Scontare la vita morendo come sosteneva Anassimandro? Pagare
con la morte e prima ancora con la sofferenza la colpa di esistere? La vita con
la sua crudeltà sembra dar ragione ad Anassimandro e l’uomo appare vittima di
un ingiusto destino. Da sempre ci si interroga sul perché del male senza
riuscire a trovare una risposta soddisfacente, tutti però conveniamo sull’obbligo
morale dell’uomo di porre, per quanto gli è possibile, un argine ad esso. In un
recente commento all’opera di Nietzsche, Claudio Magris, a proposito del male,
scrive: “La tragedia infame dei deboli, degli oppressi, degli sfruttati, dei
malati, dei torturati, dei massacrati è il cancro del mondo, contro cui è
necessario e così difficile combattere”. Combattere Il male dunque è un
imperativo categorico e anche quando la violenza si impone come accade allorché
lo Stato priva della libertà il cittadino che si macchia di un reato, essa non
può andare oltre i confini previsti dalla legge e trasformarsi in violenza
gratuita o addirittura sconfinare nella tortura. Purtroppo spesso questi
confini non vengono rispettati. Quando pensiamo a Gabriele Cagliari il quale,
dopo quattro mesi di “canile” (è la definizione da lui data alla detenzione
nell’ultima lettera ai suoi familiari) nel carcere di San Vittore prima che
fosse accertata definitivamente la sua colpevolezza, devastato dal dolore e
dalla vergogna, ha posto fine alla sua vita, quando pensiamo ad Enzo Tortora il
quale, accusato di essere un trafficante di droga e un venditore di morte, è
stato lasciato marcire in carcere per mesi da magistrati che si sono rivelati
inadeguati al ruolo, prima di essere riconosciuto innocente, e di lì a poco è
morto di crepacuore, quando pensiamo al suicidio di Raul Gardini rimasto
stritolato nel terribile gioco al massacro di una stagione carica di veleni in
cui il tintinnio delle manette era il refrain ricorrente, quando pensiamo ai 7
innocenti condannati all’ergastolo per l’eccidio Borsellino grazie al
depistaggio di funzionari dello Stato e riconosciuti innocenti solo dopo 15 anni
di detenzione non dovuta, quando pensiamo ai tanti indagati che finiscono sulla
graticola dell’inquisitore e, ancor prima di essere condannati da un tribunale
della Repubblica, sono condannati alla gogna ad opera della folla tumultuante che
li lincia in piazza, e alcuni di essi decidono che non valga più la pena di
continuare a vivere, quando pensiamo ai detenuti in regime di 41 bis i quali la loro vita la perdono un pezzo al giorno
trascinandosi in un incubo che annulla qualsiasi parvenza di umanità (Jean Paul
Costa presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato:
“Ancora per l’Italia la Corte ha sollevato dubbi sul frequente ricorso alla
detenzione in isolamento di condannati per reati gravi come l’associazione
mafiosa, con pesanti rischi per la salute psichica del carcerato”), quando pensiamo
ad alcuni poteri dello Stato, dalle cui decisioni dipende la vita e la
reputazione di ciascuno di noi, che trasformano la loro indipendenza in
arroganza e impunità e non si curano della giustizia ma della loro volontà di
potenza, non possiamo non dirci allarmati e non è esagerato parlare di tortura.
E quando l’on. Meloni strepita proponendo l’abolizione del reato di tortura, perché,
a suo dire, una tale codifica equivale a privare le forze dell’ordine di uno
strumento essenziale per svolgere efficacemente il loro lavoro, non possiamo
non preoccuparci per questo approccio che pretende di autorizzare la tortura
quale strumento di legge. Il caso Cucchi che ci racconta di un ragazzo
massacrato dalle forze dell’ordine per “svolgere il loro lavoro”, è lì a
ricordarci che la giusta severità comandata dalla legge non può essere un alibi
per infliggere la tortura. Ad alimentare ancora di più questa logica giacobina
ci hanno pensato alcuni nostri intellettuali, omertosi quando devono spartirsi
l’argenteria di famiglia, garruli quando devono contrabbandare la loro fedeltà
a valori su cui costruire rendite di posizione. Questi campioni della doppia
morale dall’alto dei loro privilegi pontificano di giustizia sociale stando
però attenti a non mischiarsi con la plebe perché, per dirla con Ricossa,
“amano il popolo come astrazione ma lo detestano come insieme di persone vive e
cioè rumorose, volgari, sudate,invadenti”, lucrano le loro guarentigie fottendo
i disperati di cui si fanno paladini a parole e naturalmente invocano la forca
ad ogni piè sospinto.
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