grecia sono state abbandonate al loro destino di
Paesi da ultima spiaggia dove navi battenti bandiere di altri Paesi, sulla autentica
vocazione solidale di alcune delle quali è lecito nutrire dubbi, riversano il
loro carico di umanità anziché fare
rotta verso i Paesi di appartenenza e invece ai Paesi del resto d’ Europa è stato consentito di chiudere
i loro porti e di gridare, con una
logica che lascia di stucco, alla irresponsabilità e al cinismo quando a
chiudere i porti sono stati gli italiani, se la Germania ha ottenuto che
venisse elargita alla Turchia una regalia di 3 miliardi di euro l’anno, attinti
dalle casse dell’Europa, in cambio del blocco della rotta balcanica e il
conseguente maggior flusso migratorio sulla rotta del Mediterraneo, se non si
riesce a modificare il trattato di Dublino che impone di tenere i migranti nel
Paese in cui arrivano e in più si profila all’orizzonte la minaccia del signor Seehofer, ministro
dell’Interno tedesco, di rinviare i migranti accolti in Germania ma privi dei
requisiti necessari, verso i Paesi dove sono stati registrati (vedi Italia e
Grecia), se insomma in Europa allignano furbizie, egoismi e ipocrisie, vige il
tornaconto dei Paesi più forti che
riescono a fare sistema, se lo sguardo non va oltre la siepe degli interessi
particolari e ignora le rivendicazioni e le giuste ragioni dei Paesi meno forti,
non ci si può scandalizzare se a tutto ciò si oppone la rodomontesca
aggressività di Salvini. L’Europa nasce come patria di tutti con un progetto
solidale e una carica ideale che poggia su valori comuni e ha forgiato lungo gli anni identità che si
sono sempre più integrate creando le fondamenta di quella che può diventare una
unica futura nazione. Una nazione si assume il carico del buono e del meno
buono che trova sulla sua strada. Se la Germania occidentale avesse fatto solo
calcoli di convenienza economica avrebbe dovuto rinunciare all’unificazione. Se
l’Europa ha come obiettivo solo l’etica del rigore e non la solidarietà, se non
sa volare alto ispirandosi agli ideali superiori che l’hanno fatta nascere, se
non sa condurre la battaglia in difesa dei più deboli (senza sconti, sia
chiaro, sul rispetto delle regole di cui anche i deboli si debbono far carico e
sullo sforzo che essi devono produrre in direzione di una più virtuosa gestione
della propria economia) facendone la battaglia di tutti perché comune è il destino
di essa e le criticità rischiano di trasformarsi in un boomerang per l’intero
sistema, se non sa dotarsi di una politica estera unisona che non obbedisca a
interessi particolari e ci faccia combattere a ranghi serrati le sfide globali
che ci attendono, tra cui l’emergenza emigranti da affrontare con un approccio
coeso, corresponsabile e intelligente, nella consapevolezza che essa è
l’avvisaglia di un esodo epocale e inarrestabile, essa ha fallito e il futuro è
dei Salvini e delle piccole patrie destinate ad essere fagocitate dai molossi
universali.
lunedì 4 giugno 2018
I dioscuri
Con l’irruzione sulla scena di Di Maio e Salvini i giacobini italiani possono
contare su due alfieri irriducibili delle
loro frustrazioni e delle loro fobie.
Col suo portamento da abatino, con la sua grisaglia
d’ordinanza, con il suo pedigree incolore, con il suo lessico infarcito di
strafalcioni, lo scugnizzo di Pomigliano li rappresenta a pieno titolo e li
guida all’assalto del potere a dispetto dei saperi e delle competenze. Teorico
della democrazia diretta di rousseauiana memoria (ma ha letto Rousseau?),
affida agli algoritmi della Casaleggio Associati il compito di reclutare in
rete i disinvolti sostenitori delle più strampalate semplificazioni, una
minoranza che rappresenta solo se stessa, di assecondarne le pulsioni
velleitarie e, spacciandoli per espressione della volontà popolare, proiettarli
ai vertici delle istituzioni. Sostituisce, senza avvertire il senso del
ridicolo, Tocqueville con Grillo e pretende di mandare in soffitta le regole
della vita democratica, teorizzando una dittatura della maggioranza autoreferenziale
che non risponde ai vincoli previsti dalla Costituzione. Bipolare e corrivo,
transita da un opposto all’altro prestando orecchio agli altalenanti umori
della piazza e cambiando parere a seconda delle convenienze. Il suo capolavoro
è stato la contradanza degli atteggiamenti contraddittori nei confronti del
Capo dello Stato. E’ passato dalle lodi più sperticate(“ Piena fiducia in un
grande uomo come Mattarella su qualsiasi decisione”, “Nessuna pressione su
Mattarella”, Mattarella pienamente rispettoso della Costituzione”) quando
ancora questi non aveva bocciato il nome di Savona, alle accuse più infamanti (
“Complice dell’establishment”, “Traditore della Costituzione da mettere in
stato d’accusa” ) e addirittura alla richiesta di impeachment, per servirci alla fine
l’ennesima capriola, la versione dell’agnellino pronto a collaborare. Con la
Lega non è stato da meno passando dalla demonizzazione all’alleanza con essa.
Salvini dal canto suo non ha niente della sprovvedutezza del
suo gemello ma proprio per questo è più pericoloso. Egli dispone di un cinismo
e di un fiuto che lo hanno fatto muovere con abilità nella intricata trattativa per la
formazione del governo. Aveva un piano e lo ha centrato in pieno piazzandosi al
centro della scena e proponendosi come elemento insostituibile. Ha dimostrato
di possedere una sua intelligenza strategica ma non l’etica della
responsabilità e ha messo il suo background al servizio dell’ interesse di
parte piuttosto che dell’interesse nazionale. Ingrugnito e pieno di sé, cavalca
i peggiori istinti della piazza con linguaggio tribunizio e incendiario, mostrando
di non possedere quella dote che fa la grandezza di un leader, la capacità di
rinunziare al proprio ego per amore della Patria, unita al senso della missione
visionaria che ha al suo centro l’interesse superiore. Anche lui non si è
risparmiato nella gara agli insulti con i 5 Stelle prima di sposarseli con
tanto di contratto.
Questi due campioni così diversi e così uguali, accomunati
da un peronismo d’antan, ci hanno fatto penzolare per due giorni sull’orlo del
precipizio fino a quando sono stati spaventati dalla nemesi dei mercati e, di
fronte allo scenario catastrofico che rischiava di mandare in malora il Paese, non
per amor di Patria ma per calcolo, sono venuti a più miti consigli. Il governo
è fatto ma affrontiamo trepidamente il viaggio in mare aperto consapevoli che i
soci di maggioranza di esso sono questi signori e che la loro inaffidabilità non è il miglior
viatico per una navigazione tranquilla.
lunedì 28 maggio 2018
L'occasione mancata
I 5 Stelle e il Carroccio sono arrivati a un passo dal
governare ma non sono riusciti a varcare la soglia di Palazzo Chigi a causa di
un nome, quello di Paolo Savona. Attorno a questo nome, proposto da Giuseppe
Conte, Presidente del Consiglio incaricato, per la poltrona di ministro
dell’economia, e bocciato dal Presidente Mattarella, si è consumata la frattura
fra quest’ultimo e Di Maio e Salvini che hanno fatto della candidatura di
Savona un punto irrinunciabile per il
varo del governo. Come è possibile che per un nome si sia arrivati a tanto? La
verità è che dietro lo scontro sul nome si nasconde uno scontro su una diversa
visione politica. Il programma dei nuovi aspiranti a governare prevede un
programma economico che desta perplessità sul piano della disciplina di
bilancio con progetti realizzabili attingendo a risorse pubbliche e facendo
crescere il debito pubblico. Chi contesta questo programma sostiene che con la
sua realizzazione si determina una eterogenesi dei fini, poiché la crescita del
debito pubblico produce il risultato di fiaccare la nostra economia a scapito
proprio dei più deboli che con quei progetti si vogliono tutelare. E teorizza
che, se si vogliono veramente realizzare progetti solidali, non si può che puntare su una maggiore crescita ottenibile
riducendo, non aumentando il debito pubblico, e liberando le risorse necessarie
a promuovere le attività produttive e garantire un pur modesto ammortizzatore
sociale. Lo scenario dipinto da chi muove queste critiche lascia intravedere
addirittura il pericolo che una politica di spesa non sostenuta dalla crescita
possa condurre alla bancarotta. Questi timori, seppure non così apocalittici,
sono condivisibili ma onestà vuole che siano condivisibili anche le riserve di
Salvini e Di Maio nei confronti di una Europa la cui intransigente politica di
austerity definita da Francesco Forte “arroganza del razionalismo
tecnocratico”, gestisce il sogno europeo piegandolo agli interessi dei più
forti e tradendo la vocazione solidaristica che l’ha fatto nascere. In questa
direzione l’Italia deve far sentire la sua voce ma per farlo deve avere le
carte in regola. Certamente i nostri
conti in disordine e il programma di Salvini e Di Maio non sono un buon
viatico. Detto questo rimane il fatto che con tutte le loro contraddizioni i 5
Stelle e il Carroccio erano legittimati a governare. A questa legittimazione fa
da contraltare la legittimazione del Capo dello Stato al quale è assegnata
dalla Costituzione la prerogativa di nominare i ministri che gli vengono proposti
e quindi anche di bocciare quelli che non condivide. Nel caso del professor
Savona, il Capo dello Stato ha ritenuto che le posizioni euroscettiche di
quest’ultimo ( e, sospetta chi scrive, i programmi di Salvini e Di Maio )
potessero spaventare gli investitori e farli fuggire dagli investimenti in
Italia facendo mancare risorse indispensabili a tenere in piedi la macchina
dello Stato. Lo ha detto chiaramente, temeva un aumento del debito pubblico, un
aumento degli interessi per i mutui, un pericolo per i risparmi degli italiani.
E temeva anche l’uscita dell’Italia dall’euro con le conseguenze che è
pleonastico elencare. Alcune avvisaglie si erano cominciate a palesare con lo
spread in salita e i mercati in picchiata. L’allarme del Presidente dunque si
può capire e la sua decisione appare legittima sul piano istituzionale perché
fa riferimento ad una prerogativa prevista dalla costituzione e si preoccupa
degli interessi del Paese, ma desta perplessità sul piano della opportunità in
chi vede nella sua decisione una invasione di campo. Due posizioni, come si
vede, altrettanto legittime anche se attestate su visioni diverse, che
avrebbero dovuto essere conciliate con senso di responsabilità, e che invece
sono state avvelenate da accuse reciproche. I 5 Stelle e il Carroccio accusano
Mattarella di obbedire ai diktat di alcune cancellerie europee e di avere
indebitamente impedito un legittimo percorso democratico intervenendo a gamba
tesa su una decisione politica di chi ha vinto le elezioni, il Presidente
sostiene di avere esercitato una sua correttissima prerogativa e di avere messo
sull’avviso per tempo sulla sua decisione contraria al nome di Savona, senza
ricevere obiezioni, offrendo la sua disponibilità a prendere in considerazione
un altro nominativo e dimostrando così di non avere voluto ostacolare la
formazione del governo. Nell’entourage
del Presidente della Repubblica si guarda con stupore e amarezza al mistero
della strana intransigenza di Salvini sul nome di Savona che da molti viene
letta come uno stratagemma per fare saltare il banco e andare a elezioni
anticipate. Da una parte dunque l’accusa che il Capo dello Stato non abbia
fatto gli interessi dell’Italia, dall’altra il sospetto che si sia cercato il
casus belli per meschini calcoli elettoralistici, ma, diciamolo chiaramente,
quello che sgomenta è l’arroganza e la mancanza di rispetto che viene riservata
alla più alta carica dello Stato e
l’assenza del senso di responsabilità, nel momento forse più delicato della
nostra storia repubblicana, da parte di chi si riempie la bocca con proclami
sull’interesse della collettività. Come si vede un bel quadro in cui la sola a
fare le spese è l’Italia precipitata in una crisi politica e, con la richiesta
di impeachment, in una crisi istituzionale. Non c’è che dire, siamo in buone
mani
martedì 22 maggio 2018
Il linciaggio, nuova frontiera della giustizia
Nei giorni scorsi sono stati celebrati gli anniversari delle morti di Enzo Tortora e del commissario
Calabresi, due date tragiche che evocano due casi analoghi di linciaggio
giudiziario e mediatico. Tortora fu giustiziato moralmente dal PM Marmo che lo
accusò di collusione con la camorra ottenendone la condanna in primo grado
sulla base delle dichiarazioni dei pentiti Barra e Pandico alle quali non si
preoccupò di trovare riscontri oggettivi. Come finì lo sappiamo tutti, per Tortora con l’assoluzione piena e
definitiva dopo un calvario di diversi
anni che lo condusse alla morte prematura per crepacuore, per Marmo in modo
inglorioso, con la smentita del suo impianto accusatorio ma soprattutto con il
peso di quella terribile affermazione da lui fatta durante la requisitoria
quando chiamò Tortora “cinico mercante di morte”. Il caso Tortora non è il solo
svarione nel quale è incorso il PM Marmo visto che fu ancora lui a sostenere
l’accusa per traffico di stupefacenti contro il soldato Raiola il quale fu assolto
ma non poté evitare che la sua vita andasse a rotoli prima che venisse
riconosciuta la sua innocenza. L’arrembante disinvoltura non ha impedito al giudice
Marmo di fare carriera in magistratura senza che i superiori organi si
preoccupassero di disinnescare questa mina vagante.
Caso pressoché analogo quello del commissario Calabresi
vittima del giornalismo manettaro e ideologicamente schierato che non esitò ad
accusarlo della morte dell’anarchico Pinelli consegnandolo al mirino dei militanti di Lotta
Continua che punirono la sua presunta responsabilità assassinandolo. Anche in questo caso sappiamo
come finì, Calabresi fu riconosciuto estraneo alla morte di Pinelli e le icone
giornalistiche dell’epoca non mostrarono di avere alcun soprassalto di
coscienza né di nutrire alcun dubbio sul ruolo salvifico del loro giacobinismo.
Epigoni di quell’intellighenzia supponente che ha dominato la cultura del
dopoguerra, questi campioni della superiorità morale che Pareto chiamava
“virtuisti”, hanno continuato a imperversare e, per dirla sempre con Pareto,
hanno preteso di “raccontarci che solo
un uomo disonesto può avere un’opinione contraria alla loro”, lasciandoci in
eredità discepoli livorosi e
intransigenti che, seduti sulle loro certezze, ripercorrono ancora oggi la
strada dei cattivi maestri. Ancorati al dogma della primazia della morale questi
rampolli esagitati, figli del furore etico, negano al diritto qualsiasi
ragionevolezza, alla giustizia la prudenza, all’applicazione della legge
l’attenzione necessaria a evitare, per quanto è possibile, l’errore sempre in
agguato e, obbedendo alla loro vocazione forcaiola, sentenziano che il
cittadino raggiunto da un avviso di garanzia è presuntivamente colpevole.
Quando ci esibiamo nei soliti rituali che accompagnano
anniversari tragici, non una voce si leva a denunciare il farisaismo dei
sepolcri imbiancati che continuano a pontificare stritolando la vita delle
persone, forti della loro impunità e dei poteri che rappresentano.
venerdì 18 maggio 2018
Libertà e uguaglianza
La Costituzione italiana all’articolo 1 recita: ”L’Italia è
una repubblica democratica fondata sul lavoro” . La dizione risente di una
impostazione ideologica che connota lo Stato in base all’identità di una parte sociale
piuttosto che a quella dell’intero tessuto sociale. L’idea del lavoro come
fondamento della democrazia assume in questo modo le sembianze di un discrimine
che cozza contro il principio sancito proprio dalla Costituzione che
all’articolo 3 recita: ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
uguali davanti alla legge”. Ed è una impostazione che si scontra con il
pensiero liberale da sempre assertore del principio secondo cui un’autentica
democrazia debba fondarsi sulla libertà senza disparità e senza limitazioni che
non siano quelle previste dalla legge, principio solennemente proclamato già nel
lontano 1789 nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che è
il testamento della nostra civiltà moderna e che all’articolo 2 pone in testa
all’elenco dei diritti fondamentali, appunto, la libertà. Libertà e uguaglianza
sono dunque i due principi in base ai quali tutti i cittadini hanno la
possibilità di esercitare i loro diritti in condizioni di parità, ma ciascuno in
base alle proprie capacità, e di affrontare nel giusto modo le disuguaglianze che
la natura, assai meno equanime della legge, decreta assegnando doti diverse e
spesso diseguali. La libertà fa di queste disuguaglianze delle opportunità se
lo Stato permette alla libera iniziativa di dispiegarsi, non imponendo
dall’alto l’omologazione artificiosa di una uniformità che finisce per realizzare
la più iniqua delle disuguaglianze, non opponendo alla creatività delle idee
l’ineluttabilità della materia che relega gli elementi ideali nella soffitta della
sovrastruttura (materialismo storico), non negando a nessuno il diritto di
starsene alla finestra a guardare o invece di sprigionare i propri spiriti
animali, l’estro, la fantasia, l’ingegno, di sfidare i rischi per proprio conto
e produrre maggiori opportunità per gli altri. Il profitto di chi si mette in
gioco reinvestito in attività produttive assume la funzione di propellente
della crescita e dell’occupazione piuttosto che le sembianze della farina del
diavolo, e il lavoro con le ricadute in termini di giustizia sociale si rende
possibile non per decreto ma grazie al talento creativo legittimamente espresso
che obbedisce alla propria vocazione e al contempo col suo dinamismo promuove i
diritti dei meno dotati. Allo Stato spetta
il compito di vigilare affinché le diversità non diventino privilegi gratuiti, non si creino sacche di impunità e
caste voraci, il profitto non diventi selvaggio, e di esercitare la giusta
rappresentanza delle istanze dei cittadini come si conviene ad una autentica
democrazia. La democrazia liberale, è bene ricordarlo, ha reso possibili le
conquiste di cui godiamo ed è un patrimonio prezioso da tutelare contro le
tentazioni qualunquistiche di quanti scrivono libri dei sogni facendo promesse impossibili
da realizzare. Il pragmatismo che ha preso per mano il liberalismo
contemporaneo e lo ha accompagnato verso la realizzazione di un riformismo
sociale sostenibile, è uno strumento che non possiamo mandare in soffitta.
venerdì 20 aprile 2018
L'innocenza violata
Il 16 aprile 1973 a Roma, quartiere Primavalle, perirono,
arsi vivi in un rogo, Stefano Mattei di 8 anni, e il fratello Virgilio di 22
anni. Furono le vittime dell’incendio appiccato alla loro casa da alcuni
esponenti del movimento extraparlamentare di estrema sinistra Potere Operaio,
giovani della buona borghesia romana che giocavano a fare i rivoluzionari e non
si facevano scrupolo di arrostire i rappresentanti del proletariato che avevano
il torto di essere figli di un “fascista”. In nome della lotta al fascismo
bruciare vivo un bambino di 8 anni rientrava nella logica dei danni collaterali
cui si deve prestare ogni sacrosanta battaglia per la democrazia. Ma l’enormità
del misfatto non si è fermata al massacrò in sé, essa si è dilatata ancora di
più con la mistificazione operata dalla galassia di sinistra che si impegnò
nello sforzo di far passare la vicenda come una faida interna al mondo dei
nostalgici fascisti, costruendo una realtà parallela e falsa che aveva come
scopo di scagionare i veri colpevoli. Cortei e appelli pro-indagati furono
inscenati manipolando la realtà e ficcando cinicamente l’inganno dentro la
solita sbornia ideologica. In nome delle magnifiche sorti e progressive anche
la terribile morte di un bambino ad opera di delinquenti politici veniva
strumentalizzata per fini ideologici. Erano i tempi in cui i brigatisti rossi
veniva gratificati con l’indulgente epiteto di compagni che sbagliano. Buona
parte di questo ciarpame ideologico ha continuato a imperversare, anzi ha
conquistato il centro della scena decretando quello che è giusto e quello che
non lo è, quello che è morale e quello che non lo è, impossessandosi del ruolo
di mosca cocchiera delle coscienze e rivendicando l’esclusiva del politicamente
corretto. Sono i campioni di questo ciarpame che decidono quali sono le
battaglie da combattere intestandosele in esclusiva e costruendo su di esse
reputazioni altrimenti improbabili. Sono gli eredi di coloro che hanno ucciso
una seconda volta il piccolo Mattei impegnandosi nell’occultamento della verità
e che hanno rimosso un episodio emblematico del loro cinismo ideologico
banalizzandolo come un qualsiasi episodio di cronaca nera, gli stessi che oggi fanno
sentire più alte le loro voci rispetto all’unanime indignazione per l’infame
uccisione del piccolo Di Matteo. Persino l’indignazione diventa per i nostri
campioni strumento ideologico e assume una colorazione diversa a seconda che un
bambino trucidato si chiami Mattei o Di Matteo.
giovedì 12 aprile 2018
Lula
A quanto pare il Brasile è un Paese alla mercé di un regime
che affida l’amministrazione della giustizia a tribunali speciali. Non ce ne
eravamo resi conto fino a quando non hanno provveduto ad aprirci gli occhi i
santoni della sinistra italiana i quali hanno firmato un manifesto con cui
decretano l’innocenza di Lula e accusano i magistrati brasiliani di avere
emesso una sentenza di colpevolezza non fondata, con lo scopo di cambiare le sorti delle prossime elezioni
politiche in Brasile. Una magistratura deviata dunque al servizio di non meglio precisati interessi occulti. Lula
a sua volta ha messo in discussione la legge, quella stessa legge di cui era
garante quando era presidente del Brasile, ponendosi al di sopra di essa con la
sua decisione di sottrarsi alla pena e col sostegno dei suoi seguaci che
assieme a lui si sono barricati nella sede del sindacato e hanno sospeso per
parecchi giorni l’esecuzione della condanna. Quando finalmente ha deciso di
consegnarsi alla giustizia, ha posto come condizione che il trasferimento in
carcere avvenisse con un aereo privato e la detenzione fosse scontata in una
prigione dorata. Tutto questo non ha scandalizzato i nostri campioni della
democrazia che anzi, mentre ieri osannavano le sentenze che in Italia condannavano
alcuni protagonisti della vita politica di parte avversa e insorgevano contro
le accuse di partigianeria lanciate ai nostri magistrati, oggi non hanno lo
stesso rispetto nei confronti di una sentenza della magistratura brasiliana della
cui reputazione, evidentemente, non hanno grande considerazione. E’ una
questione di quarti di nobiltà, la magistratura italiana ha i quarti giusti e
merita di salire sugli scudi poiché colpisce nella direzione gradita agli
illuminati di casa nostra, quella brasiliana invece, poiché si permette di
colpire un unto della sinistra come Lula, merita di essere trattata alla
stregua di una banda di malfattori dedita a disegni criminosi. E’ la logica dei
nostri disinvolti moralisti, indulgenti con gli amici e severi con i nemici,
inossidabili nella loro presunzione di un’etica superiore che poggia su
categorie ideologiche.
domenica 1 aprile 2018
La Pasqua
Come ogni anno la Pasqua è l’occasione per i soliti rituali che
vedono impegnati i bravi cristiani nelle liturgie dei buoni propositi. La
misericordia soprattutto e la pietà la fanno da protagonisti indiscussi con
proclami solenni sulle buone intenzioni che accompagneranno le nostre azioni
future. Ci ripromettiamo di perdonare i torti subiti, di rinunciare al rancore che
sostituiamo con un’orgia di buonismo all’apparenza
sincero ma in realtà farisaico. Perché, ahinoi, i sentimenti non sono così
autentici come appaiono e non includono i reietti della scala sociale che
rimuoviamo con colpevole indifferenza giocando a rimpiattino con la nostra
coscienza. Alla Pasqua gaudente e
festaiola dei cristiani redenti si oppone la mala Pasqua degli ultimi che la
redenzione sembra avere dimenticato, dei clochard ai margini delle strade, dei
carcerati lontani dagli affetti, degli anziani parcheggiati nei cimiteri degli
elefanti che chiamiamo case di riposo in cui si consuma la spietatezza di noi
figli, dei poveri privi delle necessarie provvidenze e della necessaria dignità,
dei malati dimenticati nelle corsie degli ospedali. E ancora di coloro che
vivono una disperante solitudine esistenziale e in questo periodo sentono di
più la loro angoscia privi come sono di un qualsiasi appiglio al quale
aggrapparsi presso i propri simili indaffarati nelle incombenze festive, e dei
figli di una generazione che vive un malessere profondo e maledice le festività
percepite come un insulto alla propria condizione precaria, e di quelli che non
hanno fede e si muovono disorientati nel clima di festa come degli alieni in un
pianeta inospitale. Di coloro ai quali per decenni è stato impedito di abbracciare
i propri cari detenuti in quell’universo kafkiano che è il 41 bis e che durante
le feste sentono ancora di più la crudeltà di questa innaturale mutilazione degli
affetti praticata da uno Stato vendicativo e dedito alla tortura. E di Stefania
che, senza piangersi addosso e con forza d’animo, sta combattendo la battaglia
più dura della sua vita contro l’ingiustizia di un male vile che aggredisce la
sua età innocente. Stiamo parlando dell’indifferenza di un mondo sempre più
scristianizzato. Che dire? Buona Pasqua o mala Pasqua? A ciascuno la Pasqua che la sorte gli ha assegnato. .
sabato 3 marzo 2018
Fascismo e antifascismo
Il tic di certa cultura di sinistra ci regala in questi
giorni una delle tante sbornie nelle quali è solita incorrere, quella del pericolo
fascista che metterebbe a rischio la nostra democrazia. Si dichiarano
antifascisti i consueti personaggi che ci hanno abituato alle battaglie più
improbabili sui temi più vari, declinati con la solita intransigenza, e hanno
cavalcato ideologie che hanno costituito, esse si, un pericolo per la
nostra democrazia. Maitres à penser a braccetto con alti rappresentanti delle
istituzioni scendono in piazza e straparlano di pericoli inesistenti creando ad arte un clima d’emergenza che falsa
la lotta politica. Questi ineffabili
vessilliferi della democrazia a senso unico rivendicano l’esclusiva della
rispettabilità politica e della superiorità morale sventolando la bandiera
della lotta contro ogni genere di male, la corruzione, il malaffare, la decadenza
morale e politica, senza interrogarsi sulle proprie responsabilità, e demonizzano
gli avversari politici etichettati sbrigativamente
come fascisti. Antifascisti si dichiarano i giacobini
dei centri sociali che assaltano i luoghi di incontro di nostalgici fuori dalla storia e aggrediscono
le forze dell’ordine che hanno il solo torto di volere far rispettare la legge.
Nel momento stesso in cui dichiarano di volere combattere il fascismo, questi
teppistelli si comportano da fascisti negando agli avversari il diritto di esistere
e di esprimere legittimamente le loro idee. Antifascisti si dichiarano coloro che con
disonestà intellettuale tentano di far passare per una pagina di lotta al
fascismo quella che fu una vera e propria pulizia etnica perpetrata con
terribile ferocia dai macellai titini ai danni di migliaia di italiani d’Istria
e Dalmazia attraverso la pratica disumana
dell’ infoibamento. L’italianità fu considerata una colpa e confusa con
il fascismo e fu scritta una delle pagine più infami della ferocia umana che
alcuni cantori dell’epica partigiana in salsa messicana tentano di occultare o
di gabellare come una sacrosanta pagina di lotta antifascista. Antifascisti
si dichiaravano i protagonisti della stagione brigatista che assassinarono
servitori dello Stato, giornalisti, uomini politici, regalandoci uno dei
periodi più bui della nostra storia democratica e che gli antesignani degli
attuali campioni dell’antifascismo definivano con indulgente eufemismo: “compagni
che sbagliano”. Antifascisti
si dichiarano certi censori ai quali la cosiddetta società civile ha assegnato
il ruolo di guardiani della moralità e il diritto di stilare liste di
proscrizione con le quali stabiliscono chi è presentabile e chi non lo è,
escludendo, come è ovvio, coloro che a loro insindacabile giudizio sono
fascisti. Gli antifascisti
arrembanti in questa stagione di mistificazioni in cui tutto si confonde, non
si lasciano cogliere dal dubbio che la superiorità morale da loro rivendicata,
il rifiuto del dialogo con chi la pensa in maniera diversa dalla loro, la
mancanza di rispetto dell’altrui dignità, il fanatismo ideologico di cui sono
portatori sani, sono categorie di un integralismo settario che non ha nulla da
invidiare al fascismo. Non è il fascismo il vero pericolo, anche se fa un certo
effetto la Meloni in pellegrinaggio da Orbàn, il vero rischio è il populismo che
i protagonisti della politica di destra e di sinistra hanno concorso a far
nascere nei decenni passati ignorando l’arte del buon governo. I dilettanti
allo sbaraglio che inviano per posta al Capo dello Stato la lista dei ministri
dimostrando di non conoscere l’abc della grammatica costituzionale o che confondono
la Costituzione con la Bibbia e che con le loro boutades promettono un Paese
dei balocchi astratto dalla dura realtà che impone senso di responsabilità, essi,
si, sono il vero pericolo. E’ con loro che dobbiamo fare i conti, e per questo
bel regalo dobbiamo ringraziare chi li ha prodotti narrandoci le favole del
passato ma distraendosi e distraendoci dai problemi del futuro.
mercoledì 14 febbraio 2018
Il vizietto
Il vizietto caro alla
sinistra di gridare al lupo quando il lupo non c’è riaffiora puntuale alla
prima occasione. Stavolta l’occasione si è presentata con i fatti di Macerata,
cittadina diventata il vessillo di una battaglia corriva e ideologica.
L’exploit criminale di un demente che ha tentato una carneficina per vendicare
la morte di una giovane donna fatta a pezzi, ha fornito ai soliti barricaderi
il pretesto per organizzare una manifestazione antifascista. Sfido chiunque a
dimostrare che il gesto sconsiderato di un stupido infarcito di ideologie
farneticanti, possa essere considerato il sintomo di un ritorno al fascismo e costituire
un pericolo per la nostra democrazia. La democrazia corre rischi se si
mistifica la realtà e si confondono le menti come è accaduto nella
manifestazione di Macerata dove è ricorsa la solita paccottiglia sul fascismo
incombente e si sono visti in giro personaggi, i cosiddetti compagni che hanno
sbagliato e negli anni bui ci hanno deliziato con le loro gesta rivoluzionarie,
che ritenevamo definitivamente cancellati dalla storia e che invece risorgono dalle
ceneri riabbracciandosi con i compagni
che hanno guardato con indulgenza alle loro gesta e manipolando giovani coscienze
con la riesumazione di un settarismo di cui non si sente certamente il bisogno.
Questi dinosauri duri a morire e i loro invasati discepoli ci ammoniscono su
fantomatici mandanti morali, urlano slogan contro Minniti fascista, incitano a
dar fuoco alle sedi fasciste quando dentro c’è un bel po’ di gente da arrostire,
inneggiano alle foibe scambiando vittime con colpevoli, esibiscono striscioni per
ricordare i migranti vittime del raid di Traini ma dimenticano di menzionare
Pamela (della cui morte sono sospettati alcuni migranti) operando una rimozione
che sa di razzismo al contrario. E’ chiaro che non è il caso di ricorrere a
sbrigative etichettature attribuendo l’esclusiva della violenza ai migranti ma
è altrettanto chiaro che esiste un problema legato alla migrazione che non va
sottovalutato. Quando si fa del manicheismo ponendo tutto il bene da una parte,
esibendo un buonismo che declina un’accoglienza a gogò incapace di offrire
condizioni di vita dignitose ma capacissima di prestarsi a speculazioni e
sfruttamenti, può accadere che si creino sacche di disagio e che in questo
disagio si insinuino le farneticazioni del populismo e le reazioni sconsiderate
di menti malate. Bisogna allora interrogarsi sulle cause del disagio piuttosto
che demonizzare chi lo denuncia, in giro ci sono troppi stupidi che professano
razzismo senza bisogno che ci metta del suo il radicalismo ideologico che
chiude la porta al dialogo. La dogmatica delle verità infuse che non tollera di
essere messa in discussione, la mancanza
di un confronto civile in cui a tutte le opinioni sia consentita pari dignità,
costituiscono altrettanti ostacoli alla individuazione e rimozione delle cause
del disagio e anzi sono il brodo di coltura nel quale crescono e si
moltiplicano i batteri del pressappochismo e degli istinti retrivi. Il vuoto
culturale diventa così una prateria nella quale alligna la malerba
dell’intolleranza. Se siamo indotti a gridare
al lupo quando il lupo non c’è, se incoraggiamo il vuoto culturale riempiendolo
con fandonie, non possiamo aspettarci la saggezza necessaria per superare
momenti in cui la saggezza è necessaria.
martedì 23 gennaio 2018
I censori
L’aria contegnosa e il volto corrucciato, il sopracciglio
perennemente arcuato in segno di disapprovazione, gli illuminati conducono la loro crociata in difesa della verità assoluta agitando
la bandiera della superiorità morale e predicando l’obbedienza al politicamente
corretto, la bibbia che è obbligatorio osservare se si vuole evitare la scomunica.
Questi sacerdoti dell’intolleranza ideologica, seppure in minoranza, riescono a
soggiogare con l’arroganza delle proprie ragioni la grigia maggioranza silenziosa
priva di qualsiasi ancoraggio ideale e incapace di ribellarsi alla
colonizzazione delle coscienze. Imperversano, linciano, macchiano reputazioni, incitano
le masse all’odio, gonfiano il petto indignati contro la corruzione e il malaffare,
invocano la condanna all’emarginazione, fieri del loro pedigree immacolato. Ma
la superiorità morale rivendicata in esclusiva dai nostri Torquemada non sempre
odora di bucato, essa, quando è in buona fede, è il volto ingenuo e velleitario degli onesti
che urlano la loro rabbia alla luna, ma il più delle volte è la facciata
perbenista dei sepolcri imbiancati che digrignano i denti per conto dei padroni
del vapore, la maschera imbellettata dei servi al guinzaglio di interessi
occulti in cambio di prebende e carriere. Quando dalle colonne della testate
giornalistiche e dai salotti dei talk-show addomesticati tuonano contro i mali
del mondo, in verità questi piazzisti del pensiero unico si prestano ad essere,
vuoi per calcolo, vuoi per cieco furore
moralistico, strumenti più o meno
consapevoli degli oligarchi annidati nei santuari del potere che, sotto mentite
spoglie, mentre si propongono quali modelli di virtù morali in sintonia con gli
umori della piazza, perseguono una tirannia economica, politica, finanziaria e
persino giudiziaria parallela al potere dello Stato. Pupi e pupari, insieme
appassionatamente, hanno buon gioco perché si misurano col vuoto, perché alla
loro arroganza culturale e morale fa da triste contraltare l’assenza di una solida
coscienza civica, la mancanza di una proposta alternativa che non sia quella di
una certa parte politica impresentabile la quale farnetica di valori liberali
con una spudoratezza pari all’inadeguatezza con cui li tradisce. Ma salire in
cattedra e pontificare sulle magnifiche sorti e progressive della loro
centralità morale non assolve i nostri demagoghi dalla responsabilità per i
rischi cui espongono la nostra civiltà, la civiltà del diritto, la libertà dal
ricatto morale, la libertà di scegliere secondo principi piuttosto che secondo
il verbo del pensiero dominante, la reputazione di chi è sfiorato dal sospetto,
gli stessi principi fondamentali della Costituzione tradita dai medesimi che la
celebrano. In questo quadro ci avviamo verso la consueta sceneggiata elettorale
apprestandoci a ripetere un déjà vu e a consumare il solito rituale con cui
consegneremo gli eletti nelle mani di chi ne farà uso per i propri fini. Alla
schiera dei talebani del moralismo si oppongono le falange degli imbonitori che
vantano la bontà della propria mercanzia, entrambe offrendoci, dopo la bisboccia che ha
prosciugato le risorse del Paese, la sbornia delle panzane e facendo a gara a
chi le spara più grosse pur di portare a casa i risultati utili alla loro parte.
Godiamoci questa fiera dell’inganno da qui al 4 marzo.
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