Con l’irruzione sulla scena di Di Maio e Salvini i giacobini italiani possono
contare su due alfieri irriducibili delle
loro frustrazioni e delle loro fobie.
Col suo portamento da abatino, con la sua grisaglia
d’ordinanza, con il suo pedigree incolore, con il suo lessico infarcito di
strafalcioni, lo scugnizzo di Pomigliano li rappresenta a pieno titolo e li
guida all’assalto del potere a dispetto dei saperi e delle competenze. Teorico
della democrazia diretta di rousseauiana memoria (ma ha letto Rousseau?),
affida agli algoritmi della Casaleggio Associati il compito di reclutare in
rete i disinvolti sostenitori delle più strampalate semplificazioni, una
minoranza che rappresenta solo se stessa, di assecondarne le pulsioni
velleitarie e, spacciandoli per espressione della volontà popolare, proiettarli
ai vertici delle istituzioni. Sostituisce, senza avvertire il senso del
ridicolo, Tocqueville con Grillo e pretende di mandare in soffitta le regole
della vita democratica, teorizzando una dittatura della maggioranza autoreferenziale
che non risponde ai vincoli previsti dalla Costituzione. Bipolare e corrivo,
transita da un opposto all’altro prestando orecchio agli altalenanti umori
della piazza e cambiando parere a seconda delle convenienze. Il suo capolavoro
è stato la contradanza degli atteggiamenti contraddittori nei confronti del
Capo dello Stato. E’ passato dalle lodi più sperticate(“ Piena fiducia in un
grande uomo come Mattarella su qualsiasi decisione”, “Nessuna pressione su
Mattarella”, Mattarella pienamente rispettoso della Costituzione”) quando
ancora questi non aveva bocciato il nome di Savona, alle accuse più infamanti (
“Complice dell’establishment”, “Traditore della Costituzione da mettere in
stato d’accusa” ) e addirittura alla richiesta di impeachment, per servirci alla fine
l’ennesima capriola, la versione dell’agnellino pronto a collaborare. Con la
Lega non è stato da meno passando dalla demonizzazione all’alleanza con essa.
Salvini dal canto suo non ha niente della sprovvedutezza del
suo gemello ma proprio per questo è più pericoloso. Egli dispone di un cinismo
e di un fiuto che lo hanno fatto muovere con abilità nella intricata trattativa per la
formazione del governo. Aveva un piano e lo ha centrato in pieno piazzandosi al
centro della scena e proponendosi come elemento insostituibile. Ha dimostrato
di possedere una sua intelligenza strategica ma non l’etica della
responsabilità e ha messo il suo background al servizio dell’ interesse di
parte piuttosto che dell’interesse nazionale. Ingrugnito e pieno di sé, cavalca
i peggiori istinti della piazza con linguaggio tribunizio e incendiario, mostrando
di non possedere quella dote che fa la grandezza di un leader, la capacità di
rinunziare al proprio ego per amore della Patria, unita al senso della missione
visionaria che ha al suo centro l’interesse superiore. Anche lui non si è
risparmiato nella gara agli insulti con i 5 Stelle prima di sposarseli con
tanto di contratto.
Questi due campioni così diversi e così uguali, accomunati
da un peronismo d’antan, ci hanno fatto penzolare per due giorni sull’orlo del
precipizio fino a quando sono stati spaventati dalla nemesi dei mercati e, di
fronte allo scenario catastrofico che rischiava di mandare in malora il Paese, non
per amor di Patria ma per calcolo, sono venuti a più miti consigli. Il governo
è fatto ma affrontiamo trepidamente il viaggio in mare aperto consapevoli che i
soci di maggioranza di esso sono questi signori e che la loro inaffidabilità non è il miglior
viatico per una navigazione tranquilla.
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